venerdì 16 dicembre 2011

UN OSCURO TESTO E UNA ANCOR PIU’ OSCURA GLOSSA

I giuristi medioevali solevano ripetere “a chiaro testo non fare oscura glossa”, volendo affermare il principio per cui quando una norma giuridica è chiara, non sono necessari sforzi interpretativi particolarmente impegnativi per applicarla.
Questo antico brocardo mi è tornato più volte alla mente riflettendo sulla recente vicenda della nomina, da parte del Sindaco di Cremona, del Presidente dell’A.E.M., nomina impugnata davanti al T.A.R. per la Lombardia, ma confermata dallo stesso Tribunale.
Infatti la norma regolamentare di cui il Sindaco ha fatto applicazione non è certo chiara, ma suscita dubbi anche la sentenza del T.A.R. che ha risolto definitivamente la questione (sempre che non venga interposto appello al Consiglio di Stato).
Ricapitolerò rapidamente i punti essenziali della vicenda.
L’articolo 50, comma 8, del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (T.U. sull’ordinamento degli enti locali) stabilisce che “sulla base degli indirizzi stabiliti dal Consiglio il Sindaco e il Presidente della Provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti del Comune e della Provincia presso enti, aziende ed istituzioni”.
Il Consiglio comunale di Cremona, nel fissare tali indirizzi, ha stabilito il seguente principio: “A far tempo dalla prima data di adozione dei presenti Indirizzi, non possono, comunque, essere nominati o designati coloro che abbiano già avuto nomine o designazioni da parte del Sindaco nel medesimo organismo, anche con incarichi diversi, per due mandati amministrativi consecutivi, o comunque, per un tempo superiore al doppio della prevista durata della carica nell’Ente, Azienda, Fondazione o Istituzione cui si riferisce la nomina o la designazione”.
Il problema sta tutto nell’interpretazione di questa norma. Ad un primo sommario esame, verrebbe da dire che, così come il Sindaco non può essere eletto per più di due mandati consecutivi (art. 51, comma 2, del T.U.), egualmente un rappresentante del Comune non può essere nominato, nel medesimo organismo, per più di due mandati consecutivi. L’inciso finale parrebbe voler significare che, se anche vi è stata una sola nomina, se il rappresentante, per qualsiasi ragione, è rimasto in carica più del doppio del periodo previsto, non può più essere nominato.
Il Sindaco, sulla base di un autorevole parere (mai, credo, reso pubblico), ha ritenuto che, in virtù di questa precisazione contenuta negli indirizzi approvati dal Consiglio comunale, il presidente dell’A.E.M., pure se già nominato per due volte, potesse essere nominato per una terza, non avendo ricoperto la carica per il doppio del tempo previsto per il mandato.
Un’altra persona che, con le modalità previste dagli indirizzi del Consiglio comunale, era stata candidata a ricoprire il medesimo ruolo, impugnava davanti al T.A.R. il provvedimento del Sindaco, avendo a ciò un interesse personale e diretto.
Al Giudice amministrativo veniva richiesta, in via cautelare, la sospensione dell’atto impugnato.
In sede di discussione della domanda cautelare, il T.A.R., facendo applicazione di una norma introdotta dal recente codice del processo amministrativo (articolo 60) ha definito immediatamente la questione, emettendo una sentenza in forma semplificata.
Ciò smentisce, prima di tutto, il luogo comune delle lungaggini della giustizia amministrativa la quale, invece, per le questioni di puro diritto che non richiedono particolare istruttoria, sa essere eccezionalmente rapida ed efficace.
La sentenza (che è liberamente consultabile da tutti sul sito internet della giustizia amministrativa) non appare, tuttavia, a mio modestissimo avviso, del tutto convincente.
Afferma, in primo luogo, che gli indirizzi approvati dal Consiglio comunale non si applicherebbero nella fattispecie, in quanto riguarderebbero gli enti, e non già l’A.E.M. che ormai è stata trasformata in una società per azioni.
