sabato 27 aprile 2013

UNA CRISI CHE VIENE DA LONTANO

La sera del terzo giorno lo psicodramma è finito. Ma, come ha scritto Lucia Annunziata, la drammatica ed inattesa rielezione di Napolitano, ha sancito il “default” del sistema.
Una intera classe politica si è rivelata impari rispetto alle responsabilità alla stessa affidate e del tutto incapace di scegliere un Presidente della Repubblica con le caratteristiche che si richiedono per ricoprire l’alta carica. Eppure non mancavano, fra i possibili candidati, personalità di statura internazionale, di esperienza politica, di alto livello culturale e di assoluta integrità morale.
Ma questa classe politica imbelle si è trovata unita nel chiedere al quasi nonagenario Napolitano il sacrificio (che a Napolitano deve essere umanamente costato moltissimo) di accettare un nuovo mandato.
Per senso di responsabilità ed attaccamento alle istituzioni, Napolitano ha accettato la rielezione, fatto che non ha precedenti nella storia repubblicana.
L’impotenza del Parlamento ha però, indubbiamente, esaltato il ruolo del Presidente che, d’ora in poi, alla riottosità delle forze politiche, potrà opporre, oltre al suo potere di sciogliere le Camere, anche la possibilità di rassegnare, in ogni momento, le sue dimissioni. E questo Napolitano lo ha fatto chiaramente intendere nel discorso di insediamento. Si conferma, quindi, nel concreto, la tesi già prospettata da alcuni costituzionalisti per cui il ruolo del Presidente, nell’ordinamento costituzionale, possiede una sorta di “vis expansiva” che, nei momenti di crisi ed instabilità politica, esalta la posizione del Presidente quale rappresentante dell’unità nazionale.
Anche se in un contesto drammatico, in cui pareva che, a partire da quello del Partito democratico, i gruppi parlamentari fossero destinati a  disintegrarsi, questa elezione presidenziale si è risolta al sesto scrutinio, in un tempo cioè relativamente breve. Si è rimasti molto lontani dai tempi di alcune elezioni presidenziali del passato. Per l’elezione di Leone nel 1971 occorsero 23 scrutini; 21 ne servirono nel 1964 per eleggere Saragat; sia Pertini nel 1985 che Scalfaro nel 1992 furono eletti al sedicesimo scrutinio; per eleggere Segni, nel 1962, servirono 9 scrutini. Anche nella IV Repubblica francese (che prevedeva un sistema di elezione del Presidente della Repubblica simile al nostro), nel 1953, Rene Coty fu eletto solo al tredicesimo scrutinio.
Tutte queste elezioni, anche se lontane nel tempo, furono traumatiche. All’epoca, tuttavia, le istituzioni repubblicane avevano una solidità che oggi si è perduta.
In questa elezione, poi, i parlamentari ed i rappresentanti regionali hanno mostrato ben poca dignità istituzionale e sono apparsi inconsapevoli del loro ruolo. Vi sono stati voti assolutamente improbabili (basterà citare quelli a Valeria Marini e Rocco Siffredi). Parlamentari e rappresentanti regionali si sono poi fatti beffe della segretezza del voto, rendendo il loro voto riconoscibile e vantandosene davanti alle telecamere, nonché abusando della prassi dell’astensione, giudicata con perplessità da parte della dottrina costituzionalistica.
Quanto è accaduto induce, quindi, ad una riflessione: ci si può chiedere se, in luogo della elezione parlamentare, che così tante volte si è rivelata traumatica, non sarebbe il caso di introdurre l’elezione diretta del Presidente della Repubblica.
Secondo l’opinione corrente, l’elezione diretta è legata all’esistenza di una forma di governo presidenziale (come quella degli Stati Uniti) o semi-presidenziale (come quella della Francia della V Repubblica).
