venerdì 8 ottobre 2010

UNA PROPOSTA PER LA FONDAZIONE

Dai primi di agosto, ormai, le vicende relative alla Fondazione “Città di Cremona” tengono banco nel dibattito politico locale.
Le polemiche si sono susseguite ed hanno assunto contorni non sempre chiari e comprensibili. Con l’usuale mentalità complottistica, si è iniziato a parlare, come era prevedibile, di retroscena e di poteri forti (la P2 e i servizi deviati, per fortuna, non sembrano ancora essere coinvolti).
In realtà, le polemiche politiche (che non mi interessano e in cui non voglio entrare) hanno, in concreto, alzato una cortina fumogena che ha avuto il risultato di nascondere i nodi istituzionali che la vicenda della trattativa per l’acquisto del complesso immobiliare di Palazzo Fodri ha messo drammaticamente a nudo.
Ignoro come, nel 2003, si sia pervenuti a stendere il testo dello Statuto della Fondazione, che è la “lex specialis” che regola l’intera vita dell’ente, dato che le norme contenute nel codice civile e nella legislazione statale e regionale sono assai limitate e frammentarie (D. Lgs. 4 maggio 2001 n. 207 e L.R. 13 febbraio 2003, n. 1).
Ma sono fermamente convinto della assoluta e totale inadeguatezza dello Statuto della Fondazione.
Il patrimonio della Fondazione è pubblico, sia in quanto destinato a scopi di utilità pubblica come quelli socio-assistenziali, sia perché la Fondazione nasce dalla fusione di quattro istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, la cui natura pubblicistica era stata definita dalla Legge 17 luglio 1890 n. 6972 (si tratta della legge “Crispi”, che laicizzò la beneficenza, sino ad allora in mano alla Chiesa ed ai privati). Di contro, la Fondazione è un ente di diritto privato. Le uniche forme di controllo sulla stessa sono quelle previste dall’articolo 25 del codice civile (controllo dell’autorità governativa, nel nostro caso da identificarsi con la Regione) e dall’articolo 18 del D. Lgs. 4 maggio 2001 n. 207 (comunicazione alla Regione degli atti di dismissione degli immobili, finalizzata all’esercizio, da parte del Pubblico Ministero, dell’azione di annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o allo Statuto).
Lo Statuto della Fondazione deve perciò essere opportunamente modificato, per consentire che le scelte della Fondazione stessa siano coordinate con le politiche del Comune di Cremona.
Secondo il preambolo dello Statuto, “La Fondazione opera nell’ambito degli indirizzi stabiliti dalla programmazione sociale territoriale d’intesa con il Comune di riferimento e in sinergia con gli altri soggetti Istituzionali e sociali che costituiscono la rete del welfare locale, con l’obiettivo di contribuire al potenziamento e alla qualificazione del sistema territoriale dei servizi e degli interventi, anche promuovendo opportunità di sviluppo attraverso nuovi progetti ed investimenti”.
Tali parole, tuttavia, per usare una icastica espressione di Ernesto Rossi, famoso polemista degli anni cinquanta e sessanta, sono “aria fritta”. Ad esse, infatti, non corrisponde nessuno specifico obbligo della Fondazione nei confronti del Comune.
Alcune modifiche statutarie appaiono perciò, alla luce dei recenti avvenimenti, ineludibili.
In particolare, dovranno essere previsti una serie di atti che la Fondazione avrà l’obbligo di trasmettere al Comune, affinché questo, ove si rendesse necessario, possa sollecitare alla Regione l’esercizio dei poteri di vigilanza che le competono. Fra tali atti non potranno non essere ricompresi i bilanci (preventivi e consuntivi) della Fondazione. Oggi, infatti, i bilanci della Fondazione sono segreti, in quanto i bilanci stessi, secondo il Regolamento regionale 2 aprile 2001, n. 2 (che ha istituito, ai sensi dell’articolo 7 del D.P.R. 10 febbraio 2000 n. 361, il Registro regionale delle persone giuridiche private, tenuto dalle Camere di Commercio) non fanno parte degli atti che devono essere iscritti in tale Registro.
Sono, poi, dell’avviso di non consentire alla Fondazione la costituzione di società di capitali o la partecipazione nelle stesse. Soprattutto perché, come ho già avuto modo di chiarire su queste stesse colonne, con la cessione delle quote di una società cui possono essere conferiti gli immobili si eluderebbero le norme (il già citato articolo 18 del D. Lgs. 4 maggio 2001 n. 207) che attribuiscono alla Regione un controllo sulle dismissioni degli immobili costituenti il patrimonio delle Fondazioni derivanti dalla trasformazione delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (non risulta, infatti, che, della dismissione di quote di società, la Regione debba essere notiziata).
Non è da escludere, poi, che la costituzione di una società possa prestarsi alla realizzazione di operazioni di elusione fiscale.
Come è noto, secondo la giurisprudenza più recente (si veda, da ultimo, la sentenza della Corte di Cassazione in data 26 febbraio 2010 n. 4737), in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, applicabile anche ai tributi non armonizzati in sede comunitaria, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
Resta da dire delle modalità con cui lo Statuto della Fondazione potrebbe essere modificato.
E’ lo stesso Consiglio di Amministrazione della Fondazione che è competente per le modifiche statutarie. Si potrebbe, quindi, pensare, da parte di qualcuno, che ben difficilmente la Fondazione farebbe hara kiri, riducendo il proprio potere, oggigiorno pressoché assoluto.
Ma il Comune ha, comunque, due potenti strumenti di “moral suasion” per spingere la Fondazione ad adottare le necessarie modifiche statutarie.
Innanzitutto gli amministratori della Fondazione sono nominati dal Sindaco del Comune di Cremona che, quindi, su un piano puramente politico, ha certo il potere di vincolare le nomine alla adozione delle modifiche statutarie. Secondariamente, sempre secondo lo Statuto, il Comune deve necessariamente esprimere un parere sulle proposte di modifiche statutarie.

* * *


Non mi illudo, tuttavia, che queste mie note, dettate da elementare buon senso (quello che ha ispirato il “buon governo” di tanti amministratori del passato), troveranno udienza. La politica locale segue logiche che sempre più mi sfuggono e non riesco a comprendere.
E poi, ad onta di più di quattro decenni di esperienza professionale, soprattutto nel campo del diritto pubblico, ho un grave ed ineliminabile difetto: sono cremonese (e non milanese, bresciano, mantovano, parmense), in una città in cui, per essere esperti, bisogna essere, prima di ogni altra cosa, forestieri.
Paradossi del provincialismo.

(articolo pubblicato sul quotdiano "La Cronaca" nel settembre 2010)

GLI AFFARI DELLA FONDAZIONE SONO AFFARI DI TUTTI

La pigra e calda estate dei cremonesi è stata, quest'anno, scossa dalle polemiche sulle scelte della Fondazione “Città di Cremona”.
Non è mio intendimento parlare dei rapporti fra Fondazione e Comune (è argomento politico in cui non voglio entrare e che non mi interessa) e neppure trattare nel merito dell'investimento che la Fondazione si ripromette di fare con l'acquisto dello storico Palazzo Fodri e degli edifici circostanti (si tratta di argomento prettamente economico-finanziario, per approfondire il quale non ho alcuna particolare competenza).
Mi limiterò, quindi, ad alcune considerazioni di carattere giuridico, che pure hanno una loro rilevanza.
La Fondazione “Città di Cremona” è sì una persona giuridica di diritto privato, ma non è certo una fondazione qualsiasi. In essa è confluito il patrimonio degli antichissimi “luoghi pii”, che, alla fine dell'ottocento, con la laicizzazione della beneficenza furono trasformati dalla legge “Crispi” (Legge 17 luglio 1890, n. 6972) nelle “istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”, più note come II.PP.A.B.
La legge “Crispi” affidò alle II.PP.A.B. l'amministrazione dei lasciti che, nel corso dei secoli, il buon cuore di tanti benefattori aveva devoluto ai poveri, ponendo due fondamentali vincoli: in primo luogo tutti i patrimoni ed i redditi delle II.PP.A.B. erano vincolati ai poveri, così come voluto dai benefattori; secondariamente veniva fatto divieto di utilizzare l'alienazione del patrimonio per coprire le spese di gestione.
In questo modo, il colossale patrimonio della II.PP.A.B. (valutato nel 2000 in oltre 100.000 miliardi di lire) è stato salvaguardato per oltre un secolo.
La Legge 8 novembre 2000 n. 328 (legge quadro sui servizi sociali) ed il successivo D. Lgs. 4 maggio 2001 n. 207 hanno profondamente innovato il sistema. Le istituzioni che svolgevano direttamente attività di erogazione di servizi assistenziali erano tenute a trasformarsi in “aziende pubbliche di servizi alla persona” (articolo 5 del decreto legislativo). Di contro, secondo l'articolo 16, le istituzioni per le quali non sussistevano le condizioni per la trasformazione in aziende pubbliche, dovevano trasformarsi in persone giuridiche di diritto privato, associazioni o fondazioni, nel rispetto delle originarie finalità statutarie.
Nell'ambito della Regione Lombardia, tali modalità di trasformazione sono state disciplinate dalla L.R. 13 febbraio 2003, n. 1.
La Fondazione “Città di Cremona” fu, quindi, istituita il 23 dicembre 2003 a seguito della trasformazione e fusione di quattro istituzioni cremonesi (fra cui l'Istituto elemosiniere ed il Centro geriatrico cremonese).
Secondo l'articolo 16 del codice civile, la Fondazione ha un proprio Statuto (liberamente consultabile sul sito internet della Fondazione stessa).
La Fondazione è titolare di un ingente patrimonio, la cui gestione è vincolata al perseguimento dei fini (che rimangono di natura socio-assistenziale) della Fondazione stessa.
La dismissione di uno o più beni costituenti il patrimonio della fondazione obbliga l'ente al reinvestimento dei proventi nell'acquisto di altri beni “più funzionali al raggiungimento delle medesime finalità”.
E' noto coma la Fondazione abbia recentemente alienato un fondo rustico di ingente valore. Ha, quindi, l'obbligo statutario di reinvestire i proventi di tale dismissione.
Il prospettato acquisto di Palazzo Fodri non è quindi determinato da una scelta speculativa, come, da parte di taluni, incautamente, è stato detto, ma costituirebbe un modo per adempiere a tale obbligo statutario.
Secondo l'articolo 5 del proprio Statuto, la Fondazione “Città di Cremona” può costituire società di capitali o partecipare alle stesse, a condizione “che svolgano in via strumentale attività diretta al perseguimento degli scopi statutari”. Ciò è conforme all'orientamento giurisprudenziale per cui solo lo Statuto può porre limiti alla costituzione di società da parte di una fondazione: “In assenza di specifici divieti dell'atto costitutivo o dello statuto, è legittima la costituzione da parte di una fondazione di una società a responsabilità limitata” (Tribunale Napoli, 14 gennaio 1994).
Ciononostante, l'orientamento della Fondazione di costituire una società a responsabilità limitata allo scopo di acquisire e poi gestire il complesso di Palazzo Fodri, suscita perplessità. Mentre, infatti, in caso di insolvenza, la società a responsabilità limitata sarebbe comunque destinata al fallimento, in quanto imprenditore commerciale, non altrettanto potrebbe dirsi di una fondazione che sarebbe soggetta al fallimento solo se esercitasse “professionalmente un'attività economica organizzata che, per le modalità con cui viene svolta, le dimensioni che raggiunge e i risultati cui perviene, non appare più strumentale al perseguimento dei fini dell'ente, divenendo assorbente e predominante rispetto agli stessi” (Tribunale Milano, 16 luglio 1998). Il che non sarebbe certamente il caso della Fondazione “Città di Cremona”, in cui resterebbe prevalente l'attività di tipo socio-assistenziale.
Non si coglie, quindi, il senso dell'interposizione, fra la Fondazione “Città di Cremona” e la proprietà dell'immobile (e di altri eventuali immobili da acquistare in futuro) di una società a responsabilità limitata.
A meno che non si voglia, con un siffatto artificio, evitare che il Pubblico Ministero possa esercitare l'azione di annullamento delle deliberazioni della Fondazione, ai sensi dell'articolo 23 del codice civile (mentre in una società a responsabilità limitata le deliberazioni sarebbero impugnabili solo dai soci, dagli amministratori e dal Collegio sindacale).
L'effetto maggiormente distorsivo, tuttavia, si avrebbe nell'ipotesi di una eventuale, futura alienazione del patrimonio immobiliare della società. La Fondazione, infatti, ha l'obbligo di inviare gli atti relativi alla dismissione alla Regione, che può a sua volta segnalare al Pubblico Ministero l'opportunità di esercitare l'azione di cui all'articolo 23 del codice civile (articolo 18 del D. Lgs. 4 maggio 2001, n. 207). Tale obbligo, invece, non farebbe capo alla società a responsabilità limitata, partecipata dalla Fondazione, che diverrebbe proprietaria degli immobili.
Ma vi è di più: l'obbligo, per la Fondazione, di notiziare la Regione in ordine alle alienazioni immobiliari non riguarderebbe l'alienazione delle quote della società. La Fondazione potrebbe quindi, attraverso lo strumento dell'alienazione delle quote della società, alienare gli immobili, precedentemente conferiti alla società, eludendo qualsiasi controllo da parte della Regione.
Lungi da me il pensare che questo sia l'intendimento degli attuali amministratori della Fondazione. Ma, come l'esperienza insegna, la prudenza non è mai troppa quando si crea un assetto istituzionale destinato a durare nel tempo.
Non è certo, questa, questione di poco conto, dato che la Fondazione, pur se soggetto giuridico di diritto privato, è titolare di un patrimonio di origine pubblicistica che, nell'interesse di tutti, deve essere preservato ed incrementato.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel settembre 2010)

