lunedì 14 gennaio 2013

IL DILEMMA DEL “PORCELLUM”

La vigente legge elettorale (la Legge 21 dicembre 2005, n. 270), poco dopo la sua approvazione, fu definita una “porcata” dall’allora ministro Calderoli che l’aveva proposta.
Prendendo spunto da questa definizione, il politologo Giovanni Sartori, con caustico spirito toscano, definì tale legge “porcellum”. E tale definizione è rimasta nel linguaggio politico e giornalistico.
I difetti del “porcellum” sono molteplici e ben noti. Innanzitutto, non consente all’elettore qualsiasi forma di scelta dei parlamentari, né in collegi uninominali, né con le preferenze, in quanto deputati e senatori sono eletti sulla base di liste bloccate, predisposte dai partiti o, per meglio dire, dai loro ristretti gruppi dirigenti. Prevede, inoltre, per la Camera, un premio di maggioranza assai cospicuo che favorisce la lista o la coalizione di liste che abbia ottenuto il maggior numero di suffragi, indipendentemente dal raggiungimento di una soglia minima di voti.  Per il Senato, invece, il premio di maggioranza è configurato su base regionale, con la conseguenza che, su base nazionale, il raggiungimento di una maggioranza è prevedibile allo stesso modo del risultato di una lotteria. La legge, contiene, infine, una norma (l’articolo 5), che prevede, da parte delle coalizioni o dei gruppi politici che partecipano alla competizione elettorale, l’indicazione del candidato alla guida del Governo. Ciò, pur non innovando nulla in ordine ai poteri del Presidente della Repubblica, previsti dall’articolo 92 della Costituzione, ha fatto impropriamente parlare di una elezione diretta del Presidente del Consiglio, che nel nostro ordinamento costituzionale semplicemente non esiste.
Di fronte a questi macroscopici difetti del “porcellum”, da anni si è posto il problema di introdurre un nuovo sistema elettorale; si è proposto, di volta in volta, il sistema tedesco, il sistema francese, quello spagnolo o quello anglosassone. Sono state ipotizzate anche soluzioni ibride, come un mostruoso sistema ispano-tedesco. Ma, ad oggi, nonostante le insistenze del Presidente Napolitano sulla necessità di provvedere, nulla è stato fatto.
Da talune parti, poi, si è iniziato a dire che ormai non sarebbe più possibile emanare una nuova legge elettorale in tempo utile per le elezioni politiche previste per la primavera del 2013, in quanto imprecisati vincoli europei impedirebbero la modificazione delle normativa elettorale nell’anno antecedente le elezioni.
Una cosa va chiarita fin da subito: in questa vicenda, l’Unione europea non è assolutamente coinvolta. I trattati comunitari (a partire dal Trattato CECA del 1951 ai Trattati di Roma del 1957 sino al Trattato di Lisbona del 2007) non danno alcun potere agli organi comunitari (Consiglio europeo e Consiglio dei ministri, Commissione, Parlamento europeo) in ordine alle elezioni interne a ciascun stato membro. In altri termini, nessuna direttiva o regolamento dell’Unione europea riguarda le elezioni nazionali.
La questione nasce nell’ambito del Consiglio d’Europa.
Il Consiglio d’Europa è un’organizzazione internazionale il cui scopo è promuovere la democrazia, i diritti dell’uomo e l’identità culturale europea. Il Consiglio d’Europa fu fondato nel 1949, con il Trattato di Londra, e oggi ne fanno parte 47 stati, fra i quali tutti quelli appartenenti all’Unione europea. La sede è a Strasburgo. Lo strumento principale d’azione consiste nel predisporre e favorire la stipulazione di accordi o convenzioni internazionali tra gli Stati membri. Le iniziative del Consiglio d’Europa non sono vincolanti e vanno ratificate dagli Stati membri. Come si è detto, il Consiglio d’Europa è un’organizzazione a sé, distinta dall’Unione europea, e non va confuso con organi di quest’ultima quali il Consiglio europeo o la Commissione europea.
La più significativa fra le convenzioni stipulate nell’ambito del Consiglio d’Europa è la “Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”, più conosciuta con l’acronimo CEDU. E’ entrata in vigore il 3 settembre 1953 ed ha istituito, fra l’altro, la Corte europea dei diritti dell’uomo, per assicurare il rispetto della convenzione stessa.
