lunedì 27 settembre 2010

SU ELUANA ENGLARO SFIORATA LA CRISI ISTITUZIONALE

Molte polemiche ha suscitato l’iniziativa, assunta dal Governo pochi giorni prima della scomparsa di Eluana Englaro, di emanare un decreto legge che, vietando la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione forzata, impedisse, in concreto, che il decreto della Corte di Appello di Milano, conforme a quanto disposto dalla Corte di Cassazione, trovasse attuazione.
Come si sa, il decreto legge non è stato poi emanato, in quanto il Presidente della Repubblica ha negato la propria firma.
Secondo l’articolo 87 della Costituzione, infatti, compete al Presidente della Repubblica l’emanazione dei “decreti aventi valore di legge”. In proposito, la dottrina ammette che il Presidente della Repubblica possa sempre, in via informale, chiedere chiarimenti ed esprimere i propri rilievi critici al Governo, come è accaduto in questo caso.
Censurabile, quindi, non è stata tanto la lettera inviata da Napolitano al Governo, quanto la sua diffusione alla stampa, per iniziativa di Palazzo Chigi.
Si discute, invece, se il Presidente della Repubblica possa rifiutare il consenso alla emanazione di un decreto legge nell’ipotesi di mancanza del requisito della necessità ed urgenza: la prassi, tuttavia, almeno sin dalla presidenza Pertini, è nel senso di ammettere un controllo presidenziale sugli atti governativi pieno ed effettivo.
I rilievi che, nell’ipotesi concreta, il Presidente della Repubblica aveva mosso all’emanando decreto erano essenzialmente due, la mancanza di requisiti costituzionali di necessità ed urgenza e l’intendimento di vanificare una pronuncia dell’Autorità giudiziaria.
Nella fattispecie, i requisiti di necessità ed urgenza certamente difettavano, come si desume chiaramente dal fatto che il decreto, trasformato subito in disegno di legge, non è stato approvato a tamburo battente, come si suol dire, ma, a distanza di settimane, è ancora all’esame delle aule parlamentari.
Più complesso è, invece, il secondo rilievo del Presidente Napolitano, concernente la violazione “del fondamentale principio della divisione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato”.
Il decreto della Corte di Appello di Milano è stato, infatti, emesso in sede di volontaria giurisdizione, e cioè nell’ambito dell’attività che viene esercitata dal Giudice non per comporre una lite, ma nell’interesse di uno o più soggetti, per il rilascio di autorizzazioni e omologazioni.
Il decreto in esame possiede natura autorizzatoria (in quanto consente al tutore l’attuazione di quanto disposto nel decreto stesso) e può acquistare efficacia esecutiva, pur se non riconducibile alla non pertinente nozione di giudicato. Come tutti i provvedimenti presi in camera di consiglio, è modificabile qualora muti la situazione di fatto che ha portato alla sua emanazione. Secondo un’altra interpretazione, tuttavia, tale decreto si differenzia da altri provvedimenti, in quanto, avendo deciso su contrapposte posizioni di diritto soggettivo, è suscettibile di acquistare autorità di giudicato (in proposito, Cass., 16 aprile 2003, n. 6011).
Inoltre il decreto può sì essere modificato, ma solo su istanza del titolare del diritto inciso, cosicché acquista, comunque, carattere di definitività.
Di fronte ad un siffatto provvedimento, il Presidente della Repubblica ha ritenuto che non si può azzerare, attraverso un decreto legge, una decisione dell’Autorità giudiziaria, pena la lesione irreparabile del principio costituzionale di separazione dei poteri, a garanzia del quale si pone la stessa figura del Capo dello Stato.
Un decreto legge di siffatto contenuto avrebbe certamente avuto un carattere lacerante, per il suo potenziale eversivo, nei confronti dell’ ordine giudiziario.
Le reazioni del Presidente del Consiglio sono state sconcertanti: partito dalla stravagante considerazione secondo cui, nel redigere il testo costituzionale i costituenti si sarebbero ispirati alla Costituzione sovietica del 1936 (tesi subito smentita da uno scandalizzato Andreotti, uno dei pochissimi costituenti superstiti), Berlusconi ha dichiarato che, se il Governo non avesse la possibilità di ricorrere al decreto legge, egli tornerebbe “dal popolo a chiedere il cambiamento della Costituzione”.
Lo scontro fra Governo e Presidente della Repubblica è stato grave e vi è il timore che possa ripetersi in futuro. Si è parlato di “giornata nera” o di “notte della Repubblica”.
Le conseguenze di ulteriori scontri potrebbero essere dirompenti.
Infatti, in astratto, il Governo che contesti il blocco frapposto dal Capo dello Stato ad un decreto legge, potrebbe sempre aprire un conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale: bloccando l’entrata in vigore di un decreto, il Presidente della Repubblica assume consapevolmente il rischio di un’eventualità del genere, la quale non esclude, peraltro, che in parallelo possa aversi anche la messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune, laddove questo ravvisi nel comportamento del Presidente della Repubblica, l’attentato alla Costituzione, previsto dall’articolo 90 della Carta.
Se a questo punto si dovesse malauguratamente arrivare, si tratterebbe di un conflitto istituzionale senza precedenti in Italia, di un “vulnus” gravissimo all’equilibrio dei poteri disegnato dalla Costituzione.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel marzo 2009)

ELUANA SI SPEGNE, CALA LA NOTTE SULLA REPUBBLICA

Consapevole della mia inadeguatezza, confesso che non mi sono mai interessato di bioetica, che pure costituisce uno degli argomenti centrali nel dibattito culturale degli ultimi anni.
Trattare di bioetica, infatti, richiede solo in parte conoscenze giuridiche, ma esige soprattutto conoscenze di etica, di filosofia e, in particolare, conoscenze scientifiche di cui sono palesemente privo.
Nel caso, umanamente straziante, di Eluana Englaro, tuttavia, il profilo giuridico è parso sovente prevalere sugli aspetti etici e scientifici. Mi arrischio, quindi, a parlarne, cercando di approfondire alcune problematiche giuridiche che i mezzi di informazione hanno sovente affrontato in modo superficiale, con lo sguardo non rivolto al diritto positivo, ma deformato dal pregiudizio ideologico.
Lungi da me l’intendimento di far risorgere quegli storici steccati che già De Gasperi considerava superati, convinto come sono che i valori costituzionali, come valori fondanti dell’ordinamento, non possono che essere valori largamente condivisi, dai cattolici come dai laici.
Alla base della dolorosa vicenda di Eluana Englaro, sta un problema concettuale cui il giurista non può dare una risposta definitiva. Se l’idratazione e l’alimentazione forzata che, sotto stretto controllo medico, vengono somministrate ad un soggetto in stato vegetativo ormai permanente, costituiscono una terapia, deve necessariamente trovare applicazione il secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione, secondo il quale “nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Come si sa, infatti, la norma costituzionale garantisce la libertà della scelta terapeutica, che comprende il diritto di scegliere tra le diverse possibilità di cura ed anche il diritto di scegliere di non curarsi. Taluni, invece, ritengono che i trattamenti di nutrizione e idratazione artificiale non possono essere configurati come trattamenti terapeutici e non possono quindi essere rifiutati, rientrando piuttosto in quel prendersi cura minimo che deve essere garantito a ogni persona, affinché non muoia di fame e di sete.
In tale seconda ipotesi, il trattamento non può, conseguentemente, essere né sospeso né rifiutato.
Fondamento della libertà di scelta terapeutica è il cosiddetto “consenso informato”, esito ultimo della scelta terapeutica che compete al paziente compiere, ma attraverso l’ineliminabile apporto di corrette informazioni e adeguate spiegazioni che spetta al medico fornire.
Nel caso di Eluana Englaro, tuttavia, la donna, in stato vegetativo da ben diciassette anni, non era certo in grado di esprimere alcun consenso (o dissenso) informato in ordine alle scelte terapeutiche.
La Corte di Appello di Milano e la Corte di Cassazione hanno perciò proceduto, in base ad elementi di prova ritenuti chiari, concordanti e convincenti, tratti dalla personalità di Eluana, dal suo stile di vita e dai suoi convincimenti, corrispondenti al suo modo di concepire, prima di cadere in stato di incoscienza, l’idea stessa di dignità della persona, alla ricostruzione della volontà di Eluana Englaro.
Una tale ricostruzione a posteriori della volontà dell’interessata è, palesemente, operazione arrischiata, che non può non lasciare dubbi e incertezze.
La distinzione fra trattamento terapeutico e non terapeutico è sottile ed irrisolta – pare – sul piano scientifico.
La Corte di Cassazione, nel caso concreto, ha configurato la nutrizione e idratazione artificiale come trattamenti terapeutici, che possono, quindi, essere rifiutati: non v’è dubbio – ha ritenuto il Supremo Collegio – che l’idratazione e l’alimentazione artificiale costituiscono un trattamento sanitario; esse, infatti, integrano un trattamento che sottende un sapere scientifico, che è posto in essere da medici, anche se poi proseguito da non medici, e consiste nella somministrazione di preparati come composti chimici implicanti procedure tecnologiche.
La Corte di Cassazione, per due volte, la Corte di Appello di Milano, la Corte Costituzionale, la Corte europea dei diritti dell’uomo, il TAR per la Lombardia, hanno condiviso, sotto diversi profili, questa impostazione.
Non sono, quindi, condivisibili le critiche virulente rivolte ai magistrati da organi di informazione e da associazioni cattoliche che hanno adombrato, dietro sentenze scrupolosamente motivate (anche se non condivisibili, se non se ne condivide il fondamento concettuale, e cioè la nozione di alimentazione e idratazione artificiale come trattamento terapeutico) chissà quale complotto.
Egualmente appaiono del tutto fuori luogo gli epiteti di “boia”, “assassini” e “aguzzini” di cui sono stati gratificati il padre di Eluana Englaro ed i medici che si prendevano cura della donna.
E’ mancato, in molti osservatori, un atteggiamento ispirato ad autentica “pietas”, ed ha prevalso un trincerarsi dietro il rigore, l’intransigenza ed astratti principi.
Da più parti si è sostenuto che, nelle loro decisioni, la Corte di Appello di Milano e la Corte di Cassazione avrebbero esse stesse disciplinato la materia, non regolata dalla legge, ed avrebbero, con ciò stesso, invaso la sfera di attribuzioni propria del potere legislativo.
La tesi, anche se suggestiva, è completamente destituita di fondamento. Stando a quanto previsto dal secondo comma dell’articolo 12 delle disposizioni sulla legge in generale, anche di fronte ad una lacuna della norma, il Giudice non può dare una pronuncia di “non liquet”, come nel diritto romano, ma deve decidere “secondo i principi generali dell’ordinamento giuridico dello Stato”. Secondo l’insegnamento della Cassazione, tali principi possono essere espliciti, in quanto formulati da precise disposizioni, ovvero impliciti, in insiemi più o meno ampi di disposizioni, e da essi desumibili.
Ma vi è di più. I due rami del Parlamento, come si ricorderà, si erano rivolti alla Corte Costituzionale, proponendo un conflitto di attribuzioni nei confronti della Corte di Cassazione e della Corte di Appello di Milano, lamentando l’usurpazione e la menomazione delle proprie attribuzioni legislative e, in particolare, il fatto che tali provvedimenti, venendo a stabilire termini e condizioni affinché potesse cessare il trattamento di alimentazione e idratazione artificiale cui era sottoposta Eluana, avrebbero utilizzato la funzione giurisdizionale per modificare, in realtà, il sistema legislativo vigente, così invadendo l’area riservata dalla Costituzione al legislatore.
Tali conflitti di attribuzione, tuttavia, sono stati dichiarati inammissibili dalla Corte Costituzionale con ordinanza in data 8 ottobre 2008 n. 334. Ha osservato la Corte che il Parlamento, pur escludendo di voler sindacare errores in iudicando, in realtà avanzava molteplici critiche al modo in cui la Cassazione aveva selezionato ed utilizzato il materiale normativo rilevante per la decisione o a come lo aveva interpretato.
Ha osservato, ancora, il Giudice delle leggi che il Parlamento poteva in qualsiasi momento adottare una specifica normativa della materia, fondata su adeguati punti di equilibrio fra i fondamentali beni costituzionali coinvolti.
Ma, come si sa, sul piano giuridico, la vicenda ha avuto un epilogo con il rifiuto del Presidente della Repubblica di firmare un decreto legge che aveva lo scopo di impedire l’attuazione della decisione della Corte di Appello di Milano, fondata sui principi enunciati dalla Corte di Cassazione: ma di tale argomento, che è di non poco rilievo, si parlerà in altra occasione.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel marzo 2009)