DA NAPOLEONE AL FEDERALISMO: APOGEO E DECLINO DEL PREFETTO

Ha destato scalpore, nei primi giorni di luglio, la riunione, al teatro Capranica di Roma, di oltre 100 prefetti, che hanno detto no ai tentativi, probabilmente per il momento rientrati ma sempre latenti, di abolire l’istituto prefettizio “con il tratto di penna di un emendamento”.
La figura del prefetto, frutto del governo di Napoleone, varcò le Alpi e venne introdotta in Italia con decreto del 6 maggio 1802. Con la caduta di Napoleone e la restaurazione dei precedenti ordinamenti monarchici, il nuovo sistema di organizzazione amministrativa, incentrato sul prefetto, che si era rivelato efficiente, fu mantenuto in vita ad onta del mutato clima politico.
Così accadde anche nel Regno di Sardegna in cui, con la legge Rattazzi (Legge 23 ottobre 1859 n. 3702), il territorio fu diviso in province, con a capo un governatore (il cui nome fu cambiato in quello di prefetto con il R.D. 9 ottobre 1861 n. 250).
Nel 1860, per iniziativa di Cavour, fu istituita, presso il Consiglio di Stato, la Commissione temporanea di legislazione. Frutto dei lavori della Commissione fu il progetto Minghetti sull’ordinamento delle regioni, presentato il 13 marzo 1861.
Marco Minghetti aveva elaborato un progetto di riordino amministrativo ispirato ad un ampio decentramento. La proposta tendeva a conciliare le esigenze del nuovo Stato con le esperienze e le tradizioni di governo locali. Ipotizzava sei grandi unità territoriali da costituire come corpi intermedi tra centro e periferia.
Minghetti proponeva un disegno realmente innovativo, del tutto inedito nel contesto europeo, che si basava sull’idea di uno Stato minimo in grado di enfatizzare il principio del self-government, nel settore cruciale della spesa pubblica, ma anche di preservare il diritto naturale dei cittadini di associarsi in entità fortemente coese.
Purtroppo, alla fine di un lungo dibattito parlamentare, non privo di toni accesi, non si trovò di meglio che estendere all’Italia unita la legge piemontese del 1859. Alla cosiddetta piemontesizzazione dell’amministrazione unitaria si pervenne, infine, con la nuova legge comunale e provinciale (Legge 20 marzo 1865, n. 2245, all. A).
Figura centrale dell’assetto dei poteri locali, delineato da tale legge (che riprende, senza particolari innovazioni, la precedente legge Rattazzi), è il prefetto, struttura portante di raccordo fra centro e periferia.
Secondo l’articolo 3 della legge “il Prefetto rappresenta il potere esecutivo in tutta la provincia; esercita le attribuzioni a lui demandate dalle leggi, e veglia sul mantenimento dei diritti dell’autorità amministrativa elevando, ove occorra, i conflitti di giurisdizione…; provvede alla pubblicazione ed alla esecuzione delle leggi; veglia sull’andamento di tutte le Pubbliche Amministrazioni, ed in caso d’urgenza fa i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami del servizio; soprintende alla pubblica sicurezza, ha il diritto di disporre della forza pubblica, e di richiedere la forza armata; dipende dal Ministro dell’Interno e, ne eseguisce le istruzioni”.
Inizialmente il prefetto aveva il monopolio istituzionale delle relazioni fra il centro e la periferia, ma tale posizione viene rapidamente erosa. Già il R.D. 22 settembre 1867 n. 3956 (la cosiddetta legge Coppino, in materia scolastica) istituiva, nei capoluoghi di provincia, i provveditorati agli studi, in diretta relazione con il Ministero della Pubblica Istruzione. Successivamente, il R.D. 26 settembre 1869 n. 5286 istituiva le intendenze di finanza, uffici alle dirette dipendenze del Ministero delle Finanze. Seguirono gli uffici del genio civile dipendenti dal Ministero dei Lavori Pubblici.
L’istituto prefettizio subisce, quindi, un progressivo indebolimento, con invece la mappa degli uffici periferici statali che si accresce in maniera disordinata; ma, per altro verso, la riduzione del peso del prefetto veniva compensata dall’attribuzione di numerosi altri compiti di ingerenza nell’attività e nell’organizzazione degli enti locali.
Il prefetto godeva della garanzia amministrativa per la quale non poteva essere chiamato a rendere conto dell’esercizio delle sue funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né sottoposto a procedimento penale per alcun atto di tale esercizio senza autorizzazione del re, previo parere del Consiglio di Stato (articolo 8 della Legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. A).
I prefetti rappresentavano un corpo omogeneo per origine sociale e formazione culturale, che coincidevano con la provenienza sociale e con la cultura della classe politica e della ristretta classe dirigente dell’epoca. Furono, probabilmente, queste caratteristiche, piuttosto che le leggi di indirizzo accentratore, che permisero a quei funzionari di realizzare, in pochi anni, la fusione delle province degli Stati preunitari nello Stato nazionale.

* * *

Dopo il fascismo, che si caratterizzò per il tendenziale progressivo assorbimento degli enti locali nell’orbita dell’ordinamento statale, con la compressione di tutti gli spazi di autonomia politica da questi conquistati nell’Italia postunitaria, la Costituzione repubblicana tace dell’istituto prefettizio perché, in seno all’Assemblea Costituente non si raggiunse un accordo in ordine al mantenimento o meno dell’istituto.
Con l’articolo 5, pur scegliendosi una forma di Stato unitaria e non federale, il principio di autonomia locale viene sancito e collocato fra i principi fondamentali del nuovo ordinamento: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
A segnare il confine che separa il modello autonomistico da più modeste forme di decentramento amministrativo, è la presenza, al qua dello stesso, e l’assenza, al di là, di situazioni giuridiche inquadrabili in un regime di garanzie costituzionali. Gli enti locali, infatti, sono autonomi in ragione degli spazi liberi di azione che possono segnare con decisioni imperative provenienti dai loro organi.
Nel 1970, con ventidue anni di ritardo, entra in funzione l’ordinamento regionale. Il prefetto perde, con altre, la sua tradizionale e fondamentale funzione di controllo sugli enti locali ed entra in una sorta di cono d’ombra istituzionale dal quale non è più uscito.
E’ legittimo, quindi, domandarsi se, in uno Stato regionale a forte caratterizzazione autonomistica, se non, almeno in prospettiva, federale, abbia ancora un significato la presenza del prefetto.
E’ ben vero che, fin dai suoi più remoti antecedenti storici, il prefetto si è sempre caratterizzato, in primo luogo, come il referente istituzionale delle istanze statuali unitarie a livello locale.
Ma è altrettanto vero che in nessuno Stato ad organizzazione federale esiste un organo come il prefetto, e cioè un rappresentante del Governo centrale presso le comunità locali: rischierebbe, infatti, di essere un organo autoreferenziale e che amministra solo se stesso. Il futuro destino del prefetto è, alla luce delle riforme istituzionali di cui oggi si parla, incerto ed il prefetto, in prospettiva, rischia, dopo due secoli di servizio, sotto regimi politici diversi, il pensionamento.

(articolo pubblicato su "La Cronaca" nel luglio 2010)

IL REBUS DI POMIGLIANO

Chi mi conosce sa bene che, per formazione e cultura, sono certamente più vicino a quella che è stata definita la “filosofiat” che non ai metalmeccanici della FIOM.
Credo in una moderna cultura d’impresa e penso che, sovente, la concezione che taluni sindacalisti hanno delle relazioni industriali sia vecchia ed inadatta alle esigenze di una società globalizzata. Riconosco, infine, a Marchionne il merito di aver riportato la Fiat ad essere competitiva sui mercati mondiali.
Ciononostante, debbo dire che una parte dell’accordo aziendale relativo allo stabilimento di Pomigliano d’Arco non mi convince. Si tratta dei punti 14) e 15) dell’accordo, in forza dei quali il lavoratore può essere punito, allorquando proclami lo sciopero se l’azienda ha comandato lo straordinario per esigenze di avviamento, recuperi produttivi e punte di mercato.
Lo sciopero è un diritto tutelato dalla Costituzione. L’articolo 40, infatti, afferma che “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”.
La norma costituzionale rimanda espressamente al legislatore ordinario il compito di definire i limiti entro i quali possa esercitarsi il diritto di sciopero.
Malgrado attese e progetti, leggi che regolino lo sciopero non ve ne sono, almeno sul piano generale, in quanto la speciale disciplina posta dalla Legge 12 giugno 1990 n. 146 riguarda solo i servizi pubblici essenziali.
Come ha sostenuto Giuliano Amato nel suo Manuale di diritto pubblico, “si può solo rilevare, con sicurezza, come il diritto di sciopero si risolva in una situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il singolo lavoratore, destinata per altro ad operare in una dimensione storicamente accertata come collettiva (della quale è, dunque, protagonista il gruppo organizzato, qualunque sia questa sua organizzazione)”.
Se la Costituzione consente che il diritto di sciopero possa essere limitato per legge, è evidente che un accordo sindacale non lo può, di contro, limitare.
In questo senso si sono espressi due illustri costituzionalisti, certamente non conosciuti per il loro estremismo.
Massimo Luciani ha affermato che “Il diritto allo sciopero non è derogabile: la Costituzione lo prevede per assicurare la tutela alla parte più debole nel rapporto di lavoro. E’ un diritto che non è nella disponibilità di colui che ne è titolare e dunque non può far parte di una pattuizione. Su questo punto ci sono dubbi molto seri di costituzionalità”. Ma a nutrire perplessità sullo stesso punto è anche l’ex presidente della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti: ”Così facendo si fa dipendere da un contratto aziendale la limitazione di un diritto sancito dall’art. 40 della Costituzione. E’ vero che per i pubblici servizi esistono limitazioni al diritto di sciopero (ad esempio per fasce orarie), ma queste avvengono in forza di una legge ‘ad hoc’ e non sulla base di un contratto aziendale. Per giunta, sul piano dell’efficacia va valutato che il diritto allo sciopero economico viene posto in discussione limitatamente ad un’azienda e solo per l’area di Pomigliano… I dubbi dal punto di vista costituzionale sono forti”.
Diversa è l’opinione del giuslavorista Pietro Ichino. Egli, dopo aver configurato il punto 14) dell’accordo (denominato “clausola di responsabilità”) come un patto di tregua sindacale ha affermato che “se la proclamazione dello sciopero è illegittima per violazione di un patto di tregua validamente sottoscritto dal sindacato proclamante, debba considerarsi illegittima anche l’adesione del lavoratore a quello sciopero”.
Vi è, da ultimo, il problema dell’efficacia di un accordo sottoscritto solo da alcune organizzazioni sindacali, ma non dalla FIOM.
L’accordo aziendale in esame, infatti, è un contratto collettivo di diritto comune, privo di efficacia erga omnes, essendo stato abolito l’ordinamento corporativo e non avendo trovato ancora attuazione l’articolo 39 della Costituzione.
E’ un atto giuridico di natura prettamente civilistica inquadrabile nell’ambito degli atti negoziali e riferibile alla nozione dell’autonomia privata di carattere collettivo. Esso vincola solo gli iscritti che, attraverso l’adesione, hanno conferito all’associazione sindacale un mandato per contrattare in proprio nome.
Da ciò deriva che l’accordo resterebbe inefficace nei confronti dei lavoratori aderenti alla FIOM.
Come ha sostenuto ancora Piero Alberto Capotosti, se si voleva limitare il ricorso allo sciopero nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, “sarebbe stato meglio muoversi sul piano dei disincentivi economici e non su quello delle sanzioni disciplinari o del licenziamento”.