La Corte europea dei diritti dell’uomo ha sede a Strasburgo e non è un’istituzione dell’Unione europea, com’è invece la Corte di giustizia dell’Unione europea, che ha sede a Lussemburgo, e con la quale non deve essere confusa.
La Corte può decidere sia ricorsi individuali che ricorsi degli Stati membri con i quali si lamenti la violazione di una delle disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli addizionali. Essa svolge tuttavia una funzione sussidiaria rispetto agli organi giudiziari nazionali, in quanto le domande sono ammissibili solo una volta esaurite le vie di ricorso interne.
La Corte, in caso di accoglimento della domanda, indica l’entità del danno sofferto dalla parte ricorrente e prevede un’equa riparazione, di natura risarcitoria o di qualsiasi altra natura.
Gli Stati firmatari della Convenzione si sono impegnati a dare esecuzione alle decisioni della Corte europea. Il controllo sull’adempimento di tale obbligo è rimesso al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa.
Una recente sentenza della Corte (6 novembre 2012, in causa Ekoglasnost c. Bulgaria) ha riguardato il caso delle elezioni svoltesi in Bulgaria nel 2005.
In tale sentenza, la Corte ha condannato la Bulgaria, per aver escluso dalle elezioni il movimento politico Ekoglasnost, che non aveva ottemperato alle nuove procedure burocratiche introdotte poco prima del voto. La Corte ha ritenuto che la Bulgaria avesse violato l’articolo 3 del Protocollo addizionale n. 1 alla CEDU (in vigore dal 18 maggio 1954) che sancisce il diritto a libere elezioni. Secondo la Corte non sarebbe stato osservato il periodo di un anno, richiesto dalla Commissione di Venezia, per l’adozione di sostanziali modifiche alla legge elettorale.
La Commissione di Venezia è un organo consultivo del Consiglio d’Europa, formato da giuristi indipendenti, che, nel 2002, approvò il “Codice di buona condotta in materia elettorale”, una serie di linee guida per i legislatori nazionali in materia di riforma dei sistemi elettorali, successivamente fatte proprie dall’Assemblea del Consiglio d’Europa.
Ciò che è da evitare – si legge nel documento – non è tanto la modifica della modalità di scrutinio, poiché quest’ultimo può sempre essere migliorato; ma la sua revisione ripetuta o che interviene poco prima dello scrutinio (meno di un anno). Anche in assenza di volontà di manipolazione, questa apparirà in tal caso come legata ad interessi congiunturali di partito”.
Come ha scritto su “Il Sole 24 Ore” un illustre giurista, che è stato anche un protagonista della vita politica italiana, Giuliano Amato, la raccomandazione della Commissione di Venezia non potrebbe riguardare una legge che eventualmente modificasse il “porcellum”. Avrebbe, infatti, tale legge come scopo quello di eliminare le distorsioni contenute nel “porcellum”, queste ultime, sì, suscettibili di essere censurate alla luce della raccomandazione approvata dalla Commissione di Venezia.
Va anche detto che una sentenza che condannasse l’Italia per una modifica al sistema elettorale introdotta a breve distanza di tempo dal voto, non avrebbe particolari conseguenze pratiche e non comporterebbe l’annullamento delle elezioni. Sarebbe, tuttavia, di grande valore morale e politico, in quanto metterebbe il nostro paese sul medesimo piano di Stati in cui solo recentemente è stato introdotto un regime democratico (come è, appunto, la Bulgaria).

KOKOPELLI, I SEMI DELLA DISCORDIA

Kokopelli è il nome di una divinità degli indiani Navajo, protettrice della fertilità.
Kokopelli, forse per questa ragione, è anche il nome di una associazione, operante nell’ambito agricolo, che ha dato origine ad una controversia, conclusasi con una sentenza, che ha fatto discutere, della Corte di Giustizia dell’Unione europea (la sentenza 12 luglio 2012, in causa C-59/11). La controversia, che ha dato origine alla causa, riguarda la commercializzazione di sementi per ortaggi.
La direttiva in materia, la 2002/55/CE, assoggetta la commercializzazione di queste sementi alla previa ammissione delle loro varietà in almeno uno Stato membro. Una varietà è ammessa nei cataloghi ufficiali solo ove sia distinta (se indipendentemente dall’origine della variazione iniziale da cui proviene, si distingue per uno o più caratteri importanti da qualsiasi altra varietà), stabile (è tale se rimane conforme alla definizione dei suoi caratteri essenziali dopo le riproduzioni successive o alla fine di ogni ciclo) e sufficientemente omogenea (tale è se le piante che la compongono, tenendo presente le particolarità del loro sistema di riproduzione, sono simili o geneticamente identiche per l’insieme delle caratteristiche considerate a tal fine).