venerdì 24 settembre 2010

UNA “LEGGE PROVVEDIMENTO” PER LICENZIARE VILLARI

Le cronache politiche delle ultime settimane hanno ampiamente parlato del modo in cui poter sostituire Riccardo Villari alla presidenza della Commissione di vigilanza sulla RAI.
Infatti, Riccardo Villari, eletto inopinatamente Presidente della Commissione, non intende sentire ragioni e non vuole dimettersi dalla carica, pur in presenza di un accordo fra le forze politiche per l’elezione di Sergio Zavoli.
Non intendo certo occuparmi dei problemi politici posti dalla elezione di Villari. Voglio piuttosto soffermarmi sulla eventualità, che qualcuno ha suggerito, di approvare una legge per far decadere Villari dalla carica.
Si tratterebbe, secondo l’espressione utilizzata dalla dottrina costituzionalistica, di una “legge provvedimento”.
E’ oggi largamente condivisa l’idea che le leggi si distinguono essenzialmente secondo caratteri di tipo formale. Rilevano cioè l’autorità competente a produrle e le modalità con le quali vengono prodotte.
Secondo l’ordinamento costituzionale italiano, quindi, sono leggi quelle approvate dal Parlamento, secondo le regole del procedimento legislativo previsto dalla Costituzione e dai regolamenti parlamentari.
Non sempre, tuttavia, alla forma della legge corrisponde un contenuto normativo: con la legge, cioè, non vengono sempre poste regole generali ed astratte.
Possono esservi, quindi, leggi provvedimento. Con tale espressione si intendono atti formalmente legislativi che, tuttavia, tengono luogo di provvedimenti amministrativi, in quanto provvedono concretamente su casi e rapporti specifici.
La legge, quindi, può avere anche carattere particolare, concreto, provvedimentale, fermi restando i limiti che essa incontra nelle disposizioni della Costituzione, a partire dal necessario rispetto del principio di eguaglianza, sancito dall’articolo 3.
Il primo problema che si è posto all’interprete è quello dell’ammissibilità della legge provvedimento.
Sotto il profilo costituzionale, in assenza di una riserva relativa all’attività amministrativa, non è, in astratto, preclusa alla legge ordinaria la possibilità di regolare materie ed oggetti normalmente affidati all’attività amministrativa. E’ quindi possibile che, in casi particolari, il legislatore compia direttamente scelte concrete, altrimenti affidate alla discrezionalità dell’Amministrazione, nell’apprezzamento del pubblico interesse.
E’ quanto costantemente ritenuto dalla Corte Costituzionale. Essa ripetutamente ha riconosciuto la compatibilità costituzionale degli atti normativi di che trattasi, sulla base del duplice rilievo dell’insussistenza di una riserva di amministrazione (posto che la Costituzione non garantisce ai pubblici poteri l’esclusività delle attività amministrative), e dell’inconfigurabilità, per il legislatore, di limiti diversi da quelli – formali – dell’osservanza del procedimento di formazione delle leggi, atteso che la Costituzione omette di prescrivere il contenuto sostanziale ed i caratteri essenziali delle disposizioni legislative (si vedano, da ultimo, le sentenze 24 febbraio 1995, n. 63 e 21 luglio 1995 n. 347).
Tuttavia una legge la quale, anziché contenere previsioni generali ed astratte, provveda in concreto, è maggiormente esposta a dubbi di legittimità costituzionale, specie sotto il profilo del rispetto del principio di eguaglianza. Il giudizio di costituzionalità non può che farsi particolarmente severo nei confronti di tutte le leggi “provvedimentali”, “personali” o che comunque pongano eccezioni o deroghe a norme generali. Ciò, nella giurisprudenza costituzionale, si è tradotto per lo più, in un controllo di non arbitrarietà e di non irragionevolezza di questo tipo di leggi.
Di contro, avendo forma legislativa, le leggi provvedimento sono sottratte ai rimedi previsti dall’ordinamento nei confronti degli atti della Pubblica Amministrazione.
La Corte Costituzionale ha avuto modo di osservare, al riguardo, che il diritto di difesa, in caso di approvazione con legge di un atto amministrativo lesivo di interessi, non viene sacrificato, ma si trasferisce, secondo il regime di controllo proprio dei provvedimenti legislativi, dalla giurisdizione amministrativa alla giustizia costituzionale (Corte Cost., 16 febbraio 1993, n. 62): la legge provvedimento, ancorché abbia il contenuto sostanziale di un atto amministrativo, può essere sindacata solo davanti al suo giudice naturale, la Corte Costituzionale.
Di recente, è stata anche posta la questione della legittimità comunitaria delle leggi provvedimento, nella parte in cui abbiano violato il principio della tutela dell’affidamento.
Tale principio è stato invocato con riguardo al caso di ritiro del provvedimento amministrativo per mezzo di un atto legislativo (legge provvedimento): la questione, in particolare, è stata rimessa dal TAR per il Lazio (Sez. I, ordinanza 23 maggio 2007 n. 880) alla Corte di Giustizia, a proposito di una norma legislativa che aveva ex lege revocato, dopo anni, le concessioni relative all’alta velocità, risolvendo le convenzioni con i general contractors.
Non risulta che, ad oggi, la Corte di Giustizia abbia esaminato e deciso il caso.
Le problematiche sottese alle leggi provvedimento sono, quindi, molteplici. Basterà, soltanto, pensare alle norme che riguardano singole imprese, di cui si è avuto un esempio nel recente caso dell’Alitalia.
Ed anche nel caso a cui abbiamo fatto riferimento all’inizio, quello di una legge per destituire Riccardo Villari dalla presidenza della Commissione di vigilanza sulla RAI, una legge, proprio perché si configurerebbe come legge provvedimento, potrebbe non essere risolutiva della questione, in quanto potrebbe essere sottoposta al vaglio della Corte Costituzionale.
(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel dicembre 2008)

LA FORMAZIONE DELL’AVVOCATO: I CREDITI SI ACQUISTANO ANCHE IN EDICOLA

Mi sono sbagliato. Più di tre anni fa, commentando su “La Cronaca” una prima bozza del regolamento per l’aggiornamento degli avvocati, allora in corso di elaborazione da parte del Consiglio Nazionale Forense, concludevo affermando: “Dubito che la soluzione, caldeggiata dall’avvocatura organizzata, possa mai avere una concreta realizzazione, proprio perché fondata su presupposti astratti”.
Invece, il Consiglio Nazionale Forense, in data 18 gennaio 2007, ha approvato il regolamento, che è stato poi parzialmente modificato il 13 luglio 2007 ed ha iniziato a trovare applicazione dal 1° gennaio 2008.
Questo è il meccanismo congegnato dal regolamento: novanta crediti formativi ogni tre anni è l’obbligo imposto agli avvocati quando, terminato il periodo transitorio, il sistema andrà a regime.
La lettura di libri o riviste non serve a realizzare alcun credito formativo, in quanto, per aggiornarsi, l’avvocato non può usare la vista ma solo l’udito. In particolare “integra assolvimento degli obblighi di formazione professionale continua la partecipazione effettiva agli eventi… indicati, promossi, organizzati, o accreditati anche stabilmente dal Consiglio Nazionale Forense e dai Consigli dell’Ordine e dalla Cassa Nazionale di previdenza forense”. Sono esenti dall’obbligo gli avvocati che siano anche professori universitari. Per il resto, gli avvocati avranno il “dovere di partecipare alle attività di formazione professionale continua disciplinate dal presente regolamento”, con l’avvertenza che il mancato adempimento dell’obbligo formativo nei termini previsti dal regolamento stesso costituirà “illecito disciplinare”. Ciascun iscritto dovrà, infine, depositare presso il proprio Consiglio dell’Ordine, “una sintetica relazione che certifica il percorso formativo seguito nell’anno precedente, indicando gli eventi formativi seguiti e documentando le attività formative svolte”. L’obbligo tuttavia non riveste valore assoluto, in quanto si potrà essere esentati dalla formazione permanente “per gravi motivi” (non vi è quindi l’obbligo di farsi trasportare in barella per assistere ad una conferenza, al fine di acquisire crediti formativi).
Nel regolamento appare del tutto svalutata l'attività di formazione, svolta autonomamente dall'avvocato presso il proprio studio, che da sempre rappresenta, invece, la principale fonte di accrescimento culturale di ciascun professionista.
L’attività di formazione degli avvocati si è, ben presto, rivelata un grosso affare. Nel corso del 2008, infatti, si sono moltiplicate le iniziative più varie, dai corsi di formazione ai seminari, dai convegni, alle conferenze, ai master di specializzazione.
Le iniziative di maggior respiro sono state realizzate, come prevedibile, a pagamento.
Qualche settimana fa, addirittura, un grande gruppo editoriale ha diffuso in edicola, al prezzo di Euro 14,90, un dvd (che ciascuno potrà utilizzare sul proprio pc), contenente due lezioni, per complessivi due crediti.
Con una battuta semiseria, si potrà quindi dire che ormai i crediti formativi per gli avvocati si vendono anche in edicola, al prezzo di Euro 7,45 a credito.
Più seriamente, viene da chiedersi per quale ragione si possano acquisire dei crediti formativi utilizzando mezzi telematici, ma non leggendo dei libri o delle riviste, come gli avvocati hanno sempre fatto, da decenni.
Desiderio di modernità a tutti i costi?

* * *

Le associazioni forensi hanno, generalmente, accolto in modo favorevole il regolamento.
Due associazioni, tuttavia, hanno segnalato il regolamento all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, che ha aperto, in proposito, un’indagine conoscitiva.
Si sostiene, da parte di tali associazioni, che la maggiore qualificazione degli avvocati deve essere perseguita nel rispetto della libertà e dell’autonomia di ciascuno, senza ingiustificati vincoli, che – si sostiene – il Consiglio Nazionale Forense non avrebbe neppure il potere di imporre.
Dell'esito dell'indagine dell'Autorità garante, ad oggi, nulla ancora si conosce.