(articolo pubblicato su "La Cronaca" nel giugno 2010)

IL TABU’ DELL’ARTICOLO 41

Sino alle recenti proposte di modifica, probabilmente molti ignoravano il contenuto dell’articolo 41 della Costituzione.
Tale norma riguarda la libertà di iniziativa economica ed è del seguente tenore: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La libertà economica, come pretesa alla non ingerenza del potere politico nei rapporti di produzione e di scambio, ha origini relativamente recenti.
La sua prima affermazione storica si ha nella Francia rivoluzionaria della fine del Settecento con il riconoscimento, accanto alla proprietà quale diritto “sacro e inviolabile” (articolo 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789), del principio della “libertà del commercio e dell’industria”.
L’emergere della libertà economica, intesa sia come principio politico che come diritto individuale, è il frutto di una conquista della borghesia industriale che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, si fa portatrice di istanze di libertà della produzione e degli scambi.
Nell’Ottocento, tuttavia, sono rare le costituzioni che contengono un’espressa tutela dell’iniziativa e attività economica, distinta ed autonoma rispetto a quella prevista per la proprietà. In questo solco, si colloca anche lo Statuto albertino, il quale (all’articolo 29) riconosce e tutela “tutte le proprietà”, nel limite dell’”interesse pubblico legalmente accertato”. Solo con la Carta del Lavoro, elaborata nel 1927 nella vigenza dell’ordinamento corporativo fascista (fu definita il “testo base della politica economico-sociale corporativa”), si ebbe un espresso riconoscimento del ruolo centrale assegnato dall’ordinamento all’iniziativa economica privata.
L’articolo 41 della Costituzione, che giunge alla fine di questo processo storico, è il frutto di un compromesso fra le tre correnti di pensiero presenti nella Assemblea costituente, quella liberale, quella socialista e quella cattolico-solidarista.
L’articolo 41 è poi il frutto del pensiero economico dell’epoca. Leggendo la norma con gli occhi di oggi, stupiscono l’accento che viene posto (anche se la parola non è utilizzata) sulla programmazione economica, nonché l’assenza di espressioni come concorrenza e mercato.
La cultura economica di quegli anni era nettamente improntata in senso dirigistico; certamente una norma costituzionale sulla libertà di iniziativa economica oggi verrebbe scritta in modo diverso.
Vista con gli occhi di oggi, come si è detto, la norma può essere considerata incompleta (per la mancanza di riferimenti alla concorrenza ed al mercato), ma non certo superata o inaccettabile.
Il secondo comma pone, come limite alla libertà di iniziativa economica, il divieto di svolgimento della stessa “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ravvisato l’utilità sociale nella realizzazione di interessi costituzionalmente rilevanti (ad esempio la salute, il lavoro, la tutela della donna lavoratrice, il diritto al riposo settimanale, la tutela della famiglia, la tutela del contraente debole, l’interesse dei consumatori).
Il terzo comma dell’articolo 41, invece, è il fondamento della programmazione economica che ebbe, come metodo di governo dell’economia, notevole fortuna negli anni cinquanta e sessanta.
A tale proposito, la dottrina ha ritenuto che il costituente, usando la parola programmi anziché quella di piani, abbia inteso escludere ogni forma di pianificazione rigida (di tipo sovietico, per intendersi), a favore di una programmazione per incentivi. Sarebbe, quindi, legittima una disciplina che tenda a stimolare e indirizzare l’iniziativa privata attraverso strumenti indiretti (come sgravi fiscali e crediti agevolati), anche se una programmazione siffatta sembra oggi parzialmente confliggere con la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato.
Dopo lo “schema Vanoni” del 1954, con la Legge 27 luglio 1967 n. 685 fu approvato il “Primo piano quinquennale 1966-1970”, che aveva lo scopo di definire “il quadro della politica economica, finanziaria e sociale del Governo e di tutti gli investimenti pubblici”. L’esperimento fallì clamorosamente e, da allora, anche per effetto del progressivo affermarsi delle scelte comunitarie nell’ambito del governo dell’economia, l’interesse della dottrina costituzionalistica (e della politica) per la programmazione economica è andato via via scemando, sino a scomparire.
Il Trattato di Roma, firmato il 25 marzo 1957, dal canto suo, ha affermato (articolo 4, primo paragrafo) il “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.

Il principio contenuto nell’articolo 4 del Trattato è ben lungi dal costituire una mera enunciazione programmatica, priva di effetti giuridici propri.
In applicazione del principio di supremazia del diritto comunitario su quello nazionale, gli Stati membri non sono abilitati ad adottare norme giuridiche confliggenti con i principi contenuti nel Trattato, ivi comprensi, ovviamente, i principi del mercato aperto e della libera concorrenza.
All’impostazione dirigista sottesa all’articolo 41 si è, quindi, affiancata una nuova impostazione più schiettamente liberista che, sul piano dei rapporti fra poteri pubblici e mercato, ha portato ad un progressivo allontanamento dal modello di economia mista, implicito nella Costituzione e che ha caratterizzato, per oltre mezzo secolo, la vita del paese.
L’attuale testo dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione (introdotto dalla Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ha, poi, inserito nella Costituzione un richiamo esplicito alla dimensione comunitaria. Di conseguenza, secondo la Corte Costituzionale, l’ordinamento comunitario è divenuto un elemento integrante del parametro di costituzionalità per l’esame della normativa nazionale (si veda, da ultimo, la sentenza della Corte Costituzionale 15 aprile 2008, n. 103).
In conclusione, i già citati principi del libero mercato e della concorrenza, pur se non espressamente menzionati dall’articolo 41 della Costituzione, ma in quanto previsti dall’articolo 4 del Trattato, regolano ormai, a pieno titolo, la libertà di iniziativa economica nel nostro paese.
La recente iniziativa governativa volta a modificare l’articolo 41 appare, quindi, pleonastica, se non addirittura una fuga in avanti. L’articolo 41 della Costituzione, integrato dall’articolo 4 del Trattato, è, infatti, in grado di garantire la più ampia libertà di iniziativa economica, nonché l’eliminazione di quelli che, già negli anni sessanta, Guido Carli definiva come i lacci e lacciuoli che storicamente hanno condizionato la libertà di iniziativa economica in Italia.
L’articolo 41 modificato sarebbe sostanzialmente solo un manifesto, privo di effetti giuridici concreti.
E’ da ricordare che mai, infatti, una qualsiasi norma liberalizzatrice è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale per violazione dell’articolo 41 nel testo attuale. Le liberalizzazioni che da sempre vengono invocate sono certamente indispensabili (basterà pensare alle limitazioni cui è soggetto il commercio, specie in certi ambiti come quello degli orari), ma la loro attuazione non trova ostacolo nella Costituzione, quanto nei problemi politici connessi alla forza che talune corporazioni ancora mantengono nella società.
Se vi è la volontà politica di liberalizzare taluni settori (e non mi pare che sempre vi sia: penso solo alla riforma della professione forense), la deregulation può essere attuata da subito, senza attendere alcuna riforma costituzionale, dallo Stato e dalle regioni, con leggi ordinarie e leggi regionali.
Come ha scritto l’ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida su Il Sole 24 Ore, “In ogni caso la Costituzione non c’entra. E’ cosa troppo seria perché si possa consentire di coinvolgerla e strumentalizzarla a beneficio di scelte o di non scelte politiche”.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel giungo 2010)

SE LA MEMORIA NON HA COLORE, SI DEDICHI UNA STRADA AD ALFREDO PIZZONI

La toponomastica è lo specchio di una città. Ne riflette la storia, civile e religiosa; ne ricorda i personaggi illustri; ne rende visibili le mutazioni economiche e sociali.
Chi sfoglia quel vero e proprio monumento di cultura che è l’opera Le strade di Cremona di Gianfranco Taglietti fa un tuffo nella storia della nostra città, soprattutto degli ultimi due secoli: ne può conoscere i figli più illustri; sa in quali personaggi nazionali si rispecchiavano le opinioni delle classi dirigenti che ebbero a governare la città; viene a sapere quali episodi della storia patria abbiano maggiormente colpito la mente ed il cuore dei cremonesi.
Se tale è il ruolo della toponomastica, è facile comprendere come sempre vi siano state, sulla intitolazione di vie e piazze, contrapposizioni politiche, culturali, ideologiche.
Anche a Cremona, la città rossa (di tetti, di torri, di passioni), come ebbe a definirla il concittadino Corrado Stajano, come era prevedibile, sono sorte polemiche, ancora non sopite, sulla opportunità o meno di intitolare una via ad Aldo Protti, grande baritono, ma attivo protagonista di una stagione assai dolorosa della vita del nostro paese. Aderì, infatti, alla Repubblica Sociale Italiana e si ritiene (ma non credo la notizia sia assolutamente certa) abbia partecipato al rastrellamento di partigiani, anche cremonesi, sul Col di Lys in Piemonte.
A sessantacinque anni dalla fine della guerra, la Resistenza costituisce ancora, oltre che un valore, un ricordo vivido per le generazioni più anziane. In talune famiglie, colpite personalmente negli affetti più cari, il periodo tra il 1943 e il 1945 è ancora una ferita aperta: si può, quindi, capire come a taluno ripugni dare un riconoscimento pubblico non tanto all’artista lirico, quanto al combattente della Repubblica Sociale.
Con altrettanta franchezza, tuttavia, debbo dire che, dopo tanti anni dalla fine della guerra, è necessario operare perché le ferite vengano rimarginate e le persone possano essere ricordate per quanto di buono hanno compiuto nella loro vita, piuttosto che per gli innegabili errori.
Con soddisfazione, quindi, ho recentemente notato a Roma, non lontana l’una dall’altra, due vie intitolate rispettivamente a Vincenzo Arangio Ruiz e Pietro De Francisci, entrambi eminenti studiosi del diritto romano, ma liberale antifascista il primo e Ministro della Giustizia di Mussolini il secondo.
Secondo la mia opinione, quello che sinora ha danneggiato Aldo Protti (ed ha impedito che gli fosse intitolata una strada), è il clima di revanchismo politico sotteso alle ricorrenti richieste di intitolazione di una via al personaggio.
Credo, invece, che la città di Cremona debba avere l’orgoglio di intitolare vie e piazze ai suoi figli più illustri, se è vero, come è stato detto, che la memoria non ha colore (anche se non condivido completamente questa affermazione, nel momento in cui tende a porre tutti i personaggi del passato sul medesimo piano).
Già qualche anno fa, su queste stesse colonne, proposi di intitolare una strada a due eminenti personaggi, nati a Cremona e provincia, Gino Gorla, fondatore della scienza del diritto comparato in Italia, e Paride Formentini, Direttore generale della Banca d’Italia e poi Presidente della Banca europea degli investimenti.
La mia proposta fu accolta da un assordante silenzio. Formulo ora una nuova proposta, quella di intitolare una strada ad Alfredo Pizzoni, colui che fu definito il banchiere della Resistenza.
Alfredo Pizzoni, nato a Cremona il 20 gennaio 1894, figlio del generale Paolo Pizzoni, interruppe gli studi a causa dello scoppio della prima guerra mondiale, alla quale partecipò come ufficiale dei bersaglieri, meritando una medaglia d’argento al valor militare. Dopo gli studi ad Oxford e a Londra, si laureò in Giurisprudenza a Pavia nel 1920, e subito dopo venne assunto al Credito Italiano, banca in cui iniziò una brillante carriera. Dopo l’avvento al potere del fascismo si avvicinò ai gruppi di Giustizia e Libertà, subendo gravi discriminazioni sul lavoro. Nel 1933, su pressione della moglie, prese la tessera del partito fascista. Pur esonerato dalla chiamata alle armi nel 1940 per la sua posizione in banca, decise di arruolarsi volontario. Come maggiore dei bersaglieri meritò una seconda medaglia, questa volta di bronzo. Nel 1942, fu smobilitato per ragioni di salute e riprese il lavoro in banca. Subito dopo l’8 settembre 1943 Pizzoni, pur non appartenendo ad alcun partito politico, fu scelto per presiedere il CLN lombardo, che, nel febbraio del 1944, divenne il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia. Le sue esperienze lo rendevano un uomo particolarmente adatto a quel ruolo, in quanto Pizzoni univa al sicuro antifascismo e all’esperienza militare, una profonda conoscenza degli ambienti bancari e finanziari lombardi (essenziale per organizzare il finanziamento della guerra partigiana) e una dimestichezza con la lingua e la cultura inglese, che favoriva i rapporti con i rappresentanti delle forze alleate. Per due anni Pizzoni coordinò uomini, denaro e strutture dei partigiani.
Subito dopo la liberazione, il 27 aprile 1945, Alfredo Pizzoni fu sostituito alla guida del CLNAI da Rodolfo Morandi, nominato in rappresentanza dei socialisti. Tornò al suo lavoro in banca, sino a diventare presidente dei Credito Italiano. Il suo contributo alla Resistenza fu rapidamente dimenticato. Alfredo Pizzoni subì, infatti, una vera e propria damnatio memoriae, tanto è vero che, nel poderoso volume di Claudio Pavone dedicato alla Resistenza (Una guerra civile, Torino, 1991) è citato una sola volta in più di ottocento pagine. La sua estrazione sociale e soprattutto il suo forte idealismo patriottico, poco incline al compromesso, non erano ben visti dai professionisti della politica e da quanti tendevano ad identificare la Resistenza nei soli partiti di sinistra. Colpito da un tumore alla gola, morì a Milano il 3 gennaio 1958, a soli 63 anni.
Alfredo Pizzoni è quindi una figura chiave cancellata dalla comune memoria storica, anche se la Resistenza, senza Alfredo Pizzoni, non avrebbe mai avuto energie sufficienti per operare.
Cremona, la città che gli diede i natali, ha il dovere morale di ricordarlo.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel giugno 2010)