In realtà, la elezione diretta è compatibile con una forma di governo parlamentare come quella esistente in Italia. Nell’ambito dell’Unione europea, solo la Germania e la Grecia hanno una modalità di elezione del Presidente della Repubblica simile a quella del nostro paese. Portogallo, Austria, Irlanda, Finlandia, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, che pure hanno un regime sostanzialmente di tipo parlamentare, eleggono il Presidente della Repubblica con il voto popolare diretto.
Nel corso dei lavori dell’Assemblea Costituente, emerse chiaramente che la forma di governo più adatta alla società italiana era quella parlamentare, nel solco della tradizione liberale prefascista. Solo il piccolo Partito d’Azione, per bocca soprattutto di Piero Calamandrei, si pronunciò per un sistema presidenziale. Alla scelta della forma di governo, fu subordinata quella del metodo di elezione del Capo dello Stato. L’esperienza della repubblica di Weimar condizionò la dottrina costituzionalistica e le scelte dell’Assemblea Costituente. L’esito tragico dell’esperienza weimariana (che si concluse con l’ascesa al potere di Hitler) rendeva assai diffidenti i costituenti nei confronti della forma di governo, introdotta dalla costituzione tedesca del 1919, che prevedeva la doppia legittimazione del Parlamento (eletto con il sistema proporzionale) e del Capo dello Stato (eletto con un sistema che al primo turno prescriveva la maggioranza assoluta dei voti e al secondo turno la maggioranza relativa). Il dualismo insito in quel sistema venne considerato negativamente, almeno fino a quando non fu ripreso dalla Costituzione francese del 1958.
Di conseguenza, l’elezione da parte del Parlamento, sebbene non fosse l’unica possibile, risultava la più coerente con la forma di governo prescelta, mentre l’elezione da parte del popolo veniva considerata incompatibile con il ruolo del Presidente, al quale non si voleva attribuire un potere di governo.
A sessantacinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, la situazione è cambiata. E’ cambiata in Europa, dove lo spettro di Weimar si è dissolto. Ma è cambiata soprattutto in Italia.
Come in Francia la crisi algerina determinò il passaggio, nel volgere di qualche mese, dalla IV alla V Repubblica, così pure nel nostro paese, la crisi politica, che si è progressivamente aggravata negli ultimi decenni, fa sì che la figura del Presidente della Repubblica si stagli sempre di più come la figura centrale nell’equilibrio delle istituzioni, sì da richiedere quella forte legittimazione che gli deriverebbe dall’elezione popolare.
Il cambiamento del sistema di elezione del Presidente della Repubblica e, in prospettiva, la introduzione, sul modello francese, di un regime semi-presidenziale ha sempre suscitato forti diffidenze.
Molti, soprattutto a sinistra, usano ripetere, come un mantra, che la Costituzione italiana è la più bella del mondo. Ma una Costituzione non deve essere “bella”; è sufficiente sia, quanto al sistema di governo, “efficace”, ovvero “funzionale”.
E costoro probabilmente ben poco conoscono della nascita della Costituzione italiana, e del contesto storico in cui avvenne e della sua interpretazione, soprattutto ad opera della giurisprudenza della Corte Costituzionale. E probabilmente ignorano del tutto le altre Costituzioni cui quella italiana si ispirò e quelle con cui oggi può essere confrontata.
La Costituzione non è un feticcio, ma un testo legislativo che va conosciuto e studiato (e, se occorre, modificato con grande parsimonia).
Il modo di elezione del Presidente della Repubblica è, appunto, una delle possibili modifiche a cui pensare.