La sentenza considera quindi che il termine “enti” debba essere inteso come “enti pubblici”, trascurando di valutare che l’espressione “ente” è generica e può quindi riferirsi a qualsiasi persona giuridica e che gli stessi indirizzi, nella rubrica, equiparano le società agli altri enti.
Peraltro la giurisprudenza (si veda, da ultimo, T.A.R. Puglia, Lecce, 24 febbraio 2010, n. 622) afferma che l’articolo 50 del T.U., in materia di nomine del Sindaco, trova applicazione anche per le società strumentali dell’ente locale, come l’A.E.M. certamente è.
Ancora meno convincente è la parte della sentenza che riguarda il limite temporale della nomina: “che infatti l’elemento ostativo è individuato alternativamente nei due mandati amministrativi consecutivi (riferiti al Sindaco e quindi ordinariamente 5 + 5 anni) e nel lasso temporale che supera il doppio della durata statutariamente prevista (e quindi oltre i 4 anni per le nomine biennali ed oltre i 6 per le nomine triennali);
- che questa formulazione permette a coloro che rientrano nel limite temporale di ricoprire la carica per il tempo previsto nell’atto di nomina, salvo l’ulteriore vincolo dei due mandati consecutivi”.
Questa motivazione non convince per un duplice ordine di ragioni. Prima di tutto perché i due mandati consecutivi, secondo gli indirizzi approvati dal Consiglio comunale, apparirebbero riferirsi non al Sindaco ma al rappresentante nominato dal Sindaco. Secondariamente perché, in ogni caso, come dice la stessa sentenza, il limite temporale deve arrestarsi di fronte al vincolo dei due mandati consecutivi (affermazione che – secondo logica - avrebbe dovuto condurre all’accoglimento e non già al rigetto del ricorso).Quale morale trarre da questa vicenda? E’ presto detto. Quando si scrive una norma sarebbe necessario avere chiari in mente gli obiettivi che si vogliono raggiungere e poi far scrivere la norma stessa da chi abbia conoscenza del diritto (e della lingua italiana).


(aricolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di dicembre 2011)

ROMA CAPITALE O MONZA CAPITALE?

L’aggravarsi della crisi finanziaria e la crisi politica che ne è derivata hanno fatto dimenticare le polemiche di qualche mese fa sull’apertura, nella Villa Reale di Monza, di sedi decentrate di taluni ministeri (Riforme per il federalismo, Semplificazione normativa, Turismo, Economia e finanze).
Pomposamente si è parlato di apertura dei ministeri al nord, anche se, più semplicemente, si è trattato della istituzione di “sedi distaccate di rappresentanza operativa” (secondo le parole dei decreti istitutivi).
Che Roma sia la capitale d’Italia è fuor di dubbio e non credo che, dal 1870, nessuno l’abbia mai messo in discussione. Roma fu proclamata capitale dall’articolo 1 della Legge 3 febbraio 1871 n. 33 e, secondo l’articolo 2 di detta legge, in Roma ha sede il Governo.
Con la recente modifica del Titolo V della Costituzione, che risale al 2001, il ruolo di Roma come capitale della Repubblica è stato costituzionalizzato.
L’articolo 114, ultimo comma, dispone, infatti, che “Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”.
E’ appena il caso di ricordare che le capitali hanno giocato un ruolo di enorme rilievo nella realtà così come nell’immaginario dell’età moderna. La capitale è stata il simbolo del potere e del prestigio nazionale, la visualizzazione del principio dell’unità dello Stato, il fulcro di complessi apparati politici e di imponenti macchine amministrative. La periferia, la provincia, le altre città hanno talvolta vissuto con disagio il ruolo delle capitali, soprattutto quando, ed è il caso italiano, queste altre città possedevano un’eredità storica e culturale di primo piano o addirittura si presentavano come più convincenti incarnazioni dei processi di modernizzazione.
Come reazione all’accentramento di una molteplicità di funzioni nella capitale dello Stato nazionale, si è posta in modo concreto la necessità di trasferire in altre città parti anche considerevoli delle attività dello Stato centrale.