IL CIRCONDARIO, UN CHIODO FISSO PER CREMA

L’articolo 1 della recente Legge 26 marzo 2010 n. 42 ha abrogato il primo e secondo comma dell’articolo 21 del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267, il quale disponeva che la provincia potesse prevedere, nello Statuto, la suddivisione del proprio territorio in circondari, per organizzare, sulla base di essi, “gli uffici, i servizi e la partecipazione dei cittadini”. La legge prevede, altresì, la soppressione dei circondari provinciali esistenti al momento della sua entrata in vigore. Conseguentemente, i circondari di cui all’articolo 15 dello Statuto della Provincia di Cremona devono intendersi come aboliti.
Come i lettori più attenti avranno senz’altro colto, a Crema, dove la Provincia aveva istituito un circondario, la scelta del legislatore statale ha destato qualche malumore. Crema, infatti, ha sempre considerato “il circondario” come un istituto giuridico emblematico delle sue aspirazioni autonomistiche.
L’alterità di Crema rispetto a Cremona, di cui permane traccia nella esistenza della diocesi di Crema e del Tribunale autonomo, trova le sue origini nella storia. Mentre, infatti, Crema dal 1449 al 1797 costituì una enclave veneziana nel Ducato di Milano, Cremona, dal lontano 1406, seguì sempre le sorti del capoluogo lombardo.
Per ritornare ai circondari, in effetti, l’organizzazione amministrativa territoriale che si articola in istituzioni sovracomunali ma subprovinciali ha origini remote e risale all’ordinamento napoleonico.
Molte strutture degli Stati preunitari italiani comprendevano circoscrizioni amministrative intermedie, che traevano origine da concrete situazioni storiche, topografiche, economiche.
Nel Regno lombardo veneto, le circoscrizioni subprovinciali, secondo le patenti del 7 aprile 1815, si chiamavano “distretti” ed erano rette da appositi commissari. Nel Granducato di Toscana, il decreto 9 marzo 1858 denominava tali circoscrizioni come “circondari”, ponendoli alle dipendenze di sottoprefetti di nomina granducale.
Nel Regno di Sardegna con il R.D. 23 ottobre 1859 n. 3702 (conosciuto come “decreto Rattazzi”), fu ridisegnata radicalmente la geografia amministrativa dello Stato sabaudo. Come ente intermedio fra la provincia ed il comune, fu istituito il “circondario”. Le disposizioni del “decreto Rattazzi” si applicarono anche alla parte lombarda del Regno lombardo veneto, da pochi mesi annessa al Regno di Sardegna. Con l’occasione, fu soppressa la provincia di Lodi e Crema (il cui capoluogo effettivo, al di là della denominazione, era Lodi); Crema ed i comuni ad essa vicini, formarono un circondario, nell’ambito della provincia di Cremona.
Con la successiva Legge 20 marzo 1865, n. 2248, all. A, le disposizioni dell’ordinamento piemontese furono estese all’intero territorio nazionale.
Con tale legge, i circondari assunsero una più spiccata fisionomia di circoscrizioni della amministrazione governativa locale, la cui sfera di azione rientrava in quella delle sottoprefetture, uffici inseriti nella gerarchia locale dell’amministrazione dello Stato.
Il sistema rimase sostanzialmente inalterato sino all’epoca fascista, allorché i circondari furono soppressi, parte con il R.D. 21 ottobre 1926 n. 1890 e parte con il R.D.L. 2 gennaio 1927 n. 1. Con l’occasione, taluni circondari (ma non Crema) furono elevati al rango di provincia.
Il successivo R.D. 3 marzo 1934 n. 383 (Testo unico della legge comunale e provinciale, rimasto in vigore sino al 1990) non parla affatto di circondari.
Il circondario tornò ad essere menzionato nella nuova Costituzione repubblicana. L’articolo 129, secondo comma, stabilì, infatti, che una ulteriore forma di decentramento, di carattere facoltativo, potesse effettuarsi attraverso la suddivisione delle circoscrizioni provinciali in circondari.
I circondari non ebbero attuazione concreta sino all’istituzione dell’ordinamento regionale, nel 1970. Le Regioni fecero, tuttavia, uso limitato del circondario, talora previsto esclusivamente come circoscrizione decentrata per l’esercizio delle funzioni di controllo sugli atti degli enti locali, funzioni oggi soppresse. Fra i più importanti circondari, per funzioni loro attribuite, si possono ricordare quelli di Pordenone e di Rimini (non a caso poi trasformati in province).
L’articolo 129 della Costituzione fu poi abrogato dalla Legge costituzionale 18 ottobre 2001 n. 3, in occasione della riforma del Titolo V, riguardante l’assetto costituzionale dei poteri locali.
Nel corso degli anni settanta ed ottanta, ebbero, invece, una certa fortuna, nell’ambito regionale, i comprensori.
I comprensori erano organismi intermedi, finalizzati a determinare aggregazioni di Comuni, per favorire la partecipazione degli enti locali alla programmazione regionale e a migliorare la gestione dei pubblici servizi.
Anche la Lombardia istituì i comprensori con la L.R. 15 aprile 1975 n. 52, ma essi furono ben presto soppressi con la L.R. 4 maggio 1981 n. 23, senza lasciare particolari rimpianti.
Si trattò, quindi, di un’esperienza effimera, di rilevanza più verbale che sostanziale. I comprensori furono organismi scarsamente utili per le finalità che erano state immaginate, come ha osservato un brillante studioso di diritto regionale, Fausto Cuocolo, purtroppo prematuramente scomparso.
La Legge 8 giugno 1990 n. 142 reintrodusse, all’articolo 16, i circondari, la cui istituzione fu configurata come facoltà per le province; lo scopo da perseguire, per tali enti, era costituito dal decentramento di uffici e servizi provinciali.
Tale norma si è trasfusa nell’articolo 21 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267 (Testo unico sulle autonomie locali). Tale articolo attribuisce la facoltà alla provincia di suddividere il proprio territorio in circondari, in ragione della sua ampiezza e peculiarità, delle esigenze della popolazione e della funzionalità dei servizi.
Il circondario presuppone normalmente l’individuazione di un ambito territoriale omogeneo per motivi storici o per fattori culturali, sociali o economici.
Questa norma, come si diceva all’inizio, è stata ora abrogata dalla Legge 26 marzo 2010 n. 42, facendo venir meno il circondario di Crema, istituito dalla Provincia di Cremona, con l’articolo 15 del proprio Statuto.
Giunti al termine di questo lungo excursus storico, di quasi due secoli (dal 1815 al 2010), viene da chiedersi se l’esistenza di enti (o anche di semplici circoscrizioni amministrative) subprovinciali abbia un senso, specie nel momento in cui insistentemente si parla di sopprimere le province.
Come ho già avuto modo di scrivere in passato, sono contrario alla abolizione delle province. Si sopprimerebbero, infatti, gli enti, ma non si potrebbero certo sopprimere le funzioni che non potrebbero che essere attribuite, con il personale, alle Regioni.
Nelle Regioni di maggior dimensione (fra le quali certamente la Lombardia) si creerebbe senz’altro un effetto di accentramento regionale, con la costituzione di apparati amministrativi assai rilevanti.
Simmetricamente non vedo particolare utilità nella istituzione di enti subprovinciali, come i circondari, gli ormai dimenticati comprensori o le forse più utili comunità montane.
In un disegno di semplificazione e di razionalizzazione, le funzioni di tutti gli enti subprovinciali possono senz’altro essere concentrate nelle province.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2010)