* * *

Che la formazione permanente degli avvocati sia una necessità ineludibile è cosa del tutto ovvia. Come è ovvio che tale formazione è oggi nettamente insufficiente. Ma quello che un po' infastidisce, nel regolamento approvato dal Consiglio Nazionale Forense, è la burocratizzazione dell’aggiornamento, basata su un complicato sistema di crediti formativi ed il monopolio della formazione permanente lasciato nelle mani degli Ordini professionali, con esclusione delle Università e delle numerose associazioni a carattere culturale che operano nell’ambito giuridico.
La mia personale opinione non coincide con quella dell'avvocatura organizzata. Mentre condivido le finalità della formazione permanente, sono perplesso per quanto si riferisce all'idoneità dell'architettura istituzionale congegnata a perseguire tali finalità. Concordo, sul punto, con un noto amministrativista milanese, Umberto Fantigrossi.
Questi, sul suo sito internet, ha recentemente scritto: “C'è quanto meno da dubitare che gli Ordini, al di fuori e senza alcun rapporto con le Università – che sono le istituzioni tradizionalmente dedicate alla formazione dei professionisti – abbiano le risorse di competenza per far fronte a compiti di “accreditamento”, quindi di verifica della qualità e quindi della validità scientifica dei contenuti e della docenza”.
Aggiungo io che non si comprende quali risorse di competenza siano proprie della Cassa di previdenza forense, che pure ha titolo per promuovere ed accreditare eventi formativi.
Come ha affermato il Giudice costituzionale Giuseppe Tesauro su “Il Sole 24 Ore”, la formazione dovrebbe iniziare nell’Università.
All’Università – sostiene Tesauro – non si può chiedere di formare i giovani fino a renderli operativi già all’uscita dalle aule della facoltà di giurisprudenza.
Ma si può pretendere che le Università diano ai giovani gli strumenti – intellettuali, organizzativi e di metodo – per diventarlo. Non si realizza questo obiettivo se nei corsi non si danno gli spazi giusti a discipline in egual misura formative ed informative. Un eccesso di discipline cosiddette storico-culturali, invece, caratterizza purtroppo i corsi di giurisprudenza.
Il ruolo dell’Università può proseguire anche dopo la laurea. Mi pare, quindi, che le Università (o, comunque, istituzioni alle stesse correlate) siano idonee come e più degli Ordini a promuovere l’aggiornamento degli avvocati, mentre il regolamento non prevede nessun ruolo per le Università, lasciando un loro eventuale contributo alla discrezione degli Ordini.
Mi rendo conto che la mia può apparire un’ipotesi estrema ma, secondo il regolamento del Consiglio Nazionale Forense, che in questo rivela tutta la sua debolezza intrinseca, può valere di più, ai fini dell’acquisizione di crediti formativi, una modesta conferenza organizzata da un qualsiasi Consiglio dell’Ordine, piuttosto che un master postuniversitario, di eccellente contenuto, solo perché quest’ultimo ha trascurato di chiedere e quindi non ha ottenuto quello che è stato definito come l’accreditamento.
Umberto Fantigrossi pone un ulteriore problema.
Rileva, infatti, che le prestazioni che il regolamento del Consiglio Nazionale Forense impone a carico del singolo avvocato, in quanto incidono sulla libertà personale, potrebbero essere introdotte solo da una norma di legge. Solo la legge, infatti, può imporre prestazioni personali al singolo, secondo quanto dispone l’articolo 23 della Costituzione.
Ritorna, quindi, la tesi sostenuta da alcune associazioni forensi davanti all’Autorità garante della concorrenza e del mercato.
Resta, tuttavia, il fatto che la formazione degli avvocati, per il ruolo, anche costituzionale, che essi rivestono, è troppo importante per essere lasciata alle cavillosità dei legulei.
Il nodo non potrà che essere sciolto nell’ambito della legge, di cui da tempo si parla, di riforma delle professioni e, in particolare, della professione forense.
(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel dicembre 2008)

USO ED ABUSO DEL DECRETO LEGGE

Alcune settimane fa, in quello che, nel nostro paese, viene talora definito il “teatrino della politica”, si è polemizzato sull'utilizzo, da parte del Governo, dello strumento del decreto legge.
Secondo l'ordinamento costituzionale italiano, “governare per decreto”, come è stato detto, non è certo possibile.
L'articolo 77 della Costituzione, infatti, prevede il decreto legge come una forma eccezionale di produzione di norme di rango legislativo: “Quando, in casi straordinari di necessità e d'urgenza, il Governo adotta, sotto la sua responsabilità, provvedimenti provvisori con forza di legge, deve il giorno stesso presentarli per la conversione alle Camere che, anche se sciolte, sono appositamente convocate e si riuniscono entro cinque giorni.
I decreti perdono efficacia sin dall'inizio, se non sono convertiti in legge entro sessanta giorni dalla loro pubblicazione.
Le Camere possono tuttavia regolare con legge i rapporti giuridici sorti sulla base dei decreti non convertiti”.
I “casi straordinari di necessità ed urgenza” sono quindi presupposto e fondamento per l'adozione dei decreti legge.
Secondo la Corte Costituzionale (sentenza 23 maggio 2007, n. 171), l'espressione usata dalla Costituzione deve avere un largo margine di elasticità, anche se talora si è dilatata fino al punto di trasformare questo presupposto in una semplice valutazione di opportunità politica.
Tuttavia, fin dal 1995 (sentenza 27 gennaio 1995, n. 29), la Corte Costituzionale ha affermato che non esiste alcuna preclusione affinchè il Giudice delle leggi esamini il decreto legge sotto il profilo del rispetto dei requisiti di validità costituzionale relativi alla preesistenza dei presupposti di necessità ed urgenza.
Successivamente la Corte (con la già citata sentenza 23 maggio 2007 n. 171 e con la successiva 30 aprile 2008 n. 128) ha emesso due clamorose decisioni di annullamento di decreti legge che non avevano come presupposto alcun requisito di straordinarietà e di urgenza.
I decreti legge, dopo la deliberazione da parte del Governo, sono emanati dal Presidente della Repubblica, in base all'articolo 87, comma 5, della Costituzione. E' rimasto famoso il rifiuto dell'allora Presidente della Repubblica Scalfaro di firmare il decreto legge di depenalizzazione del finanziamento illecito ai partiti, il 5 marzo 1993, all'epoca di tangentopoli. Tuttavia, sui poteri del Presidente della Repubblica in sede di emanazione dei decreti legge, non vi sono pareri unanimi in dottrina.
Come si è detto, il decreto legge entra in vigore subito, ma perde efficacia fin dall'inizio se non viene convertito in legge nel termine di sessanta giorni dalla pubblicazione.
E' pacifico che, in sede di conversione, il decreto legge può legittimamente essere emendato, non avendo mai avuto seguito la proposta di applicare alla conversione l'idea del “prendere o lasciare”, pur autorevolmente sostenuta, in sede scientifica, da Aldo M. Sandulli, che fu Presidente della Corte Costituzionale.
Negli anni ottanta e novanta, per le difficoltà politiche e parlamentari, che frequentemente impedivano la conversione dei decreti legge nel termine costituzionale di sessanta giorni, invalse la prassi della reiterazione dei decreti legge non convertiti (vi fu, addirittura, un decreto che fu reiterato per 29 volte).
A questo abuso, pose termine la Corte Costituzionale con la sentenza 24 ottobre 1996 n. 360. La Corte stabilì che devono essere dichiarati costituzionalmente illegittimi i decreti legge reiterati, quando essi “considerati nel loro complesso o in singole disposizioni, abbiano sostanzialmente riprodotto, in assenza di nuovi (e sopravvenuti) presupposti straordinari di necessità ed urgenza, il contenuto normativo di un decreto legge che abbia perso efficacia a seguito della mancata conversione”.
I motivi della illegittimità della prassi della reiterazione dei decreti legge sono facilmente comprensibili: tale prassi altera la natura provvisoria della decretazione d'urgenza, procrastinando di fatto il termine perentorio per la conversione, previsto dalla Costituzione; la prassi toglie, poi, valore al carattere straordinario dei requisiti della necessità e dell'urgenza.
Gli abusi che la prassi ha introdotto nella figura del decreto legge, sono certo il sintomo di una profonda crisi nel sistema delle fonti del diritto (di cui si avrà modo di parlare in altra occasione).
Pur avendo, a partire dal 1996, la Corte Costituzionale ricondotto la decretazione d'urgenza nell'alveo della disciplina costituzionale prevista dall'articolo 77, come ebbe a scrivere un illustre studioso di diritto pubblico, Alberto Predieri, il decreto legge si è progressivamente configurato come una sorta di “disegno di legge governativo rafforzato”, in alternativa alla normale iniziativa legislativa.
Si è detto che, se c'è la possibilità di attendere il percorso parlamentare (con i suoi rischi e le sue necessità di mediazione), il Governo sceglie la via del disegno di legge; se questa possibilità non c'è, si sceglie necessariamente la strada del decreto.
Una curiosità: nonostante l'esistenza dei problemi che sono stati in precedenza illustrati, la riforma costituzionale della seconda parte della Costituzione, approvata dal Parlamento nel 2005 e respinta con il referendum del 2006, nulla innovava a proposito dell'istituto del decreto legge.
Ciò non può che significare che, per i politici, il poter “governare per decreto” rimane sempre una forte suggestione.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel novembre 2008)

“O ITALIANI, IO VI ESORTO ALLE STORIE ...”

“O Italiani, io vi esorto alle storie...”. Così, quasi duecento anni fa, il 22 gennaio 1809, prendendo la parola in un'aula dell'Università di Pavia, che ancor oggi porta il suo nome, ammoniva Ugo Foscolo, nella sua celebre orazione inaugurale della cattedra di eloquenza da lui ricoperta, conosciuta con il titolo “Dell'origine e dell'ufficio della letteratura”.
Eppure, a distanza di due secoli, l'appello del Poeta è ancora inascoltato, pur essendo pregno di un'inattesa e singolare attualità.
Perdura, infatti, la peculiare caratteristica italiana dell'incapacità di scrivere una storia patria condivisa, che non sia solo la storia dei vincitori. Anzi tale caratteristica emerge con prepotenza anche quando si tratta di compiere banali scelte toponomastiche.
Ma la storia viene, ed è ancora più grave, usata sulla scena, politica e culturale, come strumento per sostenere battaglie, politiche e culturali, di attualità, non certo per capire, alla luce dell'insegnamento del passato, i processi politici, sociali, economici del mondo di oggi.
In questa chiave, sovente i fatti diventano irrilevanti, rispetto all'interpretazione che, dei fatti stessi, si vuole offrire.
Ad esempio, su “La Repubblica” del 3 settembre 2008, è stato pubblicato, nelle pagine culturali, un ampio servizio dal titolo “La nuova Yalta. I potenti di oggi e le sfere di influenza”, che ricorda come “il famoso vertice di Crimea durò dal 4 all'11 settembre 1945”.
Intendimento dell'articolista (che è un noto studioso di politica internazionale) è quello di dimostrare come la politica delle sfere di influenza e la divisione del mondo in blocchi, sostanzialmente finita con la caduta del muro di Berlino il 9 novembre 1989, stia ritornando, dopo l'invasione della Georgia da parte della Russia, proprio in concomitanza con l'anniversario della conferenza di Yalta.
Non sono in grado di affermare se la tesi sostenuta nell'articolo sia o meno condivisibile, anche se il mondo di oggi appare, almeno ad un esame superficiale, molto diverso da quello dell'epoca della guerra fredda.
Ma devo dire che i fatti indubitabilmente sono diversi da come “La Repubblica” li propone ai propri lettori.
Churchill, Roosevelt e Stalin non poterono, infatti, incontrarsi a Yalta dal 4 all'11 settembre 1945, per spartirsi il mondo (un altro dei luoghi comuni della storia contemporanea). Roosevelt, infatti, era morto il 12 aprile 1945, mentre era in vacanza a Warm Springs, in Georgia (lo stato americano, non la repubblica caucasica). Churchill, dal canto suo, avendo perduto le elezioni generali tenutesi in Gran Bretagna il 5 luglio 1945, era stato sostituito, nella carica di Primo ministro, dal laburista Clement Attlee.
Neppure Stalin poteva impegnarsi, come si legge nell'articolo, ad entrare in guerra con il Giappone, dato che, il 2 settembre 1945, a bordo della corazzata americana “Missouri”, al largo di Tokyo, il Ministro degli esteri nipponico Shigemitsu aveva firmato la resa del Giappone a nome dell'Imperatore.
Neppure Stalin poteva consentire, come ancora dice “La Repubblica”, dal 4 all'11 settembre 1945, alla costituzione dell'ONU, in quanto la Conferenza di fondazione delle Nazioni Unite già si era tenuta a San Francisco il 26 giugno 1945.
La conferenza di Yalta, in realtà, si era svolta sette mesi prima, dal 4 all'11 febbraio 1945, quando Roosevelt, anche se gravemente malato, era ancora vivo, quando Churchill era ancora saldamente in carica come Primo ministro britannico e la guerra contro il Giappone era ancora ben lungi dall'essere terminata (le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, che risolsero il conflitto, furono lanciate rispettivamente il 6 ed il 9 agosto 1945). Neppure, in quel momento, si era conclusa la guerra sul teatro europeo (che sarebbe terminata tra gli ultimi giorni di aprile ed i primi di maggio), cosicchè era logico che i tre “grandi” discutessero del futuro dell'Europa liberata dai nazisti.
Fra l'altro, dopo Yalta, si tenne un ulteriore vertice interalleato, a Potsdam, in Germania, dal 17 luglio al 2 agosto 1945, cui parteciparono, oltre a Stalin, il nuovo Presidente americano Truman ed Attlee il Primo ministro britannico succeduto a Churchill.
La commemorazione di Yalta da parte del quotidiano “La Repubblica”, palesemente fuori stagione (ed i lettori mi perdoneranno se mi sono dilungato su di essa), sta a dimostrare come un'interpretazione ideologica della storia, che, slegata dai fatti, vuole dimostrare una tesi, rischia di affogare nel ridicolo, piuttosto che essere, come dicevano i latini, “magistra vitae”.
E' ben vero che, come è stato affermato da più parti, senza memoria non si può progettare il futuro, ma è altrettanto vero che, senza i fatti, non vi è memoria, ma una ricostruzione fantastica del passato.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'ottobre 2008)