In Germania, dopo l’unificazione, pur essendo comparsa sulla scena una capitale dai forti connotati simbolici come Berlino, è stata mantenuta una linea di pluralismo.
La sede della Corte costituzionale è restata a Karlsruhe, la Banca centrale a Francoforte, il polo radiotelevisivo a Monaco, e Bonn ha conservato interi dicasteri, così da mantenere il 55 per cento dei posti di lavoro nelle amministrazioni centrali. Accanto alle istituzioni parlamentari, dunque, solo una minoranza delle funzioni governative è migrata verso Berlino.
Anche l’Unione europea ha una struttura policentrica. La Commissione e il Consiglio dei Ministri hanno sede a Bruxelles; il Parlamento si divide fra Strasburgo, Lussemburgo e Bruxelles, la Corte di Giustizia è a Lussemburgo, mentre la Banca centrale europea ha la sua sede a Francoforte.
Per l’Italia si è parlato, più fra gli studiosi che fra i politici, della necessità di costituire una capitale reticolare, intesa come il riequilibrio del sistema urbano nazionale nel suo complesso, con il conseguente rafforzamento di dodici-quindici città italiane nella prospettiva di rispondere adeguatamente alla competizione economica europea.
Merita di essere ricordato, a questo proposito, uno studio della Fondazione Giovanni Agnelli, che risale al 1993, che contiene anche un interessante saggio del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky.
Questi ha proposto per l’organizzazione pubblica una struttura “ad arcipelago”, piuttosto che “a piramide”. Ciò consiste nella diffusione delle strutture governanti in più centri localizzati diversamente, “disseminati” in modo che tra di essi non vi siano più rapporti gerarchici, ma semmai rapporti di pari ordinazione e coordinazione.
La scelta di aprire uffici ministeriali a Monza sembrerebbe, ad un primo esame, coerente con questa impostazione.
In realtà non è così, perché tali uffici sono solo uffici di rappresentanza decentrati, atti ad eventualmente favorire i rapporti con i poteri locali. Qualcosa di assimilabile, quindi, agli uffici di rappresentanza che le Regioni hanno a Roma o a Bruxelles, presso la Commissione europea.
Per di più l’operatività di questi uffici (che pare non abbiano mai iniziato a funzionare) è stata sospesa da un decreto del Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Roma in data 19 ottobre 2011.
Infatti due sindacati autonomi dei dipendenti della Presidenza del Consiglio, non essendo stata ottemperata, da parte della stessa Presidenza, la richiesta di consultazione delle organizzazioni sindacali sul processo di riorganizzazione collegato all’apertura delle sedi decentrate, avevano presentato un ricorso per repressione di condotta antisindacale, ai sensi dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori.
Il Giudice del Lavoro ha dichiarato “l’antisindacalità della condotta tenuta dalla presidenza del Consiglio dei ministri, consistente nell’istituzione di sedi periferiche della struttura di missione di supporto al Ministro per la Semplificazione normativa e del Dipartimento per le Riforme istituzionali, a mezzo del decreto ministeriale per le riforme per il federalismo, entrambi emanati in data 7.6.2011, omettendo l’informativa preventiva e conseguentemente impedendo la concertazione con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative del relativo comparto”. Pertanto, a seguito di questo comportamento, il Giudice del Lavoro ha ordinato “all’amministrazione resistente di desistere dal comportamento antisindacale e di rimuoverne gli effetti”.
Nel frattempo, per effetto della crisi finanziaria, il clima politico è cambiato. Si può pensare che gli uffici di Monza verranno abbandonati, che le ragnatele vi si accumuleranno e che la polvere offuscherà le lucide targhe di ottone, in attesa di tempi migliori.
E’ il destino della Villa Reale di Monza da quando, nel 1900, fu teatro dell’assassinio di Umberto I.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di novembre 2011)

1.200.000 FIRME PER IL REFERENDUM. MA SERVIRANNO?

Nel mese di settembre, con una attività frenetica che ha trovato pronta rispondenza in una opinione pubblica sempre più suggestionata dall’antipolitica, sono state raccolte più di 1.200.000 firme sulle due richieste di referendum abrogativo della Legge 21 dicembre 2005 n. 270.