Tuttavia un’altra direttiva, la 2009/145/CE, prevede alcune deroghe a tale regime di ammissione nei cataloghi nazionali di varietà da conservazione e le varietà sviluppate per la coltivazione in condizioni particolari.
Come risulta dal comunicato stampa della Corte di Giustizia, emesso a commento della sentenza, con sentenza del 14 gennaio 2008, il Tribunale di Nancy (Francia) condannava l’associazione senza scopo di lucro Kokopelli a risarcire all’impresa di sementi Graines Baumaux i danni per concorrenza sleale. Tale giudice constatava che la Kokopelli e la Baumaux operavano nel settore dei semi antichi o da collezione, che esse commercializzavano, tra gli altri, 233 prodotti identici o analoghi e che si rivolgevano alla medesima clientela di coltivatori dilettanti ed erano dunque in una situazione di concorrenza. Esso ha, pertanto, considerato che la Kokopelli agiva in concorrenza sleale, mettendo in vendita sementi orticole non figuranti né nel catalogo francese né nel catalogo comunitario delle varietà delle specie di ortaggi.
La Kokopelli impugnava tale sentenza dinanzi alla Corte d’appello di Nancy, la quale chiedeva alla Corte di Giustizia di pronunciarsi sulla validità della direttiva relativa alla commercializzazione delle sementi di ortaggi e di quella che prevede talune deroghe per le “varietà da conservazione” e le “varietà sviluppate per la coltivazione in condizioni particolari”.
Due erano i punti sollevati da Kokopelli alla Corte d’appello e, quindi, alla Corte di Giustizia. Se la normativa sulla commercializzazione delle sementi di specie orticole (direttiva 2002/55) e delle varietà da conservazione (direttiva 2009/149) di specie orticole ledono la libertà di commercio e se le stesse direttive sono in contrasto con la conservazione della diversità agricola e, in particolare, con gli obblighi contenuti nel Trattato FAO sulle risorse genetiche vegetali per l’agricoltura e l’alimentazione. La Corte ha riconosciuto la validità della normativa sementiera e ha ritenuto che favorisca, anziché ledere, la libertà di esercitare un’attività economica, garantendo a tutte le imprese un terreno comune su cui competere e al tempo stesso venendo incontro all’obiettivo generale di aumentare la produttività dell’agricoltura. E, inoltre, ha affermato che la normativa attuale è sufficiente come tutela della biodiversità coltivata, in virtù dell’esistenza del catalogo specifico sulle varietà da conservazione.
Varie pubblicazioni ambientaliste hanno giudicato tale sentenza come una sconfitta delle associazioni volontarie (come la Kokopelli) impegnate nella salvaguardia delle varietà delle piante antiche, considerate l’unica alternativa alle sementi industriali ed agli OGM.
In realtà le sementi tradizionali non sono state messe al bando, così come affermato da un’interpretazione ideologica ed estremista della sentenza. Così come previsto dalle direttive sottoposte all’esame della Corte di Giustizia, la commercializzazione delle “varietà antiche”, sia pure a determinate condizioni, è consentita. Con la conseguenza che la biodiversità, tutelata dal Trattato della FAO (l’organizzazione dell’ONU per l’alimentazione e l’agricoltura), cui hanno aderito sia l’Unione europea che gli Stati membri, non è a rischio.
Il Ministero delle Politiche agricole, poche settimane dopo la pubblicazione della sentenza, ha chiarito che quanto disposto dalla Corte di Giustizia, e cioè l’obbligo di iscrizione al registro ufficiale comunitario rappresenta un elemento di garanzia fondamentale, sia per i produttori agricoli che per i consumatori, in quanto un’autorità pubblica garantisce le caratteristiche delle varietà iscritte.
Il Ministero concludeva affermando che non è dunque corretto sostenere che la sentenza della Corte di Giustizia limiti la possibilità di commercializzazione e quindi di coltivazione di varietà tradizionali ed antiche. Così come non è corretto affermare che si debbano sostenere alti costi per ottenere la registrazione di tali varietà nel catalogo comunitario e che occorrano lunghi tempi di attesa per la registrazione.