mercoledì 13 aprile 2011

ALFANO E IL RASOIO DI OCCAM

Guglielmo di Occam è un filosofo inglese del XIV secolo, alla cui figura Umberto Eco si ispirò nel delineare il personaggio di Guglielmo da Baskerville, il protagonista del suo romanzo “Il nome della rosa”.
Guglielmo di Occam è conosciuto per il principio metodologico noto come “rasoio di Occam”. Tale principio, che è alla base del pensiero scientifico moderno, nella sua forma più immediata suggerisce l’inutilità di formulare più assunti di quelli che si siano trovati per spiegare un dato fenomeno: il rasoio di Occam impone, cioè, di evitare ipotesi aggiuntive, quando quelle iniziali sono sufficienti.
La metafora del rasoio suggerisce l’idea che sia opportuno eliminare con tagli di lama e mediante approssimazioni successive le ipotesi più complicate. Il principio si suole sintetizzare nella formula latina “entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”, vale a dire che gli elementi non devono essere moltiplicati più del necessario.
Il principio del rasoio di Occam mi è tornato alla mente nelle scorse settimane, di fronte alla proposta di riforma costituzionale, definita “epocale”, della giustizia, presentata dal Ministro Alfano, che, quanto al Consiglio Superiore della Magistratura, prevede la suddivisione dello stesso in tre distinti organismi, il Consiglio Superiore della magistratura giudicante, il Consiglio Superiore della magistratura requirente, la Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente.
Alla base di questa tripartizione di organismi vi è, evidentemente, il principio fissato dell’articolo 5 della proposta di riforma (che andrebbe a sostituire l’articolo 104 della Costituzione vigente), secondo il quale “la legge assicura la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri”. Oggi invece, ed ormai da qualche anno, esiste (prevista dalla legge sull’ordinamento giudiziario) una rigida separazione tra le funzioni di giudice e di pubblico ministero, tanto è vero che, ormai da qualche anno, il passaggio fra le due carriere è divenuto assolutamente eccezionale, come ben sa chiunque si occupi di vicende giudiziarie.
Le ragioni per cui, nell’ambito della giustizia penale, è opportuno che le funzioni di giudice e di pubblico ministero siano nettamente distinte, sono intuitive. Tuttavia chi, portando alle estreme conseguenze l’opportunità di una distinzione di funzioni, vorrebbe separare le carriere, con una disposizione contenuta nella stessa Costituzione, mi pare sottovaluti, proprio nell’ottica garantista in cui si muove, il rischio di avere, nei magistrati del pubblico ministero, una sorta di superpoliziotti, con mezzi pressoché illimitati a disposizione e totalmente privi, per non averla mai avuta, di quella “cultura della giurisdizione” che oggi accomuna giudici e pubblici ministeri.
Al di là della distinzione delle funzioni o della separazione delle carriere, la caratteristica essenziale che i magistrati debbono avere è data dall’autonomia e dall’indipendenza, che devono essere proprie sia dei giudici che dei pubblici ministeri. Non a caso il primo comma dell’articolo 104 della Costituzione del 1948 afferma espressamente che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”.
Si afferma in dottrina che l’indipendenza non riguarda esclusivamente i singoli giudici e pubblici ministri, ma è una qualità che caratterizza la magistratura nel suo complesso. A garanzia dell’autonomia e indipendenza, la Costituzione ha previsto un organo, il Consiglio Superiore della Magistratura, cui la Costituzione stessa (articolo 104, secondo comma) affida, in quanto potenzialmente pericolose per l’indipendenza, tutte le funzioni attinenti allo stato giuridico dei magistrati (giudici e pubblici ministeri), un tempo di competenza del Ministro della Giustizia.
Se autonomia ed indipendenza sono i valori che debbono essere garantiti per tutti i magistrati, non si capisce la ragione per cui le funzioni attualmente svolte dal Consiglio Superiore debbano essere attribuite a tre organi diversi. Anche se le carriere dovranno essere separate (ed io ho qualche perplessità in proposito), il Consiglio Superiore potrebbe restare unico, sebbene suddiviso in due distinte sezioni, una per i giudici ed una per i pubblici ministeri, con elezioni separate per ciascuna delle due sezioni. Ad una terza sezione, composta da persone diverse rispetto alle prime due, potrebbero poi essere attribuite le funzioni disciplinari che, invece, il progetto di riforma intenderebbe conferire ad una Corte disciplinare nuova di zecca. La stranezza della soluzione progettata, poi, è che, di fronte a due distinti Consigli Superiori, vi sarebbe un’unica Corte di disciplina, comune a giudici e pubblici ministeri.
Resta da dire della composizione degli organismi previsti dalla riforma: la proporzione fra i componenti togati ed i componenti laici del C.S.M., attualmente fissata in due terzi per i togati ed un terzo per i laici, diverrebbe paritaria (cinquanta per cento per ciascuna componente).
Anche questo mutamento, che sembrerebbe secondario, mi induce talune perplessità. Il sistema attuale, infatti, intende evitare che attraverso l’esercizio di poteri che incidono sullo status dei magistrati si possa ledere la loro indipendenza; nello stesso tempo, si vuole impedire che l’ordine giudiziario perda qualsiasi legame con gli altri poteri dello Stato.
Riassuntivamente, non mi pare che una riforma delle norme costituzionali in materia di Consiglio Superiore della Magistratura sia particolarmente necessaria ed urgente. Piuttosto sarebbe opportuno introdurre modificazioni alla Legge 24 marzo 1958 n. 195, che contiene le norme sull’elezione ed il funzionamento del Consiglio Superiore.
Ritorna, quindi, il principio del rasoio di Occam, secondo cui, fra l’altro, “frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora”, è inutile, cioè, fare con più ciò che si può fare con meno.

(pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di aprile 2011)

mercoledì 6 aprile 2011

L’AVVOCATURA ALLA RICERCA DI SE’ STESSA

Qualche settimana fa, su queste stesse colonne, Gianfranco Taglietti, con l’abilità che tutti gli riconoscono, ha tratteggiato, nel cinquantesimo anniversario della morte, la figura dell’avvocato Mario Stradivari, caratteristico personaggio della vecchia Cremona. Nonostante abbia alle spalle quasi quarantadue anni di avvocatura, io non ho avuto modo di conoscere l’avvocato Stradivari. Ne ho, tuttavia, molto sentito parlare, poiché, quando iniziavo la professione, la sua figura era ancora ricordata nelle aule di Palazzo Persichelli e la sua voce tonante ancora, per così dire, riecheggiava nei corridoi. L’avvocato Stradivari fu uno degli ultimi epigoni di un’avvocatura ormai consegnata alla storia. Sino alla metà del secolo XX, l’avvocato era, più che un tecnico del diritto, un umanista. Le ore che trascorreva in ufficio erano, rispetto alle abitudini di oggi, relativamente poche e l’avvocato, oltre che i codici e le pandette, amava leggere i classici, dilettarsi di musica e di teatro. Per l’avvocato, era altresì un vanto occuparsi della cosa pubblica; prima della grande guerra nelle amministrazioni locali era cospicua la presenza di avvocati. Il XX secolo ha visto, tuttavia, in molteplici campi dell’attività umana, l’affermarsi progressivo della tecnica e della specializzazione (La politica e la tecnica come professione di Max Weber risale al 1919). L’avvocato, di fronte ad una società sempre più complessa, ha dovuto di necessità affinare la propria preparazione giuridica, dovendo diventare, anche per poter continuare ad esercitare la sua funzione di mediatore sociale, sempre più tecnico del diritto. Gli autori ai quali oggi un avvocato di buona cultura deve fare riferimento non sono più Virgilio, Catullo ed Orazio, come ai tempi dell’avvocato Stradivari e delle generazioni che l’hanno preceduto, ma Galgano, Zagrebelsky, Santoro Passarelli o Rosario Nicolò. Una vera mutazione genetica, dunque. Nel frattempo, ci si è avveduti che la preparazione fornita dall’Università, anche se più approfondita di un tempo (il corso di laurea in giurisprudenza è passato da quattro a cinque anni), non è certo sufficiente per l’intero arco della vita professionale di un avvocato. Altre professioni hanno affrontato di petto la questione. I medici, ad esempio, hanno ormai più che valide scuole di specializzazione, a carattere teorico-pratico, e gli specializzandi che le frequentano sono (giustamente) retribuiti. E’ ben vero che la salute, di cui i medici devono occuparsi, è un valore essenziale, ma è altrettanto vero che la libertà personale non è un valore meno importante. Nel sostanziale disinteresse del legislatore (che si è limitato ad istituire le Scuole di specializzazione per le professioni legali, che, tuttavia, preparano all’accesso alla professione e non si curano dell’aggiornamento permanente dei professionisti), la categoria degli avvocati ha dovuto occuparsi da sola del proprio aggiornamento. Avrebbe potuto (e sarebbe stata la soluzione più semplice) affidarsi al mercato: l’avvocato ha la necessità di tenersi aggiornato e deve provvedere da sé a migliorare la propria cultura giuridica, leggendo libri e riviste e frequentando seminari, convegni e corsi post-universitari. Se non lo fa, sarà meno competitivo nel suo lavoro e lavorerà meno bene e con più difficoltà. Invece il Consiglio Nazionale Forense, l’organismo posto al vertice del sistema degli Ordini professionali (sulla cui rappresentatività sarebbero da avanzare non poche riserve) ha elaborato, considerando l’aggiornamento un obbligo deontologico su cui gli Ordini