Si tratta della vigente legge elettorale, ormai universalmente conosciuta come “porcellum”. I difetti di tale legge sono ben noti. In primo luogo la soppressione dei collegi uninominali e la mancata previsione del voto di preferenza ha tolto all’elettore qualsiasi possibilità di scegliere i suoi rappresentanti ed ha eliminato ogni legame politico del parlamentare con il territorio. Deputati e senatori sono nominati dai vertici dei partiti, in quanto vengono eletti solamente in virtù dell’ordine in cui sono posizionati nelle liste, ordine che è deciso dai partiti. Inoltre, il premio di maggioranza, così come previsto per la Camera dei Deputati, dà una palese sovrarappresentazione alla coalizione vincente; di contro, il premio di maggioranza previsto per il Senato, strutturato su base regionale, non funziona, in quanto i vari premi regionali si neutralizzano a vicenda. Di conseguenza non può con sicurezza essere garantita una chiara maggioranza nell’ambito dell’assemblea.
Si tratta di una legge sconclusionata, che non piace a nessuno, tranne che ai capipartito, che vedono esaltato e dilatato a dismisura il loro potere. Non a caso il suo stesso ideatore, il ministro Calderoli, ebbe a definire questa legge una “porcata”.
La legge è anche, almeno in parte, responsabile del discredito che, negli ultimi anni, ha colpito la politica e le istituzioni e che ha pochi eguali nei paesi dell’Unione europea.
Il numero dei sottoscrittori delle due richieste di referendum credo abbia ben pochi precedenti ed è tanto più significativo se si pensa al periodo brevissimo, ed ancora a ridosso della stagione estiva, in cui le firme sono state raccolte.
Ma ciò non garantisce affatto che il referendum si possa svolgere.
Il referendum è disciplinato dall’articolo 75 della Costituzione. Esso ha carattere abrogativo ed è escluso “per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.
L’articolo 75 prevede la possibilità di sottoporre al corpo elettorale, la richiesta di referendum abrogativo, totale o parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge (un decreto legge o un decreto legislativo). Il referendum è volto, quindi, a privare di efficacia un atto normativo.
Potendo il referendum essere anche parziale, nella prassi, si sono talora avuti quesiti referendari che, attraverso l’abrogazione di singole parole o di singole frasi arrivavano a mutare radicalmente il significato di una o più norme. Il referendum, quindi, nato come abrogativo, si è talora trasformato in manipolativo ed ha sostanzialmente proposto all’esame ed alla approvazione degli elettori una norma che disciplinava in modo diverso un determinato istituto.
L’articolo 2 della Legge costituzionale 11 marzo 1953 n. 1 prevede che compete alla Corte costituzionale “giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell’art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell’articolo stesso”.
In altri termini, non basta che, su un quesito referendario, si raccolgano le firme in numero sufficiente; occorre anche che il quesito sia dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale. Di tale competenza, non prevista dall’articolo 134 della Costituzione ed introdotta nel 1953 con legge costituzionale, la Corte ha fatto un uso tale da modellare l’istituto referendario in modo assai innovativo. Si è ritenuto che ci si trovasse di fronte ad una sorta di integrazione della Costituzione.
Con la sentenza 7 febbraio 1978 n. 16, la Corte, infatti, abbandonò l’interpretazione letterale dell’articolo 2 della Legge costituzionale 11 marzo 1953 n. 1 per aprire, di fronte al moltiplicarsi delle richieste referendarie, ad una interpretazione sistematica dell’ammissibilità, che orienterà tutta la sua giurisprudenza successiva.
Secondo la Corte, l’elenco di cause di inammissibilità del referendum, previsto dall’articolo 75, non è rigorosamente tassativo, ma presuppone una serie di cause di inammissibilità inespresse, ricavabili dall’intero ordinamento costituzionale del referendum abrogativo.
