martedì 28 dicembre 2010

IN RICORDO DI VITTORIO GREVI

La mattina del 5 dicembre 2010, sfogliando, come d’abitudine, i quotidiani, sono rimasto sgomento nel leggere la notizia della scomparsa repentina di Vittorio Grevi, fra i più grandi giuristi della mia generazione, professore ordinario di Procedura penale nell’Ateneo pavese, colpito da un fulmineo attacco di leucemia.
Conobbi Vittorio Grevi in anni assai lontani. Nel 1962, quando mi iscrissi alla Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Pavia, lui frequentava già il secondo anno (secondo il linguaggio goliardico io ero quindi una matricola e lui un fagiolo).
All’epoca, erano iscritti alla facoltà poco più di un centinaio di studenti e, pertanto, ci si conosceva tutti. Lui era un brillantissimo studente del Collegio Ghislieri e, per me (che frequentavo l’altro Collegio storico pavese, il Borromeo), era un modello sotto ogni punto di vista.
Fu con me prodigo di consigli e di suggerimenti. Quasi pareva avesse una conoscenza innata del diritto, quel diritto che tanto faticava ad entrare nella mia dura cervice, refrattaria spesso alla comprensione dei più raffinati concetti giuridici.
In realtà, aveva un’intelligenza, accompagnata da una dedizione agli studi, quale di rado mi è accaduto poi di incontrare nel corso della mia lunghissima attività forense.
Si laureò brillantemente in procedura penale, studiò ancora a Torino con Giovanni Conso (che ora, quasi novantenne, piange il prediletto fra i suoi allievi) e, a soli 29 anni, era già ordinario di Procedura penale, dopo un breve periodo di insegnamento a Macerata, nell’Università di Pavia, la sua città, che non volle mai abbandonare.
Con il mio ritorno a Cremona dopo la laurea, le nostre strade si separarono. Io iniziai la professione di avvocato (a giugno saranno quarantadue anni), occupandomi, nella mia pochezza di provinciale, prevalentemente di diritto pubblico.
Vittorio Grevi, invece, dedicò l’intera sua vita alla carriera accademica; non praticò mai l’avvocatura, anche per non alterare la sua capacità di giudizio scientifico.
Socio fondatore dell’Associazione studiosi del processo penale, sono innumerevoli le sue pubblicazioni in materia di Procedura penale, sovente in collaborazione con il suo maestro Giovanni Conso. Componente di varie Commissioni governative per il nuovo codice di procedura penale, promulgato nel 1989, divenne noto al grande pubblico quando iniziò a collaborare prima a Il Sole 24 Ore e poi al Corriere della Sera, spiegando in modo semplice ed essenziale i problemi giuridici di attualità, con particolare attenzione ai profili costituzionali del diritto penale.
In uno dei suoi ultimi interventi sul Corriere (del 19 ottobre 2010, prima che l’improvvisa malattia lo sottraesse alla comunità giuridica italiana) aveva scritto, a proposito della durata dei processi: “In realtà, per raggiungere l’obiettivo di una ragionevole durata dei processi, (vuol dire, per l’imputato, diritto a essere giudicato ‘senza ingiustificato ritardo’), occorre prima percorrere ben altri itinerari di riforma, che sono quelli ormai più volte indicati anche su queste colonne. Dalle riforme di natura organizzativa e strutturale degli uffici giudiziari (a cominciare dalla revisione della geografia delle sedi) fino alle riforme incidenti sul funzionamento del processo (nel senso di snellirne i meccanismi, ridurne i formalismi, incrementare i filtri selettivi delle iniziative ‘inutili’). Si tratta di interventi a costo zero, che tuttavia vengono inspiegabilmente trascurati, mentre si ventilano idee minacciose e del tutto eccentriche (si pensi alla improponibile proposta di una Commissione parlamentare di inchiesta sull’operato della magistratura), le quali creano confusione ed equivoci, distogliendo l’attenzione dai veri problemi”.
Negli ultimi anni, si parlò spesso di una sua possibile nomina a componente laico del C.S.M. o a giudice costituzionale.
Ma la sua assoluta indipendenza di giudizio ed il suo estremo rigore intellettuale e morale non gli giovarono in un ambiente, quello contiguo alla politica, cui Vittorio Grevi non era aduso.
Ciao Vittorio.
Sit tibi terra levis.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel dicembre 2010)