L’EUROPA SI E’ FERMATA A DUBLINO

Il 13 dicembre 2007, a Lisbona fu firmato il Trattato che, sostituendo il Trattato costituzionale europeo (abbandonato dopo che, nel 2005, i francesi e gli olandesi, in due distinti referendum, ne avevano respinto la ratifica), avrebbe dovuto porre fine ad anni di estenuanti negoziati sul nuovo assetto istituzionale dell’Unione europea allargata a 27 Stati membri (e alle cui porte premono, per l’ingresso, altri paesi, prima fra tutti la Croazia).
Da parte di molti si chiedeva, infatti, di abbandonare le questioni sul funzionamento dell’Unione per poter finalmente dedicare risorse ed energie alle nuove politiche comunitarie rese urgenti dalla globalizzazione e da un contesto internazionale sempre più incerto e instabile.
L’obiettivo sembrava essere a portata di mano quando, all’inizio del 2008, tutti i paesi europei – con la significativa eccezione dell’Irlanda – dichiararono di voler procedere alla ratifica del Trattato attraverso un voto parlamentare.
L’entrata in vigore del nuovo Trattato per il 1° gennaio 2009 veniva considerata come il momento di avvio di una nuova fase nella vita dell’Unione.
Era stato però sottovalutato il caso dell’Irlanda, l’unico paese che ha l’obbligo costituzionale di ratificare i trattati internazionali attraverso un referendum.
E, a sorpresa, il 12 giugno 2008, gli irlandesi hanno seccamente respinto il Trattato di Lisbona.
Nel risultato del referendum, ha stupito, in modo particolare, che proprio l’Irlanda avesse detto no al Trattato.
Nell’ultimo decennio, infatti, l’Irlanda ha ricevuto enormi vantaggi economici da Bruxelles, che ne hanno fatto, dal punto di vista economico, quella che oggi viene definita la “tigre celtica”.
Ciononostante, il diniego di Dublino si è unito a quelli di Francia e Olanda di tre anni fa.
Ci si è sforzati, perciò, di capire le ragioni che hanno portato al discredito dell’Unione europea, un’istituzione che tradizionalmente riscuoteva la fiducia dei popoli del vecchio continente.
Viene spontaneo alla mente rilevare che l’integrazione europea non sta funzionando perfettamente, perché non si accompagna ad una vera condivisione popolare degli obiettivi, quella condivisione che certamente esisteva nei primi decenni del dopoguerra.
Sottoposto a referendum, infatti, il nuovo Trattato non vince e non convince. Questo è un fatto, e con i fatti è inutile polemizzare.
L’Europa, infatti, è stata percepita per lo più come un grande organismo burocratico, che ha reso sempre più difficoltosa la vita degli europei.
Ma, come ha scritto Riccardo Perissich nel suo recente volume “L’Unione europea, una storia non ufficiale”, si deve prendere atto che l’Europa, nella sua composizione attuale, non può andare oltre quello che già è: “bisogna accettare che non esistono oggi le condizioni per progredire verso l’unione politica nella composizione attuale”.
La conclusione cui arriva Perissich è la medesima a cui sono inevitabilmente approdati tutti coloro che condividono un approccio federalista: la necessità di andare avanti nel processo di integrazione con chi ci sta.
Ma, secondo Perissich, questo ulteriore passaggio non è affatto scontato: “Nulla di quanto dovrebbe ancora avvenire per completare l’integrazione può essere considerato un prodotto probabile della necessità storica”. Egualmente “nulla di quanto è stato finora realizzato può essere considerato veramente irreversibile”.
Eppure, oggi, perché l’Europa possa decidere il proprio futuro, è indispensabile il salto di qualità costituito dall’integrazione politica, in quanto, senza l’unione politica, anche l’integrazione economica già realizzata può subire contraccolpi ed arretramenti.
Dopo il no irlandese, quali possono essere gli sviluppi possibili? A tale domanda occorre dare una risposta, dato che il Trattato di Lisbona (che pure introduce il principio del voto a maggioranza, senza il quale nessun futuro salto di qualità è ipotizzabile), perché possa entrare in vigore, necessita della ratifica di tutti i 27 Stati membri (attualmente le ratifiche sono 24, compresa quella italiana, avvenuta con voto unanime di Camera e Senato).
Le possibili soluzioni sembrano essere tre:
1) il Trattato non entra in vigore e si mantengono le attuali regole;
2) il Trattato non entra in vigore e se ne elabora un altro;
3) ci si adopera affinché l’Irlanda cambi idea e il Trattato entri in vigore.
Per ragioni diverse, nessuna delle tre soluzioni è facilmente percorribile. La prima è impedita dalla necessità, ormai improcrastinabile, di riformare le istituzioni europee in modo da farle operare per un’Unione allargata a 27 Stati.
La seconda è sbarrata dalla pratica impossibilità di riaprire un negoziato. E sarebbe anche largamente inutile. Un nuovo Trattato non potrebbe, infatti, essere troppo diverso da quello di Lisbona e riproporrebbe i medesimi problemi.
La terza soluzione sembra non praticabile sul piano interno: per quale ragione, infatti, gli irlandesi dovrebbero cambiare idea in assenza di modifiche del Trattato?
Vi è forse una quarta soluzione: l’entrata in vigore del Trattato senza l’Irlanda. Sebbene tale scelta presenti qualche difficoltà tecnica (i parlamenti degli Stati membri che hanno autorizzato la ratifica, lo hanno fatto per un Trattato a 27 e non a 26), la fattibilità di questa soluzione dipende largamente dalla circostanza che nessuno degli altri Stati membri defezioni, o, quanto meno, che non lo faccia uno Stato grande, per esempio la Gran Bretagna.
Contemporaneamente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, devono però avviarsi i negoziati per l’uscita dell’Irlanda (e di chi altri non ci sta) da tutto il sistema dell’Unione europea. Forse la prospettiva di rinunciare a tutti i diritti e i vantaggi che l’Europa ora silenziosamente e costantemente garantisce renderà, come per incanto, comprensibile anche l’ostico linguaggio del Trattato.
Questa strada ricorda la formazione degli Stati Uniti d’America, sapientemente ricostruita dall’ambasciatore Sergio Romano sul “Corriere della Sera” del 19 luglio 2008: “La prima Carta americana quella confederale del 1777 esigeva che ogni emendamento venisse approvato da tutti i tredici Stati. Quando fu evidente che quella regola non avrebbe mai permesso di migliorare la costituzione per renderla effettivamente federale, i membri della Convenzione, riuniti a Filadelfia nel 1788, decisero che il nuovo testo sarebbe stato valido non appena approvato da almeno nove Stati”.
La costruzione europea è il più importante progetto politico ed economico che sia stato realizzato dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Ma se lo si vuole salvare ed evitare il ritorno dei nazionalismi, occorre cambiare l’architettura del progetto medesimo, tenendo conto dei segnali che, da tre anni ormai, provengono dai cittadini europei.
Disegnare un Trattato diverso, circoscritto ai principi generali, ed immaginare una struttura di governo meno invasiva e più democratica è senz’altro difficile.
Ma neppure si può continuare ignorando gli orientamenti che più volte i cittadini europei hanno espresso.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel settembre 2008)

LA PAURA DELL’UOMO NERO

Un tempo i genitori, per distogliere i bambini dai capricci, agitavano la minaccia dell’uomo nero, che, impaurendoli, li rendeva tranquilli.
Le nuove teorie pedagogiche hanno certamente fatto volatilizzare l’uomo nero, che ormai non serve più a spaventare i bambini.
Ma oggi, di fronte all’assillo della sicurezza, la paura dell’uomo nero pare essere riemersa come paura collettiva.
Le ansie individuali, che trovano le loro origini nella difficile situazione economica, si sono, quindi, trasformate in un’emergenza nazionale.
Il fenomeno non è nuovo e non siamo i primi ad avere tanta paura. La storia è piena di società spaventate, immerse nei loro incubi.
L’incubo degli italiani è, da qualche tempo, costituito dal popolo rom. Gli zingari o gitani (come venivano chiamati sino a qualche tempo fa, i rom insieme con i sinti, ma pare che ora le denominazioni tradizionali non siano più considerate “politically correct”) sono un popolo di origini antichissime e sembra ormai dimostrato che essi provengano dall’India settentrionale, dalla quale migrarono verso Occidente agli inizi dell’XI secolo.
L’arrivo in Italia dei primi nuclei di rom e sinti è riconducibile alla battaglia del Kosovo del 1392. L’affermazione delle armate ottomane su quelle serbo-cristiane causò una complessa migrazione di popolazioni diverse in direzione dell’Occidente europeo.
I rom ed i sinti sono, in realtà, un popolo senza patria. Per i rom ed i sinti, piuttosto che di patria si deve parlare di luogo di provenienza, poiché essi non hanno avuto una nazione d’origine, ma luoghi in cui hanno soggiornato per qualche secolo e da cui, in un certo periodo storico, si sono spostati per emigrare verso altre direzioni.
Il numero dei rom e dei sinti in Italia è stato calcolato, nel 2007, in circa 200.000, molto meno quindi che in Francia (800.000) ed in Spagna (340.000).
Di questi zingari, circa 90.000 hanno la cittadinanza italiana.
Caratteristica peculiare dei rom e dei sinti, anche se non di tutti, è, da mille anni, il nomadismo, progressivamente trasformatosi in semi-nomadismo.
Queste popolazioni vivono spesso, quindi, in campi nomadi, in precarie condizioni igieniche ed hanno un tasso di natalità altissimo. L’evasione scolastica è assai elevata e diffusa è la microcriminalità.
I sinti, tradizionalmente, esercitano l’attività di giostrai e lavorano nei circhi. Moira Orfei, con tutta la sua famiglia, è una sinti.
Che gli zingari rubino i bambini e si scambino i bambini fra di loro è una leggenda metropolitana, che non risulta sorretta da concreti elementi di prova.
Come si è detto, i rom ed i sinti vivono in Italia dalla fine del Trecento, anche se il loro numero si è accresciuto, a partire dal 1991, in concomitanza con l’aggravarsi della situazione bellica nella ex Jugoslavia.
Rom e sinti sono, perciò, da secoli presenti in Italia, anche se, per il vero, non sono mai stati circondati da particolari simpatie. A causa dello stile di vita semi-nomade e delle differenze linguistiche e culturali sono stati spesso malvisti dalle popolazioni dei territori dove migravano.
Il cosiddetto “antitziganismo” ha caratterizzato anche l’epoca moderna ed ebbe il suo apice nel corso della seconda guerra mondiale, durante il nazismo, quando furono sterminati nei lager circa 500.000 individui, appartenenti a diverse etnie di zingari, perseguitati in quanto “razza inferiore” e considerati come degli “asociali”.
La strage viene chiamata dalle etnie tzigane “porrajmos”, che significa “divoramento, distruzione, catastrofe, disastro”.
E’ evidente che, atteso il loro numero, i rom ed i sinti non possono certo costituire un’emergenza nazionale. In modo particolare non costituiscono un’emergenza tale da rendere necessaria la nomina di taluni prefetti quali commissari straordinari per affrontare l’emergenza stessa.
Non mi pare, ancora, che l’ipotesi che ha preso corpo in queste settimane, di prendere le impronte digitali ai bambini rom, sia una scelta opportuna e felice.
Sembra, peraltro, essere in contrasto con il primo comma dell’articolo 21 della Carta dei diritti fondamentali dei cittadini dell’Unione europea, approvata a Nizza il 7 dicembre 2000, secondo cui “E’ vietata qualsiasi forma di discriminazione fondata, in particolare, sul sesso, la razza, il colore della pelle o l’origine etnica o sociale, le caratteristiche genetiche, la lingua, la religione o le condizioni personali, le opinioni politiche o di qualsiasi altra natura, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, il patrimonio, la nascita, gli handicap, l’età o le tendenze sessuali”.
Da qui le riserve già espresse in proposito, sia pure ancora in via informale, dalla Commissione europea.
Di fronte al problema dei rom, stupisce, in conclusione, l’atteggiamento di grettezza e di chiusura di molti italiani.
A chi ricorda il grande slancio di generosità, pubblica e privata, con cui furono organizzati i soccorsi per l’alluvione di Firenze del 1966 e per il terremoto dell’Irpinia del 1980 (Cremona, nel suo piccolo, “adottò” San Michele di Serino) viene da chiedersi se l’irrazionale paura dell’uomo nero non abbia mutato il codice genetico del nostro paese, facendo emergere atteggiamenti, ormai dimenticati, di intolleranza se non di razzismo.
Molto più interessante, invece, è l’iniziativa adottata da otto paesi europei, il decennio di integrazione dei rom. Si tratta di un’iniziativa di otto paesi centro ed est europei, promossa nel 2005, per migliorare lo stato sociale ed economico e l’integrazione delle minoranze rom, il primo progetto multinazionale in Europa in questo senso.
Otto paesi stanno partecipando all’iniziativa, Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Ungheria, Macedonia, Romania, Serbia, Montenegro e Slovacchia. Tutti questi paesi hanno minoranze rom significative, ma assai svantaggiate, sia dal punto di vista economico che sociale.
I governi si sono impegnati ad eliminare il divario nelle condizioni di vita tra i rom e i non rom, così come a porre fine al circolo vizioso di povertà ed emarginazione in cui molti rom si trovano.
L’Italia, invece, pare ancora essere lontana da un tale tipo di iniziative. Sino a poco tempo fa ha sostanzialmente ignorato le popolazioni rom, mentre ora proclama come indispensabile una politica repressiva, se non addirittura di discriminazione.
Anche se l’esperienza ci dice che grande è il divario fra i proclami e le realizzazioni concrete.
(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel luglio 2008)