UN NUOVO LOOK PER LA VECCHIA SIGNORA

Il Trattato di Lisbona, firmato il 13 novembre 2007 dai Capi di Stato e di Governo dell’Unione Europea, è finalmente entrato in vigore il 1° dicembre 2009, con notevole ritardo rispetto alle previsioni originarie.
Il Trattato di Lisbona deriva direttamente dal Trattato costituzionale europeo, firmato a Roma il 29 ottobre 2004 e non è particolarmente diverso nel testo, tanto è vero che Giscard d’Estaing (Presidente della Convenzione che aveva elaborato il Trattato costituzionale) ha rilevato, in più circostanze, che le differenze fra i due trattai sono solo “cosmetiche”.
Il Trattato costituzionale, a seguito dell’esito negativo dei referendum sulla ratifica tenutisi in Francia e nei Paesi Bassi, non entrò mai in vigore. Ma, sulla base di esso, fu predisposto un nuovo testo di Trattato, che fu firmato appunto a Lisbona il 13 dicembre 2007.
Anche sul processo di ratifica del Trattato di Lisbona non sono mancate difficoltà, come un primo referendum negativo in Irlanda ed il rifiuto, protrattosi a lungo, dei Presidenti della Polonia e della Repubblica ceca, di firmare la ratifica approvata dai rispettivi Parlamenti.
L’Italia ha provveduto alla ratifica con la Legge 2 agosto 2008 n. 130. E’ da ricordare anche come il Tribunale costituzionale federale tedesco abbia rilevato la sostanziale mancanza di legittimazione democratica delle istituzioni europee, subordinando ulteriori progressi del processo di integrazione ad un incremento dei fondamenti democratici dell’Unione. Il Tribunale tedesco, quindi, ha pienamente colto che il Trattato di Lisbona, mentre tende ad avanzare verso l’inesorabile processo costituente europeo, arretra allo stesso tempo, nella speranza di fugare le “fobie anti-europeiste” presenti in alcuni Stati membri.
Come già si è detto, la maggior parte delle innovazioni contenute nel Trattato costituzionale si ritrovano anche nel Trattato di Lisbona.
Mi soffermerò rapidamente su alcune delle novità più significative. E’ stata attribuita, in primo luogo, una personalità giuridica unica all’Unione europea (il termine “Comunità” è sostituito ovunque dal nuovo termine “Unione”): in altri termini, all’Unione è attribuita la soggettività giuridica internazionale, con il conseguente diritto di stipulare accordi con gli Stati terzi e le organizzazioni internazionali.
Il Consiglio europeo, da organismo informale, è stato trasformato in una istituzione vera e propria, con un proprio Presidente stabile, eletto per due anni e mezzo, mandato rinnovabile per una sola volta.
Questa è l’innovazione alla quale i mezzi di informazione hanno prestato maggiore attenzione. La scelta per la nuova carica di Presidente del Consiglio europeo è caduta sullo scialbo ed incolore ex Primo ministro belga Herman Von Rompuy. In questo modo è stato sciolto, almeno per il momento, il dilemma lasciato aperto dal Trattato, se cioè il Presidente del Consiglio europeo dovesse essere, per usare una terminologia inglese, un “chairman” ovvero un “president”. “Chairman” è, infatti, colui che convoca e presiede le riunioni, mentre al “president” viene attribuito un ruolo di impulso e di guida, di “leadership”, insomma, sempre per usare un termine della lingua inglese.
Non v’è dubbio, infatti, che Von Rompuy sarà un semplice “chairman”.
Il Trattato di Lisbona ha poi introdotto la figura di Alto rappresentante per gli affari esteri e la politica di sicurezza, che è, contemporaneamente, Vice Presidente della Commissione.
Viene, infine, rafforzato il ruolo del Parlamento europeo. Il Trattato, infatti, prevede una generale estensione del ricorso alla procedura di codecisione (di Parlamento e Consiglio dei Ministri, su proposta della Commissione), con voto a maggioranza qualificata, che diventa la procedura legislativa ordinaria dell’Unione.
Tenendo conto della quantità di materie che ormai sono regolate dall’Unione europea, non potrà più dirsi, quindi, che il Parlamento europeo è un organismo privo di poteri.
Da ultimo, qualche considerazione giuridica.
Per usare le parole di un illustre costituzionalista, Giuseppe F. Ferrari, soprattutto con l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, “nell’ambito delle discipline giuridiche il diritto comunitario, o come sarebbe forse più corretto dire il diritto dell’Unione europea non rappresenta più l’ultimo arrivato, una specie di parvenu nel consesso dominato da monumenti istituzionali quali il diritto costituzionale o quello civile, o quello amministrativo, ma costituisce a tutti gli effetti un settore di ricerca nel quale si uniscono la prossimità della stessa con esigenze pratiche sempre più rilevanti e l’interesse teorico di conoscere nelle sue linee portanti un insieme di norme e di istituzioni che presenta forti caratteri di novità. Sembrano lontani anni luce i tempi nei quali il diritto comunitario era una parte del diritto internazionale pubblico” (dalla prefazione al recente volume “Il diritto comunitario tra liberismo e dirigismo”).
Che cosa sia oggi l’Unione europea, lo spiega ancora Giuseppe F. Ferrari affermando che le istituzioni europee si sono evolute in maniera tale da dare luogo ad un ordinamento giuridico che presenta caratteri fortemente originali e tale da non essere riconducibile a nessuno dei modelli (Stato federale o organizzazione internazionale) che solitamente si usano per inquadrare gli organismi che esercitano pubblici poteri e che creano o applicano norme giuridiche. Sarebbe in effetti difficile oggi inquadrare pienamente il ruolo delle diverse istituzioni dell’Unione europea, come organi di uno Stato federale, sia pure in embrione, piuttosto che come strutture proprie di una organizzazione internazionale, dotata di ampi poteri.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2010)

PERCHE’ FORMIGONI HA POTUTO ESSERE RIELETTO

Le elezioni regionali del 2010 verranno certamente ricordate per il caos verificatosi, nel Lazio ed in Lombardia (ma anche altrove), in sede di presentazione delle liste, caos che ha fatto, per qualche giorno, temere che l’esito delle consultazioni non fosse già nelle mani degli elettori, ma dei giudici amministrativi.
Ciò sia per la farraginosità delle procedure previste dalla vigente normativa, sia per il pressappochismo (unito ad arroganza) con cui le forze politiche si sono occupate delle delicate attività preliminari alla presentazione delle liste dei candidati.
Mentre nel Lazio la vicenda si è conclusa con la definitiva esclusione della lista del PDL della provincia di Roma (nonostante la pronta emanazione, da parte del Governo, del D.L. 5 marzo 2010 n. 29, subito denominato decreto salva-liste), in Lombardia la lista del Presidente uscente della Giunta regionale Formigoni è stata riammessa alla competizione elettorale prima dal T.A.R. della Lombardia e poi del Consiglio di Stato, e senza che trovasse applicazione il decreto.
Delle problematiche sottese alla esclusione e poi alla riammissione di Formigoni, vorrei occuparmi ora, anche per ribadire come la sua elezione non possa più, a mio parere, essere posta in discussione. Le sentenze del Consiglio di Stato, infatti, sono definitive.
Come i lettori ricorderanno, era stata contestata da parte dei radicali, la regolarità delle firme raccolte per la presentazione della lista di Formigoni, dubitandosi, addirittura, dell’autenticità delle medesime.
L’autenticità delle firme, tuttavia, non può formare oggetto di valutazione in sede di presentazione delle liste. Già nel 2005, infatti, decidendo la nota questione delle firme di presentazione della lista di Alessandra Mussolini, il Consiglio di Stato (Sezione V, ordinanza del 22 marzo 2005, n. 1419) aveva affermato che “per contestare l’autenticazione delle sottoscrizioni elettorali occorre accertarne la falsità nei modi previsti dalla legge”. In altri termini, perchè sia dichiarata falsa una sottoscrizione autenticata, occorre la querela di falso e non sono sufficienti semplici sospetti.
Il T.A.R. per la Lombardia, tuttavia, ha accolto il ricorso di Formigoni e della sua lista sotto un diverso profilo, senza valutare i motivi di esclusione. Ha ritenuto, infatti, che, secondo l’articolo 10 della Legge 17 febbraio 1968 n. 108 (come modificato dall’articolo 1, comma 11, della Legge 23 febbraio 1995 n. 43), non fosse possibile che una lista non ammessa (i radicali) ricorresse contro una lista ammessa (quella di Formigoni).
La decisione del T.A.R. per la Lombardia (sentenza del 9 marzo 2010 n. 560) è stata confermata dal Consiglio di Stato (sentenza del 22 marzo 2010 n. 1640). Il Consiglio di Stato ha ritenuto, come il T.A.R., che, nella specie, non fossero ipotizzabili rimedi di natura amministrativa (gli uffici elettorali, ancorchè composti da magistrati ordinari, sono organi amministrativi), potendosi solo impugnare le operazioni elettorali, davanti al Giudice amministrativo, ai sensi dell’art. 83/11 del D.P.R. 16 maggio 1960 n. 570. La soluzione adottata dai Giudici amministrativi non è del tutto convincente. Il cosiddetto ricorso dei radicali, infatti, ben poteva essere inteso come istanza di autotutela. Il potere di autotutela è definito come la capacità riconosciuta dall’ordinamento alla Pubblica Amministrazione di riesaminare criticamente la propria attività in vista dell’esigenza di assicurare il più efficace perseguimento dell’interesse pubblico, ed eventualmente correggerla mediante l’annullamento o la revoca di atti ritenuti illegittimi.
Il potere generale di autotutela, da sempre ritenuto esistente dalla giurisprudenza e dalla dottrina, è stato, in anni recenti, codificato dalla Legge 7 agosto 1990 n. 241.

* * *

Ma su Formigoni (e su Errani, rieletto Presidente dell’Emilia Romagna) sembrerebbe pendere una spada di Damocle ben più seria, l’ineleggibilità, essendo egli già stato eletto per due mandati consecutivi. Il problema è stato posto, oltre che dai radicali, anche dall’UDC. Ne ha parlato anche un lettore, scrivendo a La Cronaca qualche giorno fa.
Anche su questo punto, si deve fare chiarezza.
L’articolo 122, primo comma, della Costituzione (nel testo introdotto dalla Legge costituzionale 22 novembre 1999 n. 1), prevede che “il sistema di elezione e i casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali sono disciplinati con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi”.
Le norme di attuazione di tale disposizione costituzionale sono state introdotte con la Legge 2 luglio 2004 n. 165, il cui articolo 1, primo comma, lettera f), dispone la “previsione della non immediata rieleggibilità allo scadere del secondo mandato consecutivo del Presidente della Giunta regionale eletto a suffragio universale e diretto, sulla base della normativa regionale adottata in materia”.
La Lombardia e l’Emilia Romagna non hanno, tuttavia, ancora adottato le norme di attuazione fondate sui principi individuati dalla legge statale.
Secondo la giurisprudenza (Cass., Sez. unite, 25 luglio 2006, n. 16898) che ha avuto modo di decidere un caso riguardante la Regione Veneto, se la Regione non ha ancora adottato norme intese a disciplinare autonomamente la materia, ai sensi della Legge 2 luglio 2007 n. 165, continuano ad aver vigore le cause di ineleggibilità previste dall’articolo 2, primo comma, n. 10), della Legge 23 aprile 1981 n. 154 (che nulla prevedeva in materia di ineleggibilità del Presidente della Giunta regionale, dopo due mandati consecutivi).
La Legge 2 luglio 2004 n. 165, infatti, si è limitata a legiferare per principi e non include disposizioni di dettaglio autoapplicative. Non si può, quindi, conoscere l’assetto della legislazione in materia di sistema elettorale, incompatibilità ed ineleggibilità dei consiglieri regionali, nonché dei membri delle Giunte, prima che le Regioni legiferino in proposito. Ma solo alcune Regioni lo hanno fatto, fra cui il Lazio, come si è visto, sotto altro profilo, in relazione alla vicenda della presentazione delle liste per la provincia di Roma.
In conclusione, allo stato, non esiste per Formigoni (e per Errani) alcuna causa di ineleggibilità.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2010)

“SUGLI, SUGLI, BANE, BANE, TU MISCUGLI LE BANANE…”