martedì 14 dicembre 2010

LA COSTITUZIONE ECONOMICA

Con il termine di Costituzione economica si è soliti indicare l’insieme delle disposizioni costituzionali che riguardano l’economia.
Dal punto di vista bibliografico, è il titolo del primo volume, uscito nel lontano 1977, del monumentale Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia curato da Francesco Galgano ed ancor oggi non terminato.
Che il primo volume di un’opera destinata a trattare, nel modo più ampio, della disciplina giuridica dei rapporti economici sia intitolato La Costituzione economica è certamente emblematico.
Sta a significare, infatti, che nella Costituzione si ritrovano i principi generali che, nei vari campi, devono informare l’intero ordinamento giuridico.
A quelli che vengono definiti i rapporti economici, la Costituzione dedica gli articoli dal 35 al 47.
Gli articoli 35, 36, 37, 38 parlano dela lavoro, in stretta connessione con l’articolo 1, secondo cui “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Gli articoli 39 e 40 trattano dell’organizzazione sindacale e del diritto di sciopero.
Gli articoli successivi riguardano problemi e settori specifici.
L’articolo 45 è dedicato alla cooperazione; l’articolo 46 (del tutto inattuato dal punto di vista concreto) alla c.d. cogestione dei lavoratori nell’ambito delle aziende. L’articolo 47, infine, tratta del risparmio.
La norma centrale, nell’ambito di tali disposizioni, è l’articolo 41, il cui contenuto era probabilmente ignorato dai più sino a quando, alcuni mesi fa, per qualche settimana si parlò di una sua possibile modificazione.
L’articolo 41 è dedicato alla libertà di iniziativa economica. In tale disposizione sono contenuti i principi fondamentali con cui il legislatore ordinario deve attenersi nel disciplinare il governo dell’economia. Di conseguenza, le mie parole saranno dedicate essenzialmente ad esaminare l’articolo 41.
Gli articoli 42, 43, 44 sono dedicati alla proprietà.
Si tratta di norme significative. L’articolo 42 parla dei limiti alla proprietà privata, in termini non molto diversi da quelli utilizzati dal codice civile del 1942. L’articolo 43 tratta dei monopoli: in base a tale norma fu ritenuta costituzionalmente legittima la nazionalizzazione dell’energia elettrica attuata nel 1962. Così pure, per molti anni, sino al 1975, in base all’articolo 43, fu legittimato il monopolio pubblico radiotelevisivo. L’articolo 44, invece, che riguarda la proprietà terriera, costituì il fondamento costituzionale della riforma agraria attuata negli anni cinquanta.
Torniamo all’articolo 41.
Tale norma riguarda la libertà di iniziativa economica ed è del seguente tenore: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La libertà economica, come pretesa alla non ingerenza del potere politico nei rapporti di produzione e di scambio, ha origini relativamente recenti.
La sua prima affermazione storica si ha nella Francia rivoluzionaria della fine del Settecento con il riconoscimento, accanto alla proprietà quale diritto “sacro e inviolabile” (articolo 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789), del principio della “libertà del commercio e dell’industria”.
L’emergere della libertà economica, intesa sia come principio politico che, come diritto individuale, è il frutto di una conquista della borghesia industriale che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, si fa portatrice di istanze di libertà della produzione e degli scambi.
Nell’Ottocento, tuttavia, sono rare le costituzioni che contengono un’espressa tutela dell’iniziativa e attività economica, distinta ed autonoma rispetto a quella prevista per la proprietà. In questo solco, si colloca anche lo Statuto albertino, il quale (all’articolo 29) riconosce e tutela “tutte le proprietà”, nel limite dell’”interesse pubblico legalmente accertato”. Solo con la Carta del Lavoro, elaborata nel 1927 nella vigenza dell’ordinamento corporativo fascista (fu definita il “testo base della politica economico-sociale corporativa”), si ebbe un espresso riconoscimento del ruolo centrale assegnato dall’ordinamento all’iniziativa economica privata.
L’articolo 41 della Costituzione, che giunge alla fine di questo processo storico, è il frutto di un compromesso fra le tre correnti di pensiero presenti nella Assemblea costituente, quella liberale, quella socialista e quella cattolico-solidarista.
L’articolo 41 è poi il frutto del pensiero economico dell’epoca. Leggendo la norma con gli occhi di oggi, stupiscono l’accento che viene posto (anche se la parola non è utilizzata) sulla programmazione economica, nonché l’assenza di espressioni come concorrenza e mercato, che fanno invece parte dell’attuale linguaggio economico.
La cultura economica di quegli anni era nettamente improntata in senso dirigistico; certamente una norma costituzionale sulla libertà di iniziativa economica oggi verrebbe scritta in modo diverso.
Vista con gli occhi di oggi, come si è detto, la norma può essere considerata incompleta (per la mancanza di riferimenti alla concorrenza ed al mercato), ma non certo superata o inaccettabile.