LA POVERTA’ NON E’ UN REATO

Debbo confessarlo: con ogni probabilità, sono un buonista, un terribile buonista.
Buonista, secondo una terminologia in voga presso giornalisti che a profusione iniettano veleni nella società italiana, è chi, verso gli altri, nutre sentimenti di umana pietà, chi pensa che il rigore della giustizia debba talora essere contemperato con la compassione, chi si commuove davanti a taluni fatti della vita, chi non crede che i rapporti tra le persone debbano essere improntati al principio “homo homini lupus”.
Buonista, in particolare, è chi ritiene che il problema dell’immigrazione debba essere affrontato con razionalità e realismo, esaminando i fatti per quello che sono e non attraverso le lenti deformanti del pregiudizio ideologico, venato di xenofobia e di razzismo.
Tra qualche anno, fra il 2010 e il 2011, quando molti paesi europei avranno effettuato, con la consueta cadenza decennale, il loro censimento, sarà disponibile un nuovo e sorprendente ritratto dell’Europa.
Un continente trasformato, dove l’Est slavo, il Sud musulmano e africano e l’estremo Suboccidente latino americano si confonderanno come mai era successo da quando il Mediterraneo era un lago conteso fra culture diverse.
Da qualche tempo, si sta assistendo ad un fenomeno epocale. Dalle parti meno fortunate del mondo (Africa, Asia, America latina, Europa dell’est), milioni di diseredati si spostano verso i ricchi paesi dell’Europa occidentale e gli Stati Uniti. Il fenomeno può solo essere paragonato (anche se, probabilmente, ha una dimensione molto maggiore) alle migrazioni che, fra l’ottocento ed il novecento, vi furono dall’Europa (Italia, Germania, Irlanda, Polonia) verso gli Stati Uniti e, in misura più ridotta, verso l’Argentina, il Brasile e l’Australia.
Allora milioni di emigranti italiani, nell’arco di qualche decennio, abbandonarono le regioni meridionali ed il Veneto, spinti dalla volontà di crearsi una nuova vita. Dopo inenarrabili difficoltà, ora si sono integrati: negli Stati Uniti, la comunità italo-americana esprime senatori, giudici, uomini d’affari. Il modo di vita italiano, che non si esprime più negli spaghetti e nel mandolino, è divenuto l’”italian style”, più “trendy” e alla moda che mai.
Un secolo dopo, tocca ora alla vecchia Europa di essere assalita da ondate migratorie provenienti dai paesi poveri dell’Africa e dell’Asia, dell’Europa dell’est e delle regioni andine dell’America latina.
Come tutti i fenomeni epocali, anche questo è un fenomeno inarrestabile. Può solo essere governato con prudenza e saggezza, e non certo, come da taluni si dice ormai apertamente anche se non in pubblico, mandando le navi della Marina militare al largo della Sicilia, per respingere, a colpi di cannone, i barconi, carichi di immigrati inermi, di donne e bambini, che tentano di sbarcare sulle coste di Lampedusa o di Pantelleria.
La paura nei confronti degli immigrati è irrazionale, come la paura dell’uomo nero delle favole.
Già oggi essi sono indispensabili per il funzionamento dell’economia, perché accettano di svolgere (come un secolo fa gli italiani negli Stati Uniti) anche i lavori più umili per i quali gli italiani (che sognano, per il loro futuro, solo una scrivania) non sono più disponibili.
Ma, fra gli immigrati, vi sono anche molti tecnici e laureati, di cui vi è tanto bisogno.
Certo i loro costumi, le loro abitudini, il loro modo di comportarsi e talora di vestire, sono molto diversi dai nostri. Come un secolo fa, negli Stati Uniti gli immigrati provenienti dall’Irpinia, dal Sannio, dal Molise, dall’Aspromonte o dalle Madonie, erano diversi dalla classe dirigente wasp (white anglo saxon protestant) allora dominante.
Per questo resto perplesso di fronte alle misure invocate da taluni strati di opinione pubblica ed, in parte, inserite dal Governo nel recente “pacchetto sicurezza”, approvato dal Consiglio dei Ministri.
Il fenomeno dell’immigrazione va disciplinato e governato, ma, come ha scritto sul quotidiano “La Repubblica” Joaquim Navarro-Valls, non dimenticato portavoce di Giovanni Paolo II, “quando, alla fine, ad ispirare politiche repressive non è più la sanzione di un reato ma la discriminazione di un gruppo, si va verso una deriva molto pericolosa, destinata al porto sicuro della violenza reazionaria. Una persona … non riceve di fatto la propria dignità dalla cittadinanza, ma dall’appartenenza al genere umano. Per questo non è possibile togliergli dignità di cittadino senza compiere una violazione grave anche dei suoi diritti di uomo e di persona”.
Per questo, come si è espressa un’autorevole fonte vaticana, è necessario coniugare la sicurezza con l’accoglienza.
Sulla base di questi principi, mi sento di condividere le considerazioni del giurista Carlo Federico Grosso, che su “La Stampa” ha pubblicato un primo commento a caldo sulle misure, di carattere penale, contenute nel “pacchetto sicurezza”.
Così ha scritto Carlo Federico Grosso: “Altri provvedimenti sono invece palesemente inaccettabili. Non mi convince, ad esempio, l’introduzione del reato d’immigrazione clandestina, che rischia di trasformare assurdamente in un crimine, e per tutti, l’ingresso in Italia senza documenti regolari, o, ancora di più, la circostanza aggravante prevista per chi, clandestino, commette determinati delitti, discriminando in questo modo gli autori dei reati in ragione di una mera loro condizione personale. Mi preoccupa l’imposizione, sia pure a certe condizioni, ma senza adeguate garanzie, del prelievo del Dna in ipotesi di ricongiungimento familiare. Temo, soprattutto, che l’insieme dei provvedimenti ipotizzati fomenti ulteriormente xenofobia e razzismo, caccia alle streghe ed emarginazione, già pericolosamente esplosi in alcuni drammatici episodi d’inaccettabile violenza contro cittadini europei di etnia diversa dalla nostra”.
Vorrei concludere con una citazione. E’ tratta da un libro di Alexis de Tocqueville, “La democrazia in America”, scritto quasi due secoli fa e ormai diventato un classico.
L’ha ricordata, qualche tempo fa, Eugenio Scalfari in un suo editoriale su “La Repubblica”.
“Nella vita di ogni popolo democratico c’è un passaggio assai pericoloso, quando il gusto per il benessere materiale si sviluppa più rapidamente dell’abitudine alla libertà. Arriva un momento in cui gli uomini non riescono più a cogliere lo stretto legame che unisce il benessere di ciascuno alla prosperità di tutti.
Una nazione che chieda al suo governo il solo mantenimento dell’ordine è già schiava in fondo al cuore e da un momento all’altro può presentarsi l’uomo destinato ad asservirla. Non è raro vedere pochi uomini che parlano in nome di una folla assente o distratta e che agiscono in mezzo all’universale immobilità cambiando le leggi e tiranneggiando a loro piacimento sui costumi. Non si può fare a meno di rimanere stupefatti di vedere in quali mani indegne possa cadere anche un grande popolo”.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel giugno 2008)

NON SANNO DI CHE PARLANO…

“Non sanno di che parlano…”. Con queste parole l’ex Ministro dell’Interno Beppe Pisanu, personaggio certamente non sospettabile di estremismo, ha commentato sul quotidiano “La Stampa” le molteplici proposte che, nelle ultime settimane, si sono susseguite sul problema della sicurezza, ormai quasi unanimemente considerato un’emergenza nazionale.
In effetti, la campagna elettorale è stata giocata duramente ed efficacemente sul tema della sicurezza.
E’ assai diffuso un forte sentimento di insicurezza. La situazione economica mondiale desta non poche preoccupazioni.
C’è una crisi bancaria, detta dei “subprimes”; c’è un’impennata generalizzata dai prezzi delle materie prime e dei prodotti alimentari; c’è un disequilibrio importante, ma che non è nuovo, dei mercati finanziari e commerciali internazionali. Quest’ultima crisi riguarda direttamente l’euro.
In particolare, l’Italia sembra avviata verso una situazione di “stagflazione”, in cui alla stagnazione dell’economia si accompagna una sempre più significativa crescita dei prezzi.
Eppure, quando si parla di mancanza di sicurezza, non ci si riferisce all’incertezza derivante dalle scarsamente brillanti prospettive dell’economia, ma ad una asserita situazione di emergenza nel campo dell’ordine pubblico.
Nel corso della campagna elettorale, è sembrata emergere una prepotente domanda di “law and order” (come direbbero gli americani), che non ha equivalenti nel passato del nostro paese.
I meno giovani ricorderanno certamente che, trent’anni fa, durante gli anni bui del terrorismo, nelle grandi città, si sparava per le strade e che magistrati, avvocati, poliziotti, carabinieri, uomini politici, guardie carcerarie, giornalisti, comuni cittadini, quasi ogni giorno cadevano vittime del piombo brigatista.
I meno giovani ricorderanno che, ogni sabato pomeriggio, il centro di Milano e di altre città veniva messo a ferro e fuoco da manifestanti di opposte fazioni e che, non di rado, le manifestazioni lasciavano sul campo morti e feriti.
Ricorderanno ancora i meno giovani che, nel marzo 1977, a seguito della morte di un simpatizzante di “Lotta continua”, gli autonomi si impadronirono del centro di Bologna sotto la guida di Francesco Berardi, detto Bifo, e che l’allora Ministro dell’Interno Kossiga (così sprezzantemente chiamato dal “movimento”) fu costretto a mandare i mezzi cingolati nel centro di Bologna, per riportare l’ordine in città. Ricorderanno i meno giovani che, nel 1974, l’allora Presidente del Consiglio Rumor, per decidere di far entrare la polizia nell’Università di Roma, che era occupata da mesi e in cui da mesi non si riusciva più a svolgere alcuna attività didattica, convocò un “vertice”, come si diceva allora, dei segretari dei partiti che sostenevano il Governo (oggi basterebbe una telefonata del Ministro dell’Interno al Prefetto di Roma).
Adesso la situazione non è neppure lontanamente paragonabile a quella di allora. Eppure sembra che tutti siano convinti che una pretesa mancanza di sicurezza costituisca un’emergenza nazionale. Anche se l’ISTAT sostiene che, dal 2000 ad oggi, si è vista una progressiva riduzione del numero degli omicidi, da 13,1 a 10,3 per milione di abitanti, la criminalità è fonte di angoscia per il 58,7% degli italiani. Si tratta, quindi, di una percezione più che di un problema reale. Ma, mentre i problemi reali, proprio perché reali, si possono affrontare e risolvere, i problemi che sono solo percepiti sono assai più difficili da superare.
Il nuovo Governo, nella sua prima riunione, ha varato un decreto legge, definito giornalisticamente come “decreto sicurezza”, accompagnato da altre misure, contenute in disegni di legge presentati alle Camere. Anche il Comune di Cremona nel suo piccolo, dopo infinite polemiche che, ad un osservatore esterno, davano la sensazione di una città completamente in preda alla criminalità, ha nominato un assessore alla “sicurezza”, nella persona di uno stimato ex funzionario di polizia.
Si tratta di misure dall’effetto pratico assolutamente incerto, ma dal sicuro effetto “placebo”. Soddisfano un bisogno psicologico. Rispondono, appunto, all’angoscia che attanaglia il paese. Reale o percepita, endogena o indotta, in questa forma subdola di angoscia italiana, si esprimono l’incertezza e il timore di essere circondati da nemici, di non avere spazio né risorse sufficienti per vivere.
Quanto possa durare un effetto “placebo” non è dato di sapere.
Occorrerebbe, perciò, come ha scritto Marcello Sorgi su “La Stampa”, convincere i cittadini che la conquista di una maggiore tranquillità non può dipendere solo dal lavoro delle forze dell’ordine; ma è legata, in buona parte, a una maggiore disponibilità a cambiare i propri stili di vita, riducendo insieme rischi, ansie e paure non sempre giustificati.
Quanto al contenuto delle norme del decreto “sicurezza”, è stato così commentato, ancora su “La Stampa”, da un illustre giurista, Carlo Federico Grosso: “Alcune delle misure approvate potrebbero essere condivise da chiunque. Chi potrebbe contestare, ad esempio, l’opportunità di punire con sanzioni adeguate chi guida ubriaco o, guidando in tale condizione, cagiona la morte di qualcuno?
O discutere la ragionevolezza di colpire chi affitta in nero la casa a clandestini, di frenare i matrimoni di convenienza degli stranieri, di stroncare l’utilizzazione dei minori nell’accattonaggio o nelle attività illegali? Chi potrebbe criticare provvedimenti che riducono le agevolazioni processuali nei confronti dei mafiosi o facilitano la confisca dei loro beni?”.
Altri provvedimenti sono, invece, certamente discutibli.
Soprattutto quelli che riguardano gli immigrati, in quanto sembrano fondati su una filosofia che considera la povertà stessa un reato.
Ma di tali provvedimenti, vi sarà modo di parlare più avanti, quando avranno iniziato ad essere applicati in concreto ed i giudici avranno avuto modo di esaminarne i profili di costituzionalità, che, ad avviso di molti giuristi, non sarebbero irrilevanti.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel giugno 2008)