lunedì 15 aprile 2013

RESTITUIRE LO SCETTRO AL PRINCIPE

Il politologo Gianfranco Pasquino che, in anni lontani, fu anche senatore della Repubblica (ed ebbe quindi modo ci vivere come protagonista all’interno delle istituzioni) scrisse, nel 1985, un saggio sulle riforme istituzionali, dal titolo suggestivo “Restituire lo scettro al principe”.
Il principe è, evidentemente, il popolo sovrano, gli elettori, cui il potere di scelta è stato sottratto dai partiti.
L’usurpazione della sovranità popolare da parte dei partiti è caratteristica del sistema politico italiano, ovvero di quella che si suole chiamare la “costituzione materiale” del nostro paese. Al 1949, infatti, risale il termine “partitocrazia” coniato dal costituzionalista Giuseppe Maranini nella sua prolusione all’Università di Firenze dal titolo “Governo parlamentare e partitocrazia”.
Il fenomeno si è, tuttavia, aggravato a partire dal 2006, quando entrò in vigore l’attuale legge elettorale per la Camera ed il Senato, la Legge 29 dicembre 2005 n. 270, comunemente conosciuta con la definizione di “porcellum”, frutto della fantasia del politologo Giovanni Sartori.
Il “porcellum” non ha mai goduto di buona stampa ed è sempre stato sottoposto a feroci critiche sia da parte di giuristi che di politologi. Ma non si è mai riusciti ad eliminarlo, in quanto del tutto funzionale agli interessi, sovente inconfessabili, delle forze politiche e dei loro ristretti gruppi dirigenti.
Due furono i tentativi di modificare il “porcellum” attraverso lo strumento del referendum. Nel 2009, grazie anche all’ostilità di tutti i partiti, un referendum inteso a cancellare alcune parti della legge, per modificarne il significato, non raggiunse il quorum.
Due successive richieste di referendum che miravano alla abolizione integrale della legge (per far rivivere la legge precedente) furono dichiarate inammissibili dalla Corte Costituzionale, con la sentenza 12 gennaio 2012 n. 13, in quanto i quesiti referendari avrebbero lasciato una situazione di vuoto legislativo qualora approvati dal voto.
I difetti del “porcellum” si sono fatti ancor più evidenti dopo l’esito delle elezioni del 24 e 25 febbraio 2013.
Oltre ai difetti che derivano dall’impossibilità, per l’elettore, di esprimere, in qualsiasi forma, la sua scelta per un candidato, sono emersi, in modo prepotente, i limiti del premio di maggioranza, previsto dalla legge (si dice, da parte dei teorici della partitocrazia, per garantire la governabilità). Di fronte a tre schieramenti non dissimili quanto a forza numerica, al Senato il premio non ha funzionato. I premi, calcolati per regione, si sono, infatti, neutralizzati a vicenda.
Alla Camera, invece, la coalizione risultata maggioritaria, con circa il trenta per cento dei voti, ha ottenuto 340 seggi, e cioè quasi il doppio di quali che avrebbe potuto conseguire secondo un riparto proporzionale.
In altri termini, il voto degli elettori della coalizione vincente ha avuto l’effetto di valere per due, mentre il voto attribuito a tutte le altre forze politiche valeva solo uno.
Ciò appare stridere in modo palese con il dettato dell’articolo 48 della Costituzione che prevede, fra l’altro, come il voto debba essere “eguale”.
Secondo la dottrina costituzionalistica, il principio di eguaglianza del voto deve essere rigorosamente rispettato “in entrata”, con la conseguenza dell’assoluto divieto di ogni forma di voto plurimo o multiplo (pur presente in passato nei sistemi elettorali di altri paesi). Non altrettanto rigida deve essere l’eguaglianza del voto “in uscita”, ovvero nel processo di trasformazione dei voti in seggi. La Corte Costituzionale (nella sentenza 11 luglio 1961 n. 43) ha chiarito che il principio di eguaglianza del voto non si estende al risultato concreto della manifestazione di volontà dell’elettore.
Detto risultato “dipende, invece, esclusivamente dal sistema elettorale che il legislatore ordinario, non avendo la Costituzione disposto al riguardo, ha adottato per le elezioni politiche e amministrative, in relazione alle mutevoli esigenze che si ricollegano alle consultazioni popolari”.
Nella Costituzione, infatti, non è espresso il principio proporzionalistico, anche se tale principio può intuirsi come sotteso a varie disposizioni costituzionali.
La possibilità di introdurre una disciplina elettorale maggioritaria trova però un limite nel principio di ragionevolezza. E’, in particolare, problematica, sotto il principio della legittimità costituzionale, una legislazione, come quella prevista per la Camera dei Deputati, che non subordina l’attribuzione del premio di maggioranza al raggiungimento di una soglia minima di voti o di seggi. Dubbi in questo senso sono stati espressi dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 15, 16, 17 del 30 gennaio 2008 (relative ai referendum del 2009) ed, ancora, dal Presidente della Corte Costituzionale Franco Gallo nella sua relazione annuale sull’attività del giudice delle leggi tenuta il giorno 12 aprile 2013.
L’irragionevolezza della disciplina prevista dal “porcellum” trova conferma nel fatto che due famose leggi maggioritarie del passato, pur avendo suscitato, a suo tempo, polemiche roventi, prevedevano, per l’applicazione del premio di maggioranza, il raggiungimento di una soglia minima di voti. Si tratta della Legge “Acerbo” (Legge 18 novembre 1923, n. 2444, voluta da Mussolini per assicurare ai fascisti una solida maggioranza) e della legge “truffa” (Legge 31 marzo 1953, n. 148, contro la cui approvazione i comunisti condussero un’epica battaglia, e che poi non fu applicata, per il mancato raggiungimento della soglia prevista, che era allora del cinquanta per cento).
Il meccanismo previsto dall’ordinamento per la proposizione delle questioni di legittimità costituzionale (di cui già ho parlato in un articolo pubblicato mesi fa su questo sito “La Corte Costituzionale voce viva della Costituzione”) rende assai difficile che il “porcellum” possa essere sottoposto al giudizio della Corte Costituzionale.
La responsabilità di “restituire lo scettro al principe”, eliminando il “porcellum” dall’ordinamento, compete, in conclusione, al Parlamento. La riforma elettorale deve contribuire a togliere ai partiti, per restituirlo agli elettori, quel che essi hanno tolto allo Stato e alla società, trasformando il sistema proporzionale in partitocrazia.
Ma non so se, anche sotto la spinta della grave crisi morale, sociale, economica e politica del paese, le forze politiche avranno il coraggio di compiere le scelte che pure, da parte di molti, si ritengono non più dilazionabili.
Come si suol dire, non si può pretendere che il tacchino festeggi il Natale.