“Sugli, sugli, bane, bane, tu miscugli le banane; le miscugli in salsa verde, chi le mangia nulla perde”. Sono le parole di una canzoncina demenziale del 1973, che ebbe allora un certo successo, ed era cantata da un gruppo ormai dimenticato , Le Figlie del Vento.
Un nonsense, come si suol dire, che mi è improvvisamente tornato alla mente di fronte al pasticcio della presentazione delle liste elettorali nella Lombardia e nel Lazio. Una vicenda dai risvolti talora grotteschi, che non è certo stata risolta ma, semmai, aggravata dalla contestata emanazione del D.L. 5 marzo 2010 n. 29, contenente l’interpretazione autentica di talune norme del procedimento elettorale.
I problemi giuridici, di tipo costituzionale ed amministrativo, posti dal decreto e dalle decisioni dei Giudici amministrativi sulle vicende delle liste di Lombardia e Lazio sono molteplici e svariati. Io mi limiterò ad alcune rapide ed incomplete considerazioni, dato che, nel momento in cui scrivo (è lunedì 15 marzo) la situazione non è ancora definitivamente assestata. Mi riservo, se necessario, di ritornare sull’argomento fra qualche giorno.
Più che le decisioni giurisdizionali, esaminerò soprattutto il D.L. 5 marzo 2010 n. 29, sul quale vorrei svolgere considerazioni di ordine strettamente giuridico, dopo aver premesso, sul piano politico (ma sarà questa la mia unica valutazione di tale tipo), che è certamente anomalo che il Governo sia intervenuto in materia elettorale, per correggere o risolvere problemi che riguardavano essenzialmente il proprio schieramento politico, con norme, cioè, a suo vantaggio.
Mi spiegherò con un esempio. Nessuno, nel nostro paese di calciodipendenti, considererebbe accettabile che, a campionato già iniziato, si cambiassero le regole del gioco e si riattribuissero, in virtù delle nuove regole, i punteggi delle partite già giocate e si ponessero nel nulla decisioni arbitrali già assunte.
La prima questione che si pone è se sia possibile disciplinare, con un decreto legge, la materia elettorale. In effetti, l’articolo 15, secondo comma, lettera b), della Legge 23 agosto 1988 n. 400, riguardante la decretazione d’urgenza, non consente l’utilizzo dello strumento del decreto legge per disciplinare la materia elettorale. E’ ben vero che la norma in esame è contenuta in una legge ordinaria e non in una legge costituzionale e che, di conseguenza, è astrattamente possibile che un atto avente valore di legge (come un decreto legge), e quindi di pari efficacia, possa derogarvi, non essendo la norma precedente in grado di vincolare la successiva. Ma è altrettanto vero che, secondo la dottrina, la disposizione contenuta nell’articolo 15 esplicita principi già immanenti nel testo costituzionale.
In effetti l’articolo 72, quarto comma, della Costituzione prevede la cosiddetta riserva di assemblea per le leggi in materia elettorale che, conseguentemente, non possono essere abrogate o modificate se non da leggi approvate in assemblea, escludendosi l’approvazione in commissione. A fortiori, quindi, il principio dovrebbe applicarsi ai decreti legge.
Il decreto in esame, poi, contiene disposizioni interpretative di norme del procedimento elettorale. L’ipotesi di un decreto legge che contenga norme interpretative di una legge precedente è certamente inusuale. Ma non mancano, nella prassi, contrariamente a quanto si è detto in questi giorni, decreti interpretativi (si veda, da ultimo, l’articolo 17, secondo comma, del D.L. 29 novembre 2008, n. 185, in materia fiscale).
In termini generali, è autentica l’interpretazione che proviene dallo stesso autore del precetto interpretato. Si dice comunemente di interpretazione autentica una legge che stabilisce (successivamente) quale significato deve essere attribuito ad un (precedente) enunciato legislativo.
La naturale retroattività riconosciuta a tali leggi può celare – dietro lo schermo dell’interpretazione autentica – interventi legislativi finalizzati in concreto, come nel caso in esame, ad interferire con la funzione giurisdizionale. Da qui i vari tentativi, operati dalla dottrina, e volti a circoscrivere l’efficacia ex tunc delle leggi interpretative, attraverso il richiamo a limiti di carattere costituzionale, come il principio di irretroattività in materia penale e in materia tributaria, il divieto di irragionevoli disparità di trattamento, il principio di tutela dell’affidamento, il divieto di interferenze con processi in corso o con decisioni passate in giudicato.
A ciò deve aggiungersi che talune disposizioni contenute nel decreto legge, oltre ad essere, per così dire, la fotografia delle due situazioni concrete della Lombardia e del Lazio (con probabile conseguente violazione del principio di uguaglianza), appaiono palesemente innovative e non interpretative.
Ma il decreto legge, pone un terzo problema di costituzionalità. E si tratta, probabilmente, del più significativo, dato che ha determinato la decisione del T.A.R. per il Lazio.
E’ da rammentare che l’articolo 122, primo comma, della Costituzione, sostituito dalla Legge costituzionale 22 novembre 1999, n. 1, sancisce che “il sistema di elezione” regionale è disciplinato, unitamente ai casi di ineleggibilità e di incompatibilità del Presidente e degli altri componenti della Giunta regionale nonché dei consiglieri regionali, “con legge della Regione nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica, che stabilisce anche la durata degli organi elettivi”; le disposizioni attuative di tale precetto costituzionale sono state poi adottate con la Legge 2 luglio 2004, n. 165. In tale contesto normativo è stata così adottata la L.R. del Lazio 13 gennaio 2005, n. 2 che ha recepito la normativa statale in materia elettorale. Su questa base, ha deciso il T.A.R. per il Lazio.
Assume il Giudice amministrativo che la normativa statale non potrebbe dispiegare efficacia nell’ambito della Regione Lazio in quanto quest’ultima, in attuazione del disposto dell’articolo 122 della Costituzione, avrebbe ormai esercitato la competenza ad emanare una propria disciplina (nei limiti dei principi fondamentali stabiliti con legge della Repubblica). E’ infatti pacifico, anche sulla base della giurisprudenza costituzionale, che la previgente disciplina statale possa continuare ad applicarsi integralmente solo alle Regioni che non abbiano ancora esercitato la propria potestà normativa. Una volta esercitata la competenza regionale, la disciplina di dettaglio del proprio sistema di elezione e delle relative procedure spetterebbe alla Regione anche se, come nel caso del Lazio, la Regione si sia limitata ad un rinvio recettizio alla normativa statale.
Orbene, la Regione Lazio ha deciso di proporre ricorso in via principale, contro il decreto legge, alla Corte Costituzionale; e pare che anche altre Regioni siano intenzionate a seguirla sulla medesima strada. Ovviamente, una Regione non potrà lamentare un uso scorretto del potere di interpretazione autentica o dello stesso strumento della decretazione d’urgenza, se non dimostrerà che ciò ha interferito, limitandole, con le competenze costituzionalmente riconosciute alle Regioni dal già citato articolo 122 della Costituzione.
La questione, giuridica e non politica, è quindi ben lungi dall’essere conclusa. Anche se – come si sa – il tanto discusso decreto legge non ha trovato, dopo le polemiche suscitate, concreta applicazione né nel caso della Lombardia, né in quello del Lazio, è difficile che il Governo possa abbandonarlo al proprio destino, non facendolo convertire in legge dal Parlamento. Esso, infatti, pare abbia trovato applicazione in altri casi che non hanno suscitato il medesimo clamore di quelli della Lombardia e del Lazio.
Se, quindi, il decreto non fosse convertito, il pasticciaccio brutto delle liste sarebbe destinato ad accrescersi in modo esponenziale, con conseguenze forse oggi imprevedibili.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel marzo 2010)

IL 10 MARZO GLI AVVOCATI SONO IN SCIOPERO: IO NON ADERISCO

Oggi 10 marzo gli avvocati si astengono dalle udienze. La manifestazione è promossa dall’O.U.A. (Organismo unitario dell’avvocatura) e dalle principali associazioni forensi (fra cui le Camere penali), con il sostegno degli organismi istituzionali che governano gli avvocati italiani (Consiglio nazionale forense ed Ordini territoriali). Unica associazione contraria è l’U.G.A.I., che rappresenta parte dei giovani (l’altra associazione dei giovani, l’A.I.G.A., sembra essere favorevole all’iniziativa).
La manifestazione è intesa a sollecitare l’approvazione della legge di riforma dell’ordinamento professionale, già approvata dalla Commissione giustizia del Senato il 18 novembre 2009 ma, da allora, non ancora passata all’esame dall’aula del Senato.
Io sarò un incorreggibile bastian contrario, ma devo esprimere la mia contrarietà alla manifestazione.
Se dovessi pensare solo al mio particulare, potrei disinteressarmi totalmente della questione. Tra meno di un mese, infatti, compirò i 66 anni e, nel prossimo giugno, avrò alle spalle 41 anni di professione forense. Per di più, la mia agenda, per il 10 marzo, non prevede alcuna udienza.
Ciononostante, poiché ho sempre pensato che l’avvocato non possa limitarsi ad essere un puro tecnico del diritto, ma debba essere consapevole dei problemi della società in cui vive, non posso rinunciare ad esprimere la mia contrarietà al progetto di riforma.
Innanzitutto perchè la filosofia che ispira il disegno di legge è tesa al consolidamento del sistema degli Ordini professionali e della nomenklatura espressa dagli stessi, di lontana origine medioevale. Nel Medioevo, infatti, i gruppi professionali acquistano forza e potenza politiche: dopo la prima metà del XII secolo si ha una estensione delle corporazioni a tutti i rami delle attività produttive e professionali. Gli organismi corporativi sono autonomi di fronte allo Stato e vengono a costituire caste privilegiate munite di propri poteri a difesa degli interessi del gruppo.
Questa situazione dura sino alla Rivoluzione francese: nel 1791 si decreta lo scioglimento di tutte le corporazioni in nome della libertà di associazione e dell’autonomia dell’individuo.
Ma con Napoleone, nel 1810, si ricostituisce l’Ordine degli Avvocati, che viene sottoposto al controllo dello Stato, realizzandosi la prima disciplina pubblicistica di un gruppo professionale.
Nell’Italia postunitaria, la professione forense, dapprima disciplinata dalla Legge 8 giugno 1874 n. 1938, è oggi regolata dal R.D. 27 novembre 1933 n. 1578, cui, nel tempo, sono state apportate solo modifiche di non rilevante entità.
Eppure il respiro internazionale che la professione forense ha assunto, soprattutto negli ultimi cinquant’anni, con l’ingresso del nostro paese nella Comunità europea, richiede oggi una regolamentazione più moderna e dinamica, nella quale l’associazionismo forense e la collaborazione fra avvocati di diversi paesi e di diverse culture giuridiche dovrebbe trovare uno spazio adeguato.
Nell’ambito comunitario, la libertà di prestazione delle professioni e la libertà di stabilimento dei professionisti nel territorio degli Stati membri, costituiscono esercizio della libertà di circolazione dei lavoratori indipendenti, quale condizione, insieme alla libera circolazione dei servizi e dei capitali, necessaria per la realizzazione del mercato unico.
La filosofia della riforma (cui ha rivolto critiche caustiche il costituzionalista Roberto Bin sul sito internet Quaderni costituzionali) pare, invece, improntata ad una chiusura gretta e provinciale che ostacola l’ingresso dei giovani nella professione, senza garantire agli stessi quella preparazione di eccellenza, indispensabile per reggere la sfida europea.
Dell’accesso alla professione, del tutto svincolato dall’Università e concepito più come un percorso di guerra che come un iter di preparazione teorico-pratica, ho già avuto modo di parlare in passato su queste stesse colonne. Mi limiterò a dire che, se non condivido quanto previsto dalla riforma, non condivido neppure l’impostazione dell’U.G.A.I. (l’Unione dei giovani avvocati) che punta ad esami di accesso alla professione sempre più facili, con la possibilità per il candidato di escludere, dall’esame orale, le materie professionalmente più caratterizzanti (diritto civile, diritto penale, diritto processuale civile, diritto processuale penale).
Oltre che per la soluzione data ai problemi dell’accesso, la riforma è criticabile almeno sotto altri due profili.
Viene disciplinata per legge l’obbligatorietà della formazione permanente che, da quando è stata avviata, ha solo incrementato l’industria dei convegni e dei corsi a pagamento e si è risolta in una vera e propria vessazione ai limiti della costituzionalità. In violazione dell’articolo 23 della Costituzione, infatti, si impongono agli avvocati prestazioni patrimoniali (le quote -sovente non indifferenti - di iscrizione a convegni e corsi di formazione), la cui entità non è disciplinata dalla legge ma liberamente imposta da privati imprenditori, che hanno scoperto una facile e lucrosa fonte di guadagno.
Viene, poi, attribuito agli Ordini il potere di controllare, sulla base dei redditi percepiti, la continuità dell’attività professionale. Si tratta di una previsione normativa palesemente discriminatoria nei confronti di giovani ed anziani. Chi, infatti, è all’inizio o al termine del suo percorso professionale può facilmente trovarsi a percepire redditi minimi. Non capisco perché si debbano penalizzare costoro con una cancellazione dall’albo disposta d’autorità.
In conclusione, una ulteriore riflessione sul testo della riforma, auspicata, peraltro, dallo stesso Presidente del Senato Schifani, si rende quanto mai necessaria, anche perchè i palesi difetti del testo non sarebbero facilmente emendabili, una volta intervenuta, dopo anni di attesa, una sofferta approvazione del provvedimento.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel marzo 2010)