IL KOSOVO E’ UNO STATO SOVRANO?

Il 17 febbraio 2008 il Kosovo ha proclamato la propria indipendenza dalla Serbia, facendo nascere, nell’ambito di quella che un tempo era la Jugoslavia, un nuovo Stato.
Sino a quel momento, il Kosovo era una provincia autonoma della Serbia, occupata da truppe internazionali e sottoposta, dal 1999, all’amministrazione dell’ONU.
Come provincia autonoma, aveva una propria assemblea formata da 120 membri eletti a suffragio diretto, che a sua volta sceglieva un Presidente.
E’ stata questa Assemblea a dichiarare l’indipendenza del Kosovo, nonostante la Costituzione serba del 2006 avesse affermato la sovranità indiscussa della Serbia sulla provincia.
La comunità internazionale, almeno in alcune sue componenti assai significative (gli Stati Uniti e molti stati europei, fra cui Regno Unito, Francia, Germania, Italia, nell’ambito di un’Unione europea non unanimemente favorevole), ha appoggiato la nuova entità, effettuando un rapido riconoscimento dell’indipendenza kosovara.
La Serbia e la Federazione russa, dal canto loro, hanno espresso la loro contrarietà, affermando che tale auto-proclamazione di indipendenza costituiva una violazione delle norme del diritto internazionale.
Come ha sostenuto l’internazionalista Enrico Greppi su “Policy brief” una pubblicazione “online” dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale, per quanto attiene al costituirsi di un nuovo Stato nella comunità internazionale, l’attribuzione della personalità giuridica fa essenzialmente riferimento al principio di effettività. Quando un’entità dotata di una propria organizzazione assume il controllo effettivo di una porzione di territorio ed esercita concretamente un’attività di governo sulla popolazione che vi è stanziata, e manifesta indipendenza rispetto a qualsiasi altro Stato, si può ritenere che questa entità sia un nuovo Stato.
L’eventuale riconoscimento da parte di altri Stati e di organizzazioni internazionali è un atto meramente politico, dotato puramente di efficacia dichiarativa della personalità giuridica internazionale. Come tale, è un atto discrezionale, che gli Stati emettono in base a proprie valutazioni circa l’effettività e l’indipendenza del nuovo Stato.
La materia è quindi regolata dal principio di effettività. Una famosa sentenza inglese degli anni trenta (caso Vrissarri vs. Clement) affermò il principio che, anche per gli Stati non riconosciuti “è possibile addurre prove onde dimostrare che essi sono in fatto degli Stati indipendenti”. La sentenza stabilì anche che occorre dimostrare che si tratta di “associazioni formate per la mutua difesa, le quali non riconoscano alcuna autorità fuori del proprio governo, osservino le regole della giustizia verso i sudditi degli altri Stati, vivano generalmente sotto le proprie leggi, e mantengano con la propria forza la loro indipendenza”.
Si è detto che il Kosovo non possiede compiutamente tali requisiti.
Infatti il Kosovo non ha una solida struttura politico-amministrativa, non ha un apparato di polizia, non ha un sistema giudiziario, non ha un’economia degna di questo nome (salvo quella legata a una diffusa criminalità e intrisa di corruzione), non ha proprie e decenti istituzioni scolastiche e universitarie. Per anni il nuovo Stato peserà, quindi, sugli Stati che lo hanno riconosciuto e sull’Unione europea.
Il fatto che l’11 maggio 2008, in occasione delle elezioni legislative ed amministrative in Serbia, si sia votato anche nelle zone del Kosovo nelle quali la maggioranza della popolazione è serba, sta a dimostrare che l’effettività dell’indipendenza kosovara permane, quanto meno, opinabile.

* * *

Un problema simile si pose, anni fa, in Italia, con riferimento a quella che poi fu definita la “sedicente Repubblica sociale italiana”.
Come è noto, la Repubblica sociale italiana, fu costituita, dopo il crollo del regime fascista, conseguente al voto del Gran Consiglio del 25 luglio 1943, nella parte di Italia occupata dalle truppe tedesche. Il suo governo ebbe sede sul Lago di Garda (da cui il nome di Repubblica di Salò).
Si trattava, come si suol dire, di uno Stato fantoccio, uno Stato che doveva la sua esistenza a un’entità più potente, la Germania.
La Repubblica sociale, che pure ebbe un significativo controllo del territorio, quanto meno a nord dell’appennino tosco-emiliano (la cosiddetta “linea gotica”), fu riconosciuta come Stato solo dalla Germania, dal Giappone e da pochi altri Stati alleati di questi ultimi.
I comandi militari tedeschi, pur non avendo mai dichiarato di essere forze di occupazione militare, di fatto si comportarono come tali, asservendo a sé ogni potere civile e militare esistente.
Comunque, nell’Italia settentrionale l’autorità della Repubblica sociale ebbe una durata sufficientemente lunga, con organi sia costituzionali che amministrativi, i quali svolsero le attività loro proprie.
Come ebbe a scrivere Massimo Severo Giannini nella voce “Repubblica sociale italiana” dell’Enciclopedia del Diritto, la tesi accettata dalla dottrina dominante e anche dalla giurisprudenza – per quel poco che ha avuto occasione di pronunciarsi – è che la Repubblica sociale costituì un governo di fatto: di fatto sta a significare che storicamente fu un governo perdente, in quanto travolto, in una con le forze armate tedesche, dalle forze armate alleate, con l’offensiva finale, e dall’insurrezione interna delle forze partigiane del 25 aprile 1945.
I rapporti giuridici sorti sotto il “sedicente governo” della Repubblica sociale italiana furono disciplinati dal Decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1944 n. 249, che provvedeva a distinguere fra atti assolutamente inefficaci, atti relativamente inefficaci e atti relativamente ed assolutamente efficaci.
Ma, alla fine, come ebbe ancora a rilevare Massimo Severo Giannini, i fatti e le vicende della Repubblica sociale italiana, in quanto fatti di dolore, di tristezza e di sangue, appartengono alla storia, più che al diritto.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2008)

REGIONALISMO, FEDERALISMO, FEDERALISMO FISCALE

Tramontata ingloriosamente la “devolution”, la nuova parola d’ordine, riguardo all’assetto istituzionale della Repubblica, è divenuto il “federalismo fiscale”.
Come ha osservato il costituzionalista Enrico Cuccodoro nel suo recente volume “Il diritto pubblico della transizione costituzionale italiana”, la Costituzione ha disegnato uno stato unitario e pluralista insieme, aperto alla promozione ed al riconoscimento delle autonomie e del più ampio decentramento. Negli anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione prevalse, invece, in linea di fatto, un sistema di organizzazione amministrativa di stampo statalista, derivato dal modello napoleonico, poi fatto proprio dallo Stato unitario.
L’introduzione, nel 1970, dell’ordinamento regionale non seppe sfruttare gli ampi spazi di autonomia riconosciuti dalla Costituzione.
La Legge 8 giugno 1990 n. 142 (che sostituì i vecchi testi unici della legge comunale e provinciale, risalenti al 1915 ed al 1934) segnò l’inizio di un rinnovato interesse del legislatore per le autonomie locali, alle quali, grazie anche all’impulso proveniente da una forza politica nettamente caratterizzata in senso autonomista, di cui si voleva frenare la deriva secessionista, fu dato sempre maggiore spazio.
Si iniziò, quindi, a parlare di riforma federale dello Stato, che si concretò nella Legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, che modificò il Titolo V della Costituzione, relativo a Regioni, Province, Comuni.
Anche con l’approvazione della riforma del Titolo V, tuttavia, si rimase ben lontani dall’aver trasformato l’Italia in uno Stato federale, come la Germania o la Svizzera.
Innanzitutto per una ragione formale (ma mai come nella materia costituzionale la forma è sostanza).
Resta, infatti, in vigore (e nessuno ha mai proposto di modificarlo), l’articolo 5 della Costituzione che disegna quello Stato, unitario e pluralista insieme, di cui si parlava dianzi: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Invece, in uno Stato federale, si ha (come ha ben illustrato il costituzionalista Michele Ainis nel suo “Dizionario costituzionale”) uno Stato composto, che si articola al suo interno in una pluralità di altri Stati, dotati di un proprio ordinamento diverso e relativamente indipendente da quello dello Stato centrale.
Storicamente, uno Stato federale nasce in due modi diversi: più Stati indipendenti si associano tra loro dando vita a una nuova formazione, ovvero Stati unitari decentrati modificano il loro assetto in senso federale. Il primo caso è quello degli Stati Uniti e della Svizzera; il secondo quello del Belgio.
La teoria del federalismo fu delineata, per la prima volta, in un’opera del 1788, “Il Federalista”, di Alexander Hamilton, James Madison e John Jay, nella quale veniva sviluppata, da un lato, una critica della democrazia diretta a favore del sistema rappresentativo e, dall’altro, veniva proposta una difesa della Costituzione federale degli Stati Uniti, per propugnarne la ratifica da parte della Convenzione dello Stato di New York.
Negli ultimi anni è, infine, invalso l’uso del termine “federalismo fiscale”, quasi una forma ridotta di federalismo, limitata all’aspetto fiscale.
Il federalismo fiscale parrebbe consistere nell’attribuire a ciascuna Regione una potestà impositiva propria, volta ad assicurarle i mezzi per realizzare autonomamente gli obiettivi derivanti dall’esercizio delle sue funzioni.
Federalismo fiscale non potrebbe, comunque, voler dire che il gettito fiscale di ogni Regione verrebbe utilizzato esclusivamente nel singolo territorio, in quanto ciò creerebbe un notevole squilibrio tra Regioni ricche e Regioni povere, pregiudicando i diritti dei cittadini residenti in queste ultime e ledendo quindi il fondamentale principio di eguaglianza, consacrato nell’articolo 3 della Costituzione.
Inoltre, se all’attribuzione alle Regioni di nuove risorse non dovesse corrispondere l’attribuzione di nuove funzioni (secondo un principio di federalismo vero e proprio e non di un federalismo meramente fiscale), si creerebbero i presupposti di una crisi della finanza pubblica, in quanto, ad una diminuzione delle risorse statali, non corrisponderebbe una correlativa diminuzione dei compiti dello Stato.
In realtà, il problema è già stato risolto dalla stessa Costituzione (nel testo modificato dalla Legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3), che solo richiede di trovare attuazione concreta.
L’articolo 119, dopo che gli articoli 117 e 118 hanno fissato le competenze regionali, così dispone in materia di finanza degli enti locali: “I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno autonomia finanziaria di entrata e di spesa. I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno risorse autonome. Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, in armonia con la Costituzione e secondo i principi di coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario. Dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio.
La legge dello Stato istituisce un fondo perequativo, senza vincoli di destinazione, per i territori con minore capacità fiscale per abitante. Le risorse derivanti dalle fonti di cui ai commi precedenti consentono ai Comuni, alle Province, alle Città metropolitane e alle Regioni di finanziare integralmente le funzioni pubbliche loro attribuite.
Per promuovere lo sviluppo economico, la coesione e la solidarietà sociale, per rimuovere gli squilibri economici e sociali, per favorire l’effettivo esercizio dei diritti della persona, o per provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni, lo Stato destina risorse aggiuntive ed effettua interventi speciali in favore di determinati Comuni, Province, Città metropolitane e Regioni.
I Comuni, le Province, le Città metropolitane e le Regioni hanno un proprio patrimonio, attribuito secondo i principi generali determinati dalla legge dello Stato.
Possono ricorrere all’indebitamento solo per finanziare spese di investimento. E’ esclusa ogni garanzia dello Stato sui prestiti dagli stessi contratti”.
In conclusione, più che pensare ad astratte forme di federalismo, pur se limitate all’ambito fiscale, sarebbe opportuno dare compiuta attuazione, anche sotto il profilo della finanza locale, al disegno costituzionale che ha voluto coniugare unità ed autonomia, solidarietà ed efficienza.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2008)