Il secondo comma pone, come limite alla libertà di iniziativa economica, il divieto di svolgimento della stessa “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ravvisato l’utilità sociale nella realizzazione di interessi costituzionalmente rilevanti (ad esempio la salute, il lavoro, la tutela della donna lavoratrice, il diritto al riposo settimanale, la tutela della famiglia, la tutela del contraente debole, l’interesse dei consumatori).
Il terzo comma dell’articolo 41, invece, è il fondamento della programmazione economica che ebbe, come metodo di governo dell’economia, notevole fortuna negli anni cinquanta e sessanta.
A tale proposito, la dottrina ha ritenuto che il costituente, usando la parola programmi anziché quella di piani, abbia inteso escludere ogni forma di pianificazione rigida (di tipo sovietico, per intendersi), a favore di una programmazione per incentivi. Sarebbe, quindi, legittima una disciplina che tenda a stimolare e indirizzare l’iniziativa privata attraverso strumenti indiretti (come sgravi fiscali e crediti agevolati), anche se una programmazione siffatta sembra oggi parzialmente confliggere con la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato.
Dopo lo Schema Vanoni del 1954, con la Legge 27 luglio 1967 n. 685 fu approvato il “Primo piano quinquennale 1966-1970”, che aveva lo scopo di definire “il quadro della politica economica, finanziaria e sociale del Governo e di tutti gli investimenti pubblici”. Un paradosso, come se fosse possibile disciplinare per legge i dati relativi allo sviluppo economico. Infatti, l’esperimento fallì clamorosamente e, da allora, anche per effetto del progressivo affermarsi delle scelte comunitarie nell’ambito del governo dell’economia, l’interesse della dottrina costituzionalistica (e della politica) per la programmazione economica è andato via via scemando, sino a scomparire.
Il Trattato di Roma, firmato il 25 marzo 1957, dal canto suo, ha affermato (articolo 4, primo paragrafo) il “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.
Il principio contenuto nell’articolo 4 del Trattato è ben lungi dal costituire una mera enunciazione programmatica, priva di effetti giuridici propri.
In applicazione del principio di supremazia del diritto comunitario su quello nazionale, gli Stati membri non sono abilitati ad adottare norme giuridiche confliggenti con i principi contenuti nel Trattato, ivi compresi, ovviamente, i principi del mercato aperto e della libera concorrenza.
All’impostazione dirigista sottesa all’articolo 41 si è, quindi, affiancata una nuova impostazione più schiettamente liberista che, sul piano dei rapporti fra poteri pubblici e mercato, ha portato ad un progressivo allontanamento dal modello di economia mista, implicito nella Costituzione e che ha caratterizzato, per oltre mezzo secolo, la vita del paese.
L’attuale testo dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione (introdotto dalla Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ha, poi, inserito nella Costituzione un richiamo esplicito alla dimensione comunitaria. Di conseguenza, secondo la Corte Costituzionale, l’ordinamento comunitario è divenuto un elemento integrante del parametro di costituzionalità per l’esame della normativa nazionale (si veda, da ultimo, la sentenza della Corte Costituzionale 15 aprile 2008, n. 103).
In conclusione, i già citati principi del libero mercato e della concorrenza, pur se non espressamente menzionati dall’articolo 41 della Costituzione, ma in quanto previsti dall’articolo 4 del Trattato, regolano ormai, a pieno titolo, la libertà di iniziativa economica nel nostro paese.
La recente iniziativa di cui parlavo prima e volta a modificare l’articolo 41 appare, quindi, pleonastica, se non addirittura una fuga in avanti. L’articolo 41 della Costituzione, integrato dall’articolo 4 del Trattato, è, infatti, in grado di garantire la più ampia libertà di iniziativa economica, nonché l’eliminazione di quelli che, già negli anni sessanta, Guido Carli definiva come i lacci e lacciuoli che storicamente hanno condizionato la libertà di iniziativa economica in Italia.
L’articolo 41 modificato sarebbe sostanzialmente solo un manifesto, privo di effetti giuridici concreti.
E’ da ricordare che mai, infatti, una qualsiasi norma liberalizzatrice è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale per violazione dell’articolo 41 nel testo attuale. Le liberalizzazioni che da sempre vengono invocate sono certamente indispensabili (basterà pensare alle limitazioni cui è soggetto il commercio, specie in certi ambiti come quello degli orari), ma la loro attuazione non trova ostacolo nella Costituzione, quanto nei problemi politici connessi alla forza che talune corporazioni ancora mantengono nella società.
Se vi è la volontà politica di liberalizzare taluni settori (e non mi pare che sempre vi sia: penso solo alla riforma della professione forense), la deregulation può essere attuata da subito, senza attendere alcuna riforma costituzionale, dallo Stato e dalle regioni, con leggi ordinarie e leggi regionali.
Come ha scritto l’ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida su Il Sole 24 Ore, “In ogni caso la Costituzione non c’entra. E’ cosa troppo seria perché si possa consentire di coinvolgerla e strumentalizzarla a beneficio di scelte o di non scelte politiche”.

(relazione tenuta presso il Rotary di Crema il 9 novembre 2010)