SONO SCIOCCHEZZE, MA A VOLTE RITORNANO

Nella seconda metà degli anni ottanta, raggiunse il suo culmine in Italia quel sistema politico al quale, sin dal lontano 1949, un costituzionalista ormai dimenticato, Giuseppe Maranini, in una prolusione all’Università di Firenze, aveva dato il nome di partitocrazia.
Era un sistema politico in cui il potere aveva il suo centro effettivo nei partiti, e non già negli organi previsti dalla Costituzione e dalle leggi.
Nelle istituzioni locali, le scelte effettive non erano assunte dagli organi amministrativi (giunte e consigli comunali e provinciali), dopo dibattiti aperti e trasparenti, ma nelle stanze piene di fumo (all’epoca non esistevano divieti di sorta) delle segreterie e delle direzioni dei partiti, ovvero nei conciliaboli dei capi corrente. Alle istituzioni (giunte e consigli) toccava poi il compito di tradurre in atti amministrativi le decisioni che erano state assunte, nella sostanza, altrove. I consiglieri non consigliavano affatto, limitandosi il più delle volte a votare, ratificandole, scelte preconfezionate.
Il sistema ricordava quello degli stati socialisti (all’epoca, il muro di Berlino non era ancora caduto), in cui la struttura dello Stato veniva subordinata ad un partito unico, con la differenza che non vi era un partito unico, ma una coalizione di partiti, con altri partiti all’opposizione.
In questo clima, qualcuno, a Cremona, inventò quelle che furono definite le giunte politiche. Le giunte (comunali e provinciali), in altre parole, si riunivano periodicamente con la partecipazione dei segretari dei partiti della coalizione che sosteneva le giunte stesse. Si trattava di persone del tutto estranee all’Amministrazione che però avevano un ruolo assolutamente determinante nella formulazione delle scelte che l’Amministrazione stessa era chiamata ad assumere.
Grazie al cielo, le giunte politiche ebbero vita breve. Le elezioni amministrative del 1990 segnarono, anche a Cremona, l’inizio di una crisi irreversibile del pentapartito, che, entro pochi anni, sarebbe stato travolto dalla bufera di tangentopoli.
Contemporaneamente, l’entrata in vigore, poco dopo le elezioni, della Legge 8 giugno 1990 n. 142 (sull’ordinamento delle autonomie locali) innescò un circuito virtuoso, restituendo alle istituzioni il ruolo previsto dall’ordinamento, finché, con la Legge 25 marzo 1993 n. 81, fu introdotta l’elezione diretta dei Sindaci e dei Presidenti della Provincia.
Da allora, di giunte politiche nessuno parlò più e le stesse furono rapidamente dimenticate, senza che nessuno le rimpiangesse.
Con stupore, quindi, ho letto su La Cronaca, sempre attenta agli sviluppi della politica locale, delle polemiche che, nell’ambito del Comune di Cremona, sono sorte in ordine alla convocazione di cosiddette giunte allargate cui partecipano anche i capigruppo delle forze politiche, presenti nel Consiglio Comunale, che sostengono il Sindaco e la Giunta.
Le giunte politiche, scomparse vent’anni fa, sono quindi riemerse dalle nebbie di un lontano passato nella rinnovata veste di giunte allargate.
Le giunte allargate sono meno scandalose delle infauste giunte politiche (i capigruppo sono pur sempre consiglieri comunali), ma pongono egualmente il problema della legittimità della partecipazione di estranei ad organi amministrativi collegiali.
Come ha ritenuto il Consiglio di Stato (Sezione VI, 21 ottobre 1996, n. 1367), costituisce principio generale il fatto che, negli organi collegiali, la partecipazione di persone estranee, anche se limitata alla sola presenza fisica, costituisce motivo di invalidità delle deliberazioni assunte dall’organo.
Il T.A.R. per la Campania (Napoli, Sezione III, 19 febbraio 1991, n. 39), con assoluta rigidità, ha affermato che “l’intervento – anche sotto il profilo di semplice presenza, senza alcuna partecipazione attiva alla discussione – alle sedute di un organo collegiale, di persona che non fa parte della sua composizione legislativamente prevista, vizia gli atti adottati dall’organo stesso e ciò in quanto anche il semplice atteggiamento ovvero l’espressione assunta dall’estraneo può influenzare le determinazioni dei singoli membri del collegio”.
In modo altrettanto rigido si è espresso il T.A.R. per il Lazio (Latina, 5 maggio 2006, n. 311): “La presenza in seno alla seduta consiliare di un membro non autorizzato a farvi parte per difetto di status comporta che tutta l’attività amministrativa svolta in tale sede risulta inficiata sin dall’origine, riverberandosi sulla corretta costituzione dell’organo collegiale, e quindi sulla sua stessa legittima composizione, che, per tale ragione, viene a difettare del necessario requisito della rappresentatività, il quale deve esistere a priori ed a prescindere dal concreto esito che le votazioni avrebbero potuto avere sia pure in assenza del soggetto estraneo al plesso”.
La dottrina, a sua volta (Verbari, Organi collegiali, in Enciclopedia del Diritto), ha affermato che “La presenza di estranei alle adunanze del collegio impedisce l’imputazione giuridica della fattispecie all’organo. La partecipazione di estranei, tranne che ciò non sia espressamente consentito dalle norme, è fatto che non permette il venire in essere del rapporto organico. Ciò perché vengono introdotti nella riunione del collegio interessi particolari se non personali, non previsti dalle norme. Il soggetto che partecipa alla riunione senza essere incardinato nel collegio come componente sostanzia un centro di imputazione di interessi non istituzionalizzato dalle norme”.
Ma la cosa che maggiormente stupisce è un’altra. Nessuno, in modo particolare dell’opposizione, ha criticato, se non con un fragoroso silenzio, questa poco commendevole prassi delle giunte allargate.
Infatti, il vero problema dell’ordinamento costituzionale italiano (evito deliberatamente di usare la stucchevole espressione riforme) sembra essere quello di ricostituire le condizioni perché si affermi e si consolidi l’indipendenza delle istituzioni governanti dai partiti e dai movimenti politici, dalle cui invadenti ingerenze le istituzioni stesse devono essere poste al riparo.
Ma questo è un problema che riguarda tutti, chi governa e chi fa opposizione (ed è destinato a governare domani).
(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel febbraio 2010)

L’EUROPA CONTRO IL CROCIFISSO?

Sono trascorsi ormai più di due mesi dalla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Sezione II, 3 novembre 2009, in causa Lautsi c. Italia) che ha ritenuto che l’affissione del crocifisso alle pareti delle aule degli istituti scolastici pubblici si pone in contrasto con il diritto dei genitori di educare i figli secondo le proprie convinzioni religiose e filosofiche e con il diritto alla libertà religiosa.
La sentenza non ha mancato di suscitare dibattiti e polemiche nel mondo politico e istituzionale e, come era prevedibile, da parte del mondo cattolico.
Il punto essenziale della sentenza è costituito dalla seguente affermazione: “La Corte ritiene che l’esposizione obbligatoria di un simbolo di una confessione nell’esercizio della funzione pubblica per quanto riguarda situazioni specifiche, sotto il controllo del governo, in particolare nelle aule, limita il diritto dei genitori di educare i loro figli secondo le loro convinzioni e il diritto degli scolari di credere o di non credere. La Corte ritiene che ciò costituisca una violazione di questi diritti, perché le restrizioni sono incompatibili con il dovere dello Stato di rispettare la neutralità nell’esercizio del servizio pubblico, in particolare nel campo dell’istruzione”.
Ora che, come sempre accade, la polvere dell’oblio si è posata sulla sentenza, è possibile tentare un commento su un piano strettamente giuridico, prima che ideologico. Ragionare di simboli religiosi, infatti, significa inevitabilmente toccare, nel profondo, la sensibilità dell’interlocutore. Cattolici, diversamente credenti, non credenti e laici hanno, ciascuno, una propria convinzione, profondamente radicata nella propria coscienza, che talora non accetta l’opinione diversa.
Occorre, preliminarmente, sfatare un mito: contro il crocifisso nelle aule scolastiche (affermando un principio non circoscritto alla scuola, ma destinato a coinvolgere tutti i luoghi pubblici) non si è pronunciata l’Unione europea, attraverso una sentenza della Corte di Giustizia.
La decisione di cui si discute nasce, invece, nell’ambito del Consiglio d’Europa.
Il Consiglio d’Europa fu fondato con il Trattato di Londra del 5 maggio 1949. Si tratta di una organizzazione internazionale, cui originariamente appartenevano dieci Stati dell’Europa occidentale (oggi gli Stati membri sono divenuti quarantasette).
L’organizzazione ha l’obiettivo principale di “salvaguardare e promuovere gli ideali e i principi che costituiscono il loro patrimonio comune”; ogni Stato membro “riconosce il principio delle preminenza del diritto e il principio secondo il quale ogni persona soggetta alla sua giurisdizione deve godere dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”. Secondo un modello che è molto diffuso tra le organizzazioni internazionali, il Consiglio d’Europa ha due organi: il Comitato dei ministri, in cui sono rappresentati i Governi attraverso i loro Ministri degli esteri, e l’Assemblea consultiva, un organo i cui membri sono eletti dai Parlamenti nazionali in numero che varia secondo la popolazione dello Stato stesso.
Nel 1950 il Consiglio d’Europa si fece promotore della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), un trattato che impegna gli Stati aderenti al rispetto di una carta dei diritti, rispetto garantito, appunto, dalla Corte dei diritti dell’uomo. Essa, su ricorso degli interessati, ha il compito di ripristinare i diritti violati, ma può anche condannare gli Stati responsabili della violazione a un indennizzo, quella che è stata definita una “equa riparazione”. La condanna non può consistere in un obbligo di fare.
La Corte che, come gli altri organi del Consiglio d’Europa, ha sede a Strasburgo, è composta da un giudice per ogni Stato, eletto dall’Assemblea su una lista di candidati proposti dal singolo Stato. Nel caso concreto, lo Stato italiano è stato solamente condannato a risarcire alla ricorrente signora Lautsi (che davanti alle Autorità giudiziarie italiane aveva visto rigettare le sue domande) la somma di cinquemila euro. L’Italia, quindi, non è stata condannata a rimuovere il crocifisso dalle aule scolastiche, come impropriamente si è detto.
Le sentenze della Corte sono esecutive e gli Stati firmatari della CEDU si sono impegnati a darvi esecuzione. Il controllo sull’adempimento di tale obbligo è rimesso ad un organo politico, il Comitato del ministri del Consiglio d’Europa, che – lo si deve ancora ripetere – è un’organizzazione indipendente dall’Unione europea.
La CEDU, tuttavia, è citata nei Trattati istitutivi della UE come dichiarazione dei diritti fondamentali, che vincolano anche gli atti delle istituzioni comunitarie.
Sull’efficacia della CEDU nell’ordinamento italiano e, in particolare, nel sistema delle fonti, le opinioni non sono unanimi nella dottrina costituzionalistica.
Un’interpretazione piuttosto riduttiva è stata offerta dalla Corte Costituzionale: “Poiché le norme CEDU non sono direttamente applicabili ai rapporti giuridici interni e le risoluzioni e raccomandazioni della Corte di Strasburgo si indirizzano soltanto agli Stati contraenti, i giudici italiani non possono risolvere il contrasto tra norme interne e norme CEDU, come interpretate dalla Corte di Strasburgo, procedendo a disapplicare le prime” (Corte costituzionale, 24 ottobre 2007, n. 349).
Immagino però che i lettori, al di là dei problemi giuridici posti dalla sentenza della Corte europea, desiderino conoscere la mia opinione sul merito della vicenda, sull’esposizione, cioè, del crocifisso nelle aule scolastiche e, in genere, nei luoghi pubblici.
Non posso, in proposito, che ricordare il pensiero di Piero Calamandrei, uno dei massimi giuristi dal XX secolo e laico integrale, il quale aveva proposto di affiggere, nelle aule di giustizia, il crocifisso non alle spalle ma davanti ai giudici, perché ricordasse loro le sofferenze e le ingiustizie inflitte ogni giorno a tanti innocenti.
Lo stesso Consiglio di Stato (contro la cui sentenza del 13 febbraio 2006 n. 556 è stato proposto il ricorso alla Corte europea) si è espresso sulla stessa lunghezza d’onda di Calamandrei ed ha affermato che il mantenimento del crocifisso nelle aule scolastiche, non viola il principio della laicità dello Stato in quanto la croce rappresenta e richiama valori civilmente rilevanti, quali la tolleranza, il rispetto reciproco, la valorizzazione della persona, l’affermazione dei suoi diritti, il rispetto della sua libertà, l’autonomia della coscienza nei confronti dell’autorità, la solidarietà umana, il rifiuto di ogni discriminazione, valori tutti che ispirano l’ordine costituzionale italiano. Il Consiglio di Stato aveva quindi sottolineato come in Italia l’esposizione del crocifisso non sia discriminatoria per i non credenti in quanto la croce è un simbolo capace di rappresentare e richiamare quei valori, civilmente rilevanti, che ispirano il nostro ordine costituzionale.
Sul crocifisso nelle aule scolastiche, così ebbe ad esprimersi la scrittrice Natalia Ginzburg, ebrea e non credente: “Il crocifisso non genera nessuna discriminazione. Tace. E’ l’immagine della rivoluzione cristiana, che ha sparso per il mondo l’idea dell’uguaglianza fra gli uomini fino ad allora assente… Perché mai dovrebbero sentirsene offesi gli scolari ebrei? Cristo non era forse un ebreo e un perseguitato morto nel martirio come milioni di ebrei nei lager? Nessuno prima di lui aveva mai detto che gli uomini sono tutti uguali e fratelli. A me sembra un bene che i bambini, i ragazzi lo sappiano fin dai banchi di scuola”.
(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel gennaio 2010)