CON LA MORTE DI MORO FINI’ LA PRIMA REPUBBLICA

Trent’anni sono passati da quel 9 maggio 1978, quando a Roma, in Via Caetani, una strada del centro storico non lontana dalla sede democristiana di Piazza del Gesù e dalla sede comunista di Via delle Botteghe Oscure, fu rinvenuto, nel bagagliaio di una R4 rossa, il corpo senza vita di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate rosse, che l’avevano rapito cinquantacinque giorni prima, dopo aver massacrato i cinque uomini della sua scorta.
Quando giunse la notizia della morte di Moro, era riunita la Direzione della Democrazia Cristiana ed aveva da poco iniziato il suo intervento il Presidente del Senato Fanfani, il quale, secondo le unanimi previsioni, si sarebbe pronunciato a favore di una, sia pur cauta, trattativa con i terroristi, volta a salvare la vita dell’ostaggio.
Lo scontro fra il “partito della fermezza” (largamente maggioritario) ed i fautori della trattativa segnarono tutta la vicenda Moro.
L’anniversario, che quest’anno ricorre, ha rinfocolato, nella pubblicistica, vecchie polemiche, in realtà mai sopite, sul fatto se fosse o meno possibile salvare Moro e se vi fosse o meno la volontà di salvarlo.
In realtà, i numerosi volumi pubblicati negli ultimi mesi non aiutano a risolvere il dilemma.
Si tratta però di libri che aiutano chi, in ragione dell’età, non ha memoria personale di quei fatti, a conoscere e comprendere quanto accadde allora.
Ma questa pubblicistica aiuta soprattutto a conoscere la figura di Aldo Moro, che appare lontanissima, come pensiero ed anche come stile, da quella dei politici attuali (nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo con una “velina” seduta sulle ginocchia).
Nelle becere polemiche, alimentate da politici ignoranti e giornalisti faziosi, totalmente digiuni della storia recente, cui siamo, da tempo, abituati, Moro, con grossolana faciloneria, è liquidato come un “cattocomunista”. Secondo lo stereotipo, sarebbe stato un personaggio che, sotto il malefico influsso di Giuseppe Dossetti (con il quale, peraltro, non risulta Moro avesse particolari rapporti di frequentazione), mirava solo ad una alleanza fra cattolici e comunisti, che avrebbe allontanato il nostro paese dall’Occidente e dall’Europa.
Il Moro che esce da talune di queste ricostruzioni da “talk show” televisivo è talmente deformato da apparire addirittura macchiettistico.
Moro era professore di istituzioni di diritto e procedura penale nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma. La sua formazione culturale, tuttavia, non era tanto quella del penalista (non fece mai l’avvocato), quanto, piuttosto, quella del filosofo del diritto, che lo portava spesso ad esprimersi in modo involuto. Talune sue analisi della società italiana, tuttavia, rilette a decenni di distanza, appaiono ancora penetranti e suggestive.
Disse, ad esempio, nel suo intervento al Congresso della Democrazia Cristiana del marzo 1976 (l’ultimo cui partecipò): “Questo paese non si salverà e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”.
Sono parole che nascono da un’amara consapevolezza di una realtà – nella quale l’Italia viveva – dove veniva sentito come necessario il bisogno di un cambio di rotta, di un mutamento radicale nella società e nella politica. Sono parole di drammatica attualità, senza tempo; parole sulle quali i leaders politici di oggi, dimentichi del fatto che è più facile alimentare le speranze che mantenere le promesse, dovrebbero soffermarsi a meditare.
In particolare, è da sfatare il mito del cattocomunismo di Moro.
Giovanni Galloni, che all’epoca del sequestro Moro era vice segretario della Democrazia Cristiana, in un suo recentissimo libro di memorie (“30 anni con Moro”, pagina 233), riferisce quanto Moro ebbe a dirgli il 20 febbraio 1978, alla vigilia della formazione di quel governo di “solidarietà nazionale”, appoggiato dai comunisti, che avrebbe ottenuto la fiducia il 16 marzo, lo stesso giorno del rapimento di Moro in Via Fani: “Se l’evoluzione in corso sia del Pci che della Dc andrà in porto, se da una parte il Pci compirà i passi decisivi per confermare la sua autonomia da Mosca e noi dall’altra i passi decisivi iniziati con la segreteria Zaccagnini per trasformare il partito, nella sua unità, in un partito popolare espressione di 14 milioni di voti, non potremo certamente presentarci nelle liste elettorali insieme ai comunisti (e cioè accettando il compromesso storico) ma dovremo presentarci agli elettori con una lista autonoma. Da una parte la Dc dovrà raccogliere i voti dei nostri elettori su un programma il più possibile avanzato e cercare la convergenza parlamentare dei partiti laici democratici che non intendono fare il governo con i comunisti, compreso lo stesso partito liberale. Dall’altra, i comunisti presenteranno un programma alternativo di governo, pur avendo in comune con noi i principi fondamentali della Costituzione. Cercheremo, se possibile, di vincere le elezioni su una linea di riforme democratiche rifiutando uno schieramento di destra. Ma anche se dovesse vincere lo schieramento alternativo democratico di sinistra, rimasto fermo sui principi costituzionali della democrazia parlamentare, noi passeremo all’opposizione, ma la democrazia nel paese non sarebbe stata per questo compromessa.
Avremmo raggiunto cioè in Italia la democrazia compiuta”
La “democrazia compiuta”, e cioè una democrazia in cui fosse possibile l’alternanza, era il vero obiettivo della strategia politica di Aldo Moro.
La sua prematura uscita di scena vanificò questo disegno.
Alla “democrazia compiuta” si è arrivati dopo il 1994, dopo che, in un contesto che Moro non poteva certo immaginare, la prima repubblica (e con essa la Democrazia Cristiana che ne era stata il partito egemone), era ingloriosamente finita nel fango, sommersa dal discredito e dagli scandali di tangentopoli.
Come ha scritto il giornalista Andrea Colombo, in un altro volume sulla vicenda Moro, (“Un affare di stato. Il delitto Moro e la fine della Prima Repubblica”), a trent’anni di distanza, l’idea che il 13 maggio 1978 nella basilica di San Giovanni, in occasione della messa in suffragio di Moro, celebrata da Paolo VI in persona, con tutti i protagonisti politici schierati, con i volti terrei, intorno ad una metaforica bara vuota, si siano celebrati finti funerali di Moro (la famiglia aveva voluto esequie privatissime), ma vere esequie della prima repubblica, ha una forza suggestiva quasi invincibile.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2008)