Particolarmente significative, sotto il profilo dell’ammissibilità delle richieste, sono le sentenze in materia elettorale (complessivamente tredici fra il 1991 e il 2008).
La Corte, riconducendo le leggi elettorali nella categoria delle leggi costituzionalmente obbligatorie, ha consentito di assoggettare a referendum abrogativo parziale (si veda, ad esempio, la sentenza 10 febbraio 1997 n. 26) anche le norme sull’elezione degli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale, alla condizione che restasse in vigore una normativa complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in qualsiasi momento, dell’organo rappresentativo.
In conclusione, anche se la Corte ha ritenuto ammissibili, in materia elettorale, referendum fortemente manipolativi, capaci di modificare, attraverso l’abrogazione di singole parole, il significato complessivo della disposizione, resta il vincolo della necessità della sopravvivenza, dopo che sia stata utilizzata la tecnica del ritaglio, di una normativa di risulta in grado di essere applicata senza interventi integrativi da parte del legislatore.
Facendo applicazione di tali principi (per i quali si è parlato di una “dottrina” della Corte Costituzionale in materia di referendum elettorali) le due richieste di referendum dovrebbero essere ritenute inammissibili. Consapevoli di tale rischio, i promotori del referendum, tra i quali si annoverano illustri costituzionalisti, sostengono la tesi della reviviscenza delle precedenti leggi elettorali (quelle che, nel loro insieme, furono definite “mattarellum”, dal nome del suo ideatore, è cioè le Leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277).
Dottrina e giurisprudenza, tuttavia, non sembrano riconoscere in modo generalizzato il fenomeno della reviviscenza, ritenendo che l’abrogazione di una norma abrogativa non provochi automaticamente il ripristino delle precedenti norme già abrogate, salvo espressa previsione ad opera dello stesso legislatore, sulla base del principio “abrogata lege abrogante, non reviviscit lex abrogata”.
Ciononostante, il fenomeno della reviviscenza è stato talora riconosciuto dalla giurisprudenza come naturale conseguenza in caso di dichiarazione di incostituzionalità di una norma abrogativa (Cass., 6 agosto 2009, n. 18054; in senso contrario, Cass., 14 ottobre 1988 n. 5599).
Dal canto suo, la Corte costituzionale, nella recentissima sentenza 26 gennaio 2011 n. 24, relativa all’ammissibilità del quesito referendario sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica (il referendum sull’acqua, tanto per intenderci), ha affermato che, dalla abrogazione dell’articolo 23 bis del D.L. 25 giugno 2008 n . 112, sottoposto a referendum, non sarebbe conseguita “alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo”.
La legge “mattarellum”, già utilizzata nelle elezioni del 1994, 1996 e 2001 è certamente migliore del “porcellum”: consente agli elettori la possibilità di scelta e, unendo il carattere maggioritario insito nel sistema dei collegi uninominali al recupero proporzionale per una quota ridotta del 25 per cento, sembra sufficientemente adatta al sistema politico italiano.
Tuttavia, il cammino per ritornare, attraverso il referendum, a tale sistema elettorale che, pur non perfetto, è certamente più apprezzabile del famigerato “porcellum”, appare decisamente impervio.
Un’ultima considerazione. Come nel 1991 e nel 1993 la strada del referendum, per quanto impervia, appare oggi l’unico strumento in mano ai cittadini per imporre nell’agenda politica il cambiamento dell’attuale legge elettorale, che ha spezzato il rapporto tra elettori ed eletti, sostituendo a questi ultimi un Parlamento di nominati.
Di fronte ad una riforma in pejus come quella costituita dal “porcellum”, sotto il profilo costituzionale il referendum finisce per apparire come l’unico strumento costituzionale utilizzabile dagli elettori, per rivendicare l’effettività della loro sovranità, ripristinando la democraticità del sistema.Alla Corte costituzionale, l’ultima parola.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di ottobre 2011)