hanno il compito di vigilare, un complesso sistema di crediti formativi, che devono essere acquisiti dall’avvocato nel corso di un triennio. Non ho certo la pretesa di spiegare il funzionamento del sistema messo in piedi dagli Ordini che, almeno sino ad oggi, si è rivelato essenzialmente un modo per garantire un pubblico anche ad iniziative di infimo valore e di ben scarsa valenza culturale. In buona sostanza: tutti si sono messi ad organizzare seminari e corsi di lezioni, sovente a pagamento, che gli avvocati si vedono costretti a frequentare, pur di riuscire ad accumulare i crediti che hanno l’obbligo di conseguire nel triennio. Risultato: ore ed ore vengono sottratte al lavoro, mentre gli abissi di ignoranza, se esistono (e talora esistono), permangono inalterati. Gli Ordini, poi, trattano gli avvocati come asini, alternando il bastone alla carota. Basteranno due esempi, tratti da quella miniera di informazioni che ormai è internet. L’Ordine di Bergamo ha organizzato una proiezione del celebre film Kramer vs Kramer, cui è seguito un dibattito. Un cineforum di periferia, quindi, cui però vengono attribuiti tre crediti formativi. L’Ordine di Reggio Emilia, invece, ha organizzato, in occasione della manifestazione degli avvocati a Roma contro la recente legge sulla mediazione obbligatoria nelle cause civili, una trasferta a Roma in pullman, con l’attribuzione ai partecipanti di ben otto crediti formativi. Lascio ai lettori di immaginare quali saranno stati i vantaggi, sotto il profilo della preparazione giuridica, della partecipazione ad un cineforum e ad un viaggio (o dovremmo definirlo una gita?) a Roma. Ma la trepidante solerzia con cui il Consiglio Nazionale Forense si occupa della formazione culturale degli avvocati non finisce qui. Il prossimo 1 luglio entrerà in vigore il Regolamento (emanato non si sa in base a quale norma di legge), in forza del quale il Consiglio Nazionale Forense potrà attribuire, agli avvocati che supereranno una sorta di percorso di guerra, congegnato sulla frequenza di corsi a pagamento, il titolo di specialista in un determinato ramo del diritto. Non starò a soffermarmi sui complessi dettagli di tale regolamentazione. Mi limito ad osservare che non si comprende quale particolare competenza abbia il Consiglio Nazionale Forense per rilasciare, al posto dell’Università, dei titoli di specializzazione. Ovviamente, gli avvocati che conseguiranno il titolo non saranno particolarmente più specializzati di coloro che ne saranno privi. Ma intanto si onerano gli avvocati che intendono svolgere con serietà il loro lavoro, ed essere apprezzati come tali, delle spese per la frequenza dei corsi e del tempo necessario per seguire i corsi stessi e preparare relazioni ed esami. Queste novità si inseriscono in un momento non facile per la professione forense: la crisi economica ha inciso pesantemente, come è stato riferito da diversi quotidiani, sul lavoro degli studi legali, già condizionato negativamente da recenti leggi che hanno ridotto il lavoro e ancor più lo ridurranno in futuro (il D.Lgs. 7 settembre 2005 n. 209 denominato Codice delle assicurazioni e il D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28 sulla mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, di cui, in una prossima occasione, converrà parlare particolareggiatamente). A fronte di ciò, la nomenklatura che oggi governa l’avvocatura dà la sensazione di essere solo una casta autoreferenziale che mira a perpetuare sé stessa. Certo qualcosa di molto meno efficace della Associazione Nazionale Magistrati, che ha sempre e concretamente esaltato il ruolo, anche sociale, dei propri aderenti. (pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di aprile 2011)