COME LA CASSAZIONE HA SALVATO LE ELEZIONI

Il dibattito sui risultati elettorali ha messo in secondo piano un fatto che, se non fosse stato risolto dalla Corte di Cassazione, avrebbe potuto mettere a repentaglio lo svolgimento regolare delle consultazioni.
I lettori ricorderanno certamente i fatti. Il partito della Democrazia Cristiana (una micro formazione politica il cui unico legame con la D.C. sciolta nel 1994 è costituito dalla titolarità del simbolo dello scudo crociato, a seguito di complesse vicende giudiziarie, ancora non definitivamente risolte, che non è qui il caso di riassumere) era stato escluso dalla competizione proprio per il simbolo, che, secondo il Ministero dell’Interno “contiene elementi letterali, grafici e cromatici … confondibili con elementi caratteristici del simbolo usato tradizionalmente da altro partito presente in Parlamento e depositato” (si tratta del simbolo dell’U.D.C.).
Essendosi verificata la violazione dell’articolo 14, commi 3,4 e 6, del D.P.R. 30 marzo 1957 n. 361, il provvedimento del Ministero veniva confermato dall’ufficio elettorale centrale, costituito presso la Corte di Cassazione, in data 8 marzo 2008.
Sosteneva l’ufficio elettorale centrale che la normativa violata, indipendentemente dalla titolarità, sotto il profilo privatistico, dei segni distintivi dell’originaria Democrazia Cristiana, è “volta a garantire una corretta scelta dell’elettore, immune da sviamenti o confusioni, verso una determinata forza politica, con tutela quindi dell’affidamento identitario – che questi può ragionevolmente effettuare attraverso il riscontro, appunto, di segni, simboli o parole – nell’immagine socialmente acquisita da un determinato partito”.
Nessun errore vi era stato, quindi, come, con una sciocca polemica, si sarebbe detto qualche settimana più tardi, né da parte del Ministero dell’Interno, né, tanto meno, da parte di Giuliano Amato personalmente (il ministro, peraltro, è anche un raffinato giurista).
Il partito della Democrazia Cristiana, assumendo che il provvedimento dell’Ufficio elettorale centrale fosse un normale atto amministrativo, lo impugnava davanti al TAR per il Lazio, proponendo, altresì, istanza cautelare (la cosiddetta “sospensiva”), al fine di ottenere l’ammissione della lista in tempo utile per poter partecipare alle consultazioni elettorali già fissate.
L’istanza veniva rigettata dal TAR (con ordinanza del 20 marzo 2008, n. 1618), ma il provvedimento veniva riformato dalla V Sezione del Consiglio di Stato in data 1° aprile 2008, con ordinanza n. 1744. L’ordinanza del Consiglio di Stato, motivata in modo assai sintetico, rilevava che la questione era attinente “non alla verifica dei titoli di ammissione dei componenti, riservata ai competenti organi delle camere, ma alla ammissione delle liste”.
Ciò premesso, considerato che le controversie relative alla fase antecedente le elezioni “in quanto aventi ad oggetto atti amministrativi, devono ritenersi rientranti nella giurisdizione del giudice amministrativo”, accoglieva l’appello e disponeva l’ammissione della lista della Democrazia Cristiana alla consultazione elettorale.
Il Consiglio di Stato, nel decidere, si richiamava ad una precedente ordinanza del Consiglio di giustizia amministrativa per la Regione Siciliana (6 aprile 2006, n. 218), che aveva affermato il seguente principio: “Sussiste la giurisdizione di legittimità del giudice amministrativo in ordine alle controversie relative alla mancata ammissione alle liste elettorali per partecipare alle elezioni politiche nazionali”.
A questo punto, come i lettori ricorderanno, la situazione si era fatta davvero ingarbugliata: da un lato, infatti, il partito della Democrazia Cristiana, riammesso alle elezioni in forza di un provvedimento giurisdizionale, esecutivo ma non definitivo (e quindi sempre modificabile nel successivo giudizio di merito davanti al TAR ed al Consiglio di Stato), si doleva, giustamente, di non aver avuto a disposizione, per la campagna elettorale, lo stesso tempo delle altre formazioni politiche; dall’altro lato, la Costituzione, all’articolo 61, dispone che “le elezioni delle nuove Camere hanno luogo entro settanta giorni dalla fine delle precedenti” e quello fissato per le elezioni era l’ultimo fine settimana utile per le consultazioni, senza che fosse eluso il termine costituzionale.
Ad onor del vero, il Ministro Amato, sbeffeggiato da politici ignoranti e giornalisti faziosi, cui non pareva vero di potergli attribuire personalmente la responsabilità del caos che si profilava all’orizzonte, sostenne, da subito, che il Consiglio di Stato non aveva giurisdizione sulla questione. Amato, infatti, non poteva non aver presente un precedente giurisprudenziale, con il quale la Corte di Cassazione aveva statuito il seguente principio: “Pur riconoscendosi natura amministrativa agli atti degli Uffici elettorali circoscrizionali e centrali, sussiste il difetto assoluto di giurisdizione, sia del giudice ordinario che del giudice amministrativo, su tali atti, con riguardo al regolare svolgimento delle operazioni elettorali, e in particolare, in relazione a quelle attività che hanno preceduto la convalida degli esiti delle elezioni, la cui attribuzione è rimessa a ciascuna Camera, con un giudizio definitivo sui reclami avverso la ricusazione delle liste e sugli effetti di questi provvedimenti in ordine alla convalida stessa delle elezioni” (Cass., Sezioni unite, 6 aprile 2006, n. 8118).
L’orientamento della Cassazione è fondato sull’articolo 66 della Costituzione, secondo cui “ciascuna camera giudica dei titoli di ammissione dei suoi componenti”.
Conseguentemente, l’Avvocatura dello Stato, per conto del Ministero dell’Interno e dell’Ufficio elettorale centrale, proponeva ricorso per cassazione, chiedendo che fosse dichiarato, nella fattispecie, il difetto assoluto di giurisdizione, non essendovi né la giurisdizione del giudice amministrativo, né quella del giudice ordinario.
Stante l’urgenza (le elezioni dovevano svolgersi dopo pochi giorni), il ricorso veniva discusso all’udienza dell’8 aprile e la sentenza veniva depositata nel pomeriggio del medesimo giorno (Sezioni unite, 8 aprile 2008, n. 9151).
La Cassazione, uniformandosi alla propria precedente giurisprudenza, dichiarava, in accoglimento del ricorso, il difetto assoluto di giurisdizione, ponendo quindi nel nulla l’ordinanza con la quale il Consiglio di Stato aveva ammesso alle elezioni il partito della Democrazia Cristiana.
Così si afferma nella sentenza: “Proprio facendo leva su questa disposizione, attuativa del principio di autodichia delle Camere, espresso dall’art. 66 Cost., questa Corte ha già avuto modo di affermare che ogni questione concernente le operazioni elettorali, ivi comprese quelle relative all’ammissione delle liste, compete in via esclusiva al giudizio di dette Camere, restando così preclusa qualsivoglia possibilità di intervento in proposito di qualsiasi autorità giudiziaria”.
Le elezioni, già fissate per il 13 e 14 aprile, potevano quindi svolgersi regolarmente.
Ma i problemi giuridici posti dal ricorso del partito della Democrazia Cristiana sono, in verità, tutt’altro che risolti.
Come, infatti, la stessa sentenza delle Sezioni unite ha ammesso, vi è talora stato, in passato, un diverso orientamento assunto dalle Giunte parlamentari. La Cassazione ha risolto il problema sostenendo che “è la giunta nominata dalla Camera parlamentare risultante dalla nuova elezione a doversi pronunciare sulla questione”.
Resta il fatto che la questione dell’ammissione delle liste elettorali è alla ricerca di un giudice, in quanto il demandare alla giurisdizione della Camera ancora da eleggere la tutela in ordine agli atti relativi alla presentazione delle liste, rischia di rendere tale tutela priva di effettività. Mentre pienezza ed effettività della tutela giurisdizionale sono un valore costituzionalmente garantito.
Infatti, non è ipotizzabile in concreto che una Camera, anche di fronte ad illegittimità nel procedimento di presentazione delle liste (come, ad esempio, quella lamentata dal partito della Democrazia Cristiana), possa disporre la ripetizione delle elezioni già svolte.
Ci si domanda, quindi, se il tradizionale approccio della Corte di Cassazione che, sulla base di una lettura ampia dell’art. 66 della Costituzione, ha sempre confermato la spettanza esclusiva alle Camere del potere di sindacare la regolarità e la validità degli atti “pertinenti all’intera sequenza procedimentale che dalla presentazione delle liste conduce alla proclamazione degli eletti”, sia coerente con l’ordinanza della Corte Costituzionale in data 23 marzo 2006 n. 117. Con tale ordinanza, il Giudice delle leggi escludeva la possibilità di “introdurre un nuovo tipo di giudizio costituzionale, avente ad oggetto la procedura di elezione delle Assemblee” attraverso il riconoscimento ai partiti politici della legittimazione a sollevare conflitto di attribuzioni fra i poteri dello Stato (la cui soluzione compete alla Corte Costituzionale), ma riconoscendo, implicitamente, che tale tipo di giudizio sarebbe, purtuttavia, necessario.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2008)

QUANDO CALIGOLA NOMINO’ SENATORE IL SUO CAVALLO

Secondo un tradizionale racconto, l’imperatore romano Caligola, per esprimere il suo totale disprezzo per il Senato, nominò senatore il proprio cavallo, di nome Incitatus.
Questo episodio, fra i più noti della storia romana, ripreso dagli storici Svetonio e Cassio Dione (che però parlano della nomina del cavallo a console), mi è tornato alla mente leggendo il recentissimo volume “Se li conosci li eviti” di Peter Gomez e Marco Travaglio.
Il volume, pubblicato in occasione delle elezioni politiche del 13 e 14 aprile, racconta le malefatte di una lunga serie di candidati, appartenenti a tutti gli schieramenti politici.
Secondo il loro sistema ormai ben conosciuto, Gomez e Travaglio mettono soprattutto in evidenza i precedenti giudiziari dei candidati, le inchieste di cui sono stati fatti oggetto e le condanne riportate.
Ma il capitoletto riguardante la lista dei somari è stata la parte del libro che mi ha colpito di più.
Gli abissi di ignoranza svelati dagli onorevoli somari hanno dell’incredibile.
C’è chi ha fatto di Caino il figlio di Isacco anziché di Adamo, chi ha affermato che la gravidanza di una donna dura 28 giorni, chi ha attribuito al Papa il nome di Giovanni Paolo VI ovvero di Bonifacio, chi ha fatto risalire la scoperta dell’America al millesettecento, chi ha collocato la Rivoluzione francese nella seconda metà dell’ottocento (in contemporanea con l’unità d’Italia), chi ha confuso il Darfur con i fast food e l’ETA con l’Eire, chi, infine, ha definito l’effetto serra come il raffreddamento del pianeta.
Il capitolo del libro di Gomez e Travaglio dovrebbe ora essere aggiornato. Secondo i quotidiani del 5 aprile, Silvio Berlusconi (già noto alle cronache per aver attribuito la fondazione di Roma a Romolo e Remolo) ha affermato che San Pietro (e non già San Paolo) fu folgorato sulla via di Damasco. Né, sempre secondo i giornali del 5 aprile, i manager sono da meno dei politici: secondo un rampante dirigente della Telecom (pagato quasi 900.000 euro l’anno), a Waterloo Napoleone ottenne una brillante vittoria.
In attesa che qualche dirigente politico o industriale ci informi in ordine alla strepitosa vittoria delle truppe italiane a Caporetto o al trionfale ingresso di Hitler a Stalingrado, non resta che riflettere su questa ignoranza così spudoratamente ostentata. In taluni casi, si sarà certamente trattato di un lapsus (ovvero di un “copsus” come l’ha definito un altro onorevole somaro), ma tutto questo non depone certamente a favore della classe dirigente del paese.
Eppure solo qualche anno fa non era così. Deputati e senatori erano generalmente persone che si erano distinte nella loro attività professionale, avevano una buona conoscenza della storia recente, dei principi del diritto costituzionale, delle nozioni fondamentali di economia.
Le forze politiche (e i sindacati) si ponevano il problema della formazione della loro classe dirigente o dei quadri dirigenti, come allora li chiamavano (i più anziani hanno certamente sentito parlare delle scuole di partito della Camilluccia e delle Frattocchie, o della scuola della CISL di Firenze) e le sezioni dei partiti, pur con tutti i loro limiti, erano palestre che educavano alla vita politica ed alla democrazia. Personalmente ho il ricordo di quanto ebbe a raccontarmi il compianto onorevole Bardelli che, pur nella distinzione delle posizioni politiche, mi faceva l’onore di considerarmi un amico: ogni mese il Comitato centrale del P.C.I. gli inviava a casa un pacco di libri (di politica, di economia, di storia, ma anche di letteratura), che il partito riteneva dovessero essere letti dai dirigenti, che avevano l’obbligo di essere colti, aggiornati ed informati.
Quando la legge elettorale (con cui si votò nelle elezioni del 1994, 1996 e 2001) prevedeva i collegi uninominali, i candidati dovevano essere persone presentabili, altrimenti ben difficilmente avrebbero ottenuto il consenso degli elettori. Anche il vecchio sistema delle preferenze (con il quale si votò, per la Camera dei deputati, dal 1948 al 1992), la figura del candidato era importante.
Nonostante le “cordate” e le campagne elettorali dispendiosissime, ben difficilmente un onorevole somaro avrebbe ottenuto il consenso necessario per essere eletto.
Dal 2006, come si sa, la legge elettorale è cambiata. Il sistema che è stato definito “porcellum” (previsto dalla Legge 21 dicembre 2005 n. 270) ha eliminato in radice qualsiasi possibilità di scelta dell’elettore, sia attraverso il voto di preferenza che nel collegio uninominale. L’elezione è determinata esclusivamente dalla posizione del candidato nella lista, posizione che è scelta dal partito al momento della composizione della lista stessa.
Ne consegue che anche un onorevole somaro, purchè collocato in posizione utile nella lista, può facilmente essere eletto.
Nè la sua ignoranza può nuocergli nella compagna elettorale, perché, con questo sistema, i candidati sono sostanzialmente esentati dall’obbligo di partecipare alla campagna elettorale, che è rimasta prerogativa pressoché esclusiva dei leaders nazionali.
Non è facile, quindi, per l’elettore difendersi dagli onorevoli somari e dalla arrogante pretesa dei loro partiti di farli entrare a Montecitorio e a Palazzo Madama.
L’unica possibilità è quella di cambiare partito, soluzione che però potrebbe essere inadeguata, perché gli onorevoli somari sono equamente distribuiti fra tutte le formazioni politiche.
Non mi nascondo che questa situazione può indurre, negli elettori, una crescente frustrazione: sarà, quindi, interessante vedere quale sarà la dimensione dell’astensionismo, nonché il numero delle schede bianche e nulle.
Con sconforto si deve dire che almeno Caligola volle in Senato un purosangue, mentre, duemila anni dopo, le aule parlamentari risuoneranno dei ragli di molti somari.
Ma non saranno certo costoro a risolvere i problemi del paese, se è vero il detto popolare per cui il raglio d’asino non sale al cielo.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2008)