LA LEGGE FINANZIARIA ANTICIPA (FORSE) IL CODICE DELLE AUTONOMIE

L’articolo 2, commi dal 184 al 187, della Legge 23 dicembre 2009, n. 191 (Legge finanziaria per il 2010) contiene alcune norme di grande rilievo per l’assetto organizzativo dei Comuni e delle Province.
La scelta, adottata dal legislatore, di modificare l’ordinamento degli enti locali attraverso lo strumento della legge finanziaria, anche se non nuova, è certamente anomala.
Infatti, l’articolo 11, terzo comma, della Legge 5 agosto 1978, n. 468 (così come sostituito dalla Legge 25 giugno 1999 n. 208) dispone che “la legge finanziaria non può contenere norme di delega o di carattere ordinamentale ovvero organizzatorio”.
I commi 184, 185, 186 della legge finanziaria, in realtà, intendono anticipare alcune norme ordinamentali previste dal “Codice delle autonomie”. Tale codice è ancora allo stato di disegno di legge, approvato dal Consiglio dei Ministri il 19 novembre 2009.
Dopo un confronto con le associazioni rappresentative degli enti locali (ANCI ed UPI, essenzialmente) dovrà essere approvato dal Parlamento. Tuttavia, poiché il “Codice delle autonomie” contiene sia norme di delega (in forza delle quali dovranno essere emessi decreti legislativi), sia norme di immediata applicazione, è prevedibile che passerà diverso tempo prima che il Codice stesso possa essere attuato nella sua interezza.
Di qui, l’idea del Governo (e, in particolare, del ministro Calderoli) di anticiparne alcune disposizioni nella legge finanziaria. Si tratta, infatti, di disposizioni che dovrebbero consentire a Comuni e Province un apprezzabile risparmio di spesa, tale da compensare, almeno in parte, la riduzione dei fondi che la legge finanziaria mette a disposizione degli enti locali.
Il comma 184 prevede una riduzione dei consiglieri comunali nella misura del 20%. Il comma 185, di contro, dispone che il numero degli assessori comunali non possa superare il quarto dei consiglieri comunali, mentre le Giunte delle Province avranno il limite numerico di un quinto dei consiglieri.
La misura mi pare assai opportuna, attesa la dimensione pletorica degli organi collegiali dei Comuni e delle Province.
Ricordo ancora lo stupore con il quale, quasi trent’anni fa, negli Stati Uniti, ebbi modo di assistere, in una cittadina del Rhode Island di qualche migliaio di abitanti, ad una riunione del Consiglio comunale, composto di sole cinque persone.
Non si comprende la ragione per cui, in Italia, un Comune della stessa dimensione debba, invece, avere un Consiglio di venti persone ed una Giunta di sette.
Il comma 186 prevede la soppressione di alcuni organi dei Comuni e delle Province.
In primo luogo, deve essere soppresso il difensore civico. Il difensore civico, introdotto per la prima volta nell’ordinamento italiano dalla Legge 8 giugno 1990, n. 142 ed oggi previsto dall’articolo 11 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267, è un istituto mutuato da ordinamenti stranieri (si pensi all’”ombudsman” svedese, che risale addirittura al 1809, al “Mediatore” della Comunità europea, al “Mediateur” francese). Secondo la legge il difensore civico (la cui istituzione deve essere prevista dallo Statuto dell’ente locale), ha “compiti di garanzia dell’imparzialità e del buon andamento della pubblica amministrazione comunale o provinciale” e deve segnalare “anche di propria iniziativa, gli abusi, le disfunzioni, le carenze ed i ritardi dell’amministrazione nei confronti dei cittadini”.
Di fatto, il difensore civico ha assunto un ruolo “paragiurisdizionale”, evitando che i cittadini, per le questioni di minore rilievo, siano comunque costretti a rivolgersi agli organi della giustizia amministrativa. Ha svolto, quindi, un utile compito deflattivo del contenzioso pendente davanti ai T.A.R., stimolando l’aututela dell’amministrazione. Avrei, quindi, dei dubbi in ordine all’opportunità della soppressione, pura e semplice, della figura del difensore civico.
Il comma 186 prevede ancora la soppressione delle circoscrizioni di decentramento comunale (i “comitati di quartiere”, come sono definiti nel linguaggio comune), di cui Cremona fece esperienza in anni assai lontani e che poi furono soppressi (essendo la loro istituzione facoltativa), senza lasciare rimpianti.
Nei Comuni con popolazione inferiore ai tremila abitanti, è, poi, prevista la possibilità di sopprimere la Giunta, da sostituirsi con due consiglieri delegati dal Sindaco.
E’ prevista, ancora, la soppressione della figura del direttore generale. Tale figura, per i Comuni e le Province, fu introdotta dalla Legge 5 maggio 1997, n. 127 ed è oggi disciplinata dall’art. 108 del D.Lgs. 18 agosto 2000, n. 267. Egli ha il compito di “attuare gli indirizzi e gli obiettivi stabiliti dagli organi di governo dell’ente, secondo le direttive impartite dal Sindaco o dal Presidente della Provincia e … sovrintende alla gestione dell’ente, perseguendo livelli ottimali di efficacia ed efficienza”.
Giudico l’abolizione della figura del Direttore generale quanto mai opportuna: non ho mai capito, infatti, la dicotomia fra la figura del Segretario e del Direttore generale, foriera, secondo me, di conflitti e disfunzioni.
Il comma 186 prevede, infine, la soppressione dei consorzi di funzioni tra gli enti locali, le cui funzioni vengono trasferite agli stessi enti locali.
Infine, il comma 187 prevede che “lo Stato cessa di concorrere al finanziamento delle comunità montane” (che, pertanto, almeno in prospettiva, sono destinate alla soppressione).
Il comma 253, da ultimo, prevede che la legge finanziaria (pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 30 dicembre 2009) entri in vigore il 1° gennaio 2010 .
Ci si immaginerebbe, quindi, in questi giorni, Comuni e Province in affanno per adeguarsi, modificando Statuti e Regolamenti, alla nuova normativa.
Nulla di tutto questo, invece, sta avvenendo. Si parla, al contrario, con insistenza, di un decreto legge che differisca l’entrata in vigore delle norme di cui abbiamo parlato al 1° gennaio 2011.
La situazione è kafkiana, perché non si comprende, a questo punto, la ragione per cui il Governo abbia voluto, a tutti i costi (anche attraverso il voto di fiducia posto alla Camera), anticipare l’entrata in vigore di alcune disposizioni del “Codice delle autonomie”.
Mi viene da pensare che, quando si tratta di riforme, i politici italiani si comportino come quei coristi delle opere, cui amava riferirsi, in anni ormai lontani, un mio non dimenticato professore di liceo. Dicono “Partiam, partiam”, ma stanno inesorabilmente fermi sul palcoscenico.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel gennaio 2010)

venerdì 1 ottobre 2010

GHEDINI COME ERODE

Narra il Vangelo di Matteo :”Erode, accortosi che i Magi si erano presi gioco di lui, s’infuriò e mandò ad uccidere tutti i bambini di Betlemme e del suo territorio dai due anni in giù, corrispondenti al tempo su cui era stato informato dai Magi” (Mt, 2,16).
Si tratta dell’episodio evangelico della “strage degli innocenti”, molte volte immortalato nella iconografia cristiana.
Alla “strage degli innocenti” mi è venuto da pensare di fronte al disegno di legge sul “processo breve”, elaborato dall’avvocato Ghedini, per impedire lo svolgimento di due processi penali a carico del suo più illustre cliente.
Così come Erode, per eliminare (senza riuscirvi) il bambino Gesù, pensò di eliminare tutti i bambini di Betlemme di età inferiore ai due anni, allo stesso modo Ghedini, per estinguere due processi penali a carico del Presidente del Consiglio, ha ideato un meccanismo che porterà all’estinzione di decine, o piuttosto di centinaia, di migliaia di procedimenti penali, anche di rilevanza non bagatellare.
Di fronte a una siffatta alzata di ingegno, sono rimasto sconcertato. La soluzione (l’onorevole Italo Bocchino l’ha definita “ghedinata”) ha talmente dell’incredibile che, di fronte alla stessa, non sono neppure riuscito a provare indignazione.
“Il Sole 24 Ore” ha descritto la situazione con un paragone assai efficace: “Immaginiamo che si stabilisca di far viaggiare i treni Roma-Milano non più in 4 ore ma in 2, ma che soltanto ad alcuni passeggeri sia consentita l’alta velocità, lasciando agli altri la linea lenta; immaginiamo che questi nuovi Tgv siano costretti ad andare su binari vetusti, non adatti all’alta velocità, e che perciò deraglino in continuazione o rallentino, accumulando ore di ritardo; immaginiamo, soprattutto, che ai macchinisti dei treni già partiti sia ordinato di fermarsi allo scadere delle 2 ore, ovunque si trovino, facendo scendere i passeggeri. Un caos”.
E’ inimmaginabile che si ipotizzi, al solo scopo di eliminare due singoli procedimenti penali a carico di una singola persona, una ecatombe di processi. Non solo si avrebbe una sorta di amnistia mascherata (della quale, a parità di reato, non tutti gli imputati potrebbero fruire), senza neppure le garanzie che l’articolo 79 della Costituzione prevede per l’amnistia (approvazione con la maggioranza dei due terzi del Parlamento).
Ma, soprattutto, verrebbe minato un principio fondamentale del vivere civile: alcuni comportamenti, definiti come reati, sono vietati dalla legge penale e vengono puniti con l’irrogazione di sanzioni (definite pene), più o meno gravi. E questo sistema di regole è indispensabile, come dicevano i romani, “ne cives ad arma ruant”.
Il Ministro della Giustizia ha pubblicamente affermato che solo l’uno per cento dei processi penali si estinguerebbe per effetto della nuova legge. Non ci credo. Basta aver frequentato le aule di giustizia per pervenire alla conclusione che la stima del Ministro è palesemente errata per difetto. E’ verosimile che almeno la metà dei procedimenti penali riguardanti fatti di entità modesta o non eccessivamente rilevante, ma non per questo trascurabili o privi di allarme sociale (si pensi, ad esempio, alla vicenda di “calciopoli”), si estinguano prima di una sentenza definitiva di condanna o di assoluzione.
Non pochi costituzionalisti, di diverso, quando non contrapposto, orientamento politico e culturale, hanno già posto in evidenza diversi possibili profili di incostituzionalità della legge sul processo breve, con riferimento agli articoli 3 (principio di uguaglianza), 24 (diritto di difesa) e 111 (principio del giusto processo) della Costituzione.
E’, quindi, presumibile che, se mai dovesse essere approvata, la legge concepita dall’avvocato Ghedini cadrebbe ben presto sotto la mannaia della Corte Costituzionale, non prima, tuttavia, di aver provocato una vera e propria strage di processi penali pendenti, con conseguenze politico-sociali facilmente immaginabili, in una società in cui la domanda di sicurezza, specie negli ultimi anni, si è fatta sempre più pressante.
Non ignoro (anche perché ne sono testimone da oltre quarant’anni) le lungaggini della giustizia italiana. Ma non si può pensare che, per risolvere le lungaggini, si debbano necessariamente uccidere i processi.
Altre sono le misure alle quali si dovrebbe pensare e che dovrebbero essere adottate. Mi limiterò ad elencarne qualcuna: drastica depenalizzazione dei reati bagatellari, da punire con sanzioni amministrative; semplificazione delle procedure, pur tenendo conto del fatto che, secondo l’articolo 111 della Costituzione, deve realizzarsi un processo “giusto” che non è necessariamente e sempre un processo “veloce”; aumento del numero di magistrati, anche con un reclutamento straordinario come avvenne nell’immediato dopoguerra, all’epoca del Guardasigilli Togliatti; incremento dei mezzi organizzativi e delle risorse a disposizione della giustizia, per quanto attiene al personale amministrativo ed all’ informatizzazione.
La “riforma della giustizia”, come ha detto Luca di Montezemolo, non può limitarsi al vantaggio di una sola persona, ma deve radicalmente trasformare, nell’interesse generale, il sistema nel suo complesso (e non deve dimenticare – aggiungo io - la giustizia civile e la giustizia amministrativa).


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel novembre 2009)