venerdì 16 dicembre 2011

UN OSCURO TESTO E UNA ANCOR PIU’ OSCURA GLOSSA

I giuristi medioevali solevano ripetere “a chiaro testo non fare oscura glossa”, volendo affermare il principio per cui quando una norma giuridica è chiara, non sono necessari sforzi interpretativi particolarmente impegnativi per applicarla.
Questo antico brocardo mi è tornato più volte alla mente riflettendo sulla recente vicenda della nomina, da parte del Sindaco di Cremona, del Presidente dell’A.E.M., nomina impugnata davanti al T.A.R. per la Lombardia, ma confermata dallo stesso Tribunale.
Infatti la norma regolamentare di cui il Sindaco ha fatto applicazione non è certo chiara, ma suscita dubbi anche la sentenza del T.A.R. che ha risolto definitivamente la questione (sempre che non venga interposto appello al Consiglio di Stato).
Ricapitolerò rapidamente i punti essenziali della vicenda.
L’articolo 50, comma 8, del D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267 (T.U. sull’ordinamento degli enti locali) stabilisce che “sulla base degli indirizzi stabiliti dal Consiglio il Sindaco e il Presidente della Provincia provvedono alla nomina, alla designazione e alla revoca dei rappresentanti del Comune e della Provincia presso enti, aziende ed istituzioni”.
Il Consiglio comunale di Cremona, nel fissare tali indirizzi, ha stabilito il seguente principio: “A far tempo dalla prima data di adozione dei presenti Indirizzi, non possono, comunque, essere nominati o designati coloro che abbiano già avuto nomine o designazioni da parte del Sindaco nel medesimo organismo, anche con incarichi diversi, per due mandati amministrativi consecutivi, o comunque, per un tempo superiore al doppio della prevista durata della carica nell’Ente, Azienda, Fondazione o Istituzione cui si riferisce la nomina o la designazione”.
Il problema sta tutto nell’interpretazione di questa norma. Ad un primo sommario esame, verrebbe da dire che, così come il Sindaco non può essere eletto per più di due mandati consecutivi (art. 51, comma 2, del T.U.), egualmente un rappresentante del Comune non può essere nominato, nel medesimo organismo, per più di due mandati consecutivi. L’inciso finale parrebbe voler significare che, se anche vi è stata una sola nomina, se il rappresentante, per qualsiasi ragione, è rimasto in carica più del doppio del periodo previsto, non può più essere nominato.
Il Sindaco, sulla base di un autorevole parere (mai, credo, reso pubblico), ha ritenuto che, in virtù di questa precisazione contenuta negli indirizzi approvati dal Consiglio comunale, il presidente dell’A.E.M., pure se già nominato per due volte, potesse essere nominato per una terza, non avendo ricoperto la carica per il doppio del tempo previsto per il mandato.
Un’altra persona che, con le modalità previste dagli indirizzi del Consiglio comunale, era stata candidata a ricoprire il medesimo ruolo, impugnava davanti al T.A.R. il provvedimento del Sindaco, avendo a ciò un interesse personale e diretto.
Al Giudice amministrativo veniva richiesta, in via cautelare, la sospensione dell’atto impugnato.
In sede di discussione della domanda cautelare, il T.A.R., facendo applicazione di una norma introdotta dal recente codice del processo amministrativo (articolo 60) ha definito immediatamente la questione, emettendo una sentenza in forma semplificata.
Ciò smentisce, prima di tutto, il luogo comune delle lungaggini della giustizia amministrativa la quale, invece, per le questioni di puro diritto che non richiedono particolare istruttoria, sa essere eccezionalmente rapida ed efficace.
La sentenza (che è liberamente consultabile da tutti sul sito internet della giustizia amministrativa) non appare, tuttavia, a mio modestissimo avviso, del tutto convincente.
Afferma, in primo luogo, che gli indirizzi approvati dal Consiglio comunale non si applicherebbero nella fattispecie, in quanto riguarderebbero gli enti, e non già l’A.E.M. che ormai è stata trasformata in una società per azioni.
La sentenza considera quindi che il termine “enti” debba essere inteso come “enti pubblici”, trascurando di valutare che l’espressione “ente” è generica e può quindi riferirsi a qualsiasi persona giuridica e che gli stessi indirizzi, nella rubrica, equiparano le società agli altri enti.
Peraltro la giurisprudenza (si veda, da ultimo, T.A.R. Puglia, Lecce, 24 febbraio 2010, n. 622) afferma che l’articolo 50 del T.U., in materia di nomine del Sindaco, trova applicazione anche per le società strumentali dell’ente locale, come l’A.E.M. certamente è.
Ancora meno convincente è la parte della sentenza che riguarda il limite temporale della nomina: “che infatti l’elemento ostativo è individuato alternativamente nei due mandati amministrativi consecutivi (riferiti al Sindaco e quindi ordinariamente 5 + 5 anni) e nel lasso temporale che supera il doppio della durata statutariamente prevista (e quindi oltre i 4 anni per le nomine biennali ed oltre i 6 per le nomine triennali);
- che questa formulazione permette a coloro che rientrano nel limite temporale di ricoprire la carica per il tempo previsto nell’atto di nomina, salvo l’ulteriore vincolo dei due mandati consecutivi”.
Questa motivazione non convince per un duplice ordine di ragioni. Prima di tutto perché i due mandati consecutivi, secondo gli indirizzi approvati dal Consiglio comunale, apparirebbero riferirsi non al Sindaco ma al rappresentante nominato dal Sindaco. Secondariamente perché, in ogni caso, come dice la stessa sentenza, il limite temporale deve arrestarsi di fronte al vincolo dei due mandati consecutivi (affermazione che – secondo logica - avrebbe dovuto condurre all’accoglimento e non già al rigetto del ricorso).Quale morale trarre da questa vicenda? E’ presto detto. Quando si scrive una norma sarebbe necessario avere chiari in mente gli obiettivi che si vogliono raggiungere e poi far scrivere la norma stessa da chi abbia conoscenza del diritto (e della lingua italiana).


(aricolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di dicembre 2011)

ROMA CAPITALE O MONZA CAPITALE?

L’aggravarsi della crisi finanziaria e la crisi politica che ne è derivata hanno fatto dimenticare le polemiche di qualche mese fa sull’apertura, nella Villa Reale di Monza, di sedi decentrate di taluni ministeri (Riforme per il federalismo, Semplificazione normativa, Turismo, Economia e finanze).
Pomposamente si è parlato di apertura dei ministeri al nord, anche se, più semplicemente, si è trattato della istituzione di “sedi distaccate di rappresentanza operativa” (secondo le parole dei decreti istitutivi).
Che Roma sia la capitale d’Italia è fuor di dubbio e non credo che, dal 1870, nessuno l’abbia mai messo in discussione. Roma fu proclamata capitale dall’articolo 1 della Legge 3 febbraio 1871 n. 33 e, secondo l’articolo 2 di detta legge, in Roma ha sede il Governo.
Con la recente modifica del Titolo V della Costituzione, che risale al 2001, il ruolo di Roma come capitale della Repubblica è stato costituzionalizzato.
L’articolo 114, ultimo comma, dispone, infatti, che “Roma è la capitale della Repubblica. La legge dello Stato disciplina il suo ordinamento”.
E’ appena il caso di ricordare che le capitali hanno giocato un ruolo di enorme rilievo nella realtà così come nell’immaginario dell’età moderna. La capitale è stata il simbolo del potere e del prestigio nazionale, la visualizzazione del principio dell’unità dello Stato, il fulcro di complessi apparati politici e di imponenti macchine amministrative. La periferia, la provincia, le altre città hanno talvolta vissuto con disagio il ruolo delle capitali, soprattutto quando, ed è il caso italiano, queste altre città possedevano un’eredità storica e culturale di primo piano o addirittura si presentavano come più convincenti incarnazioni dei processi di modernizzazione.
Come reazione all’accentramento di una molteplicità di funzioni nella capitale dello Stato nazionale, si è posta in modo concreto la necessità di trasferire in altre città parti anche considerevoli delle attività dello Stato centrale.
In Germania, dopo l’unificazione, pur essendo comparsa sulla scena una capitale dai forti connotati simbolici come Berlino, è stata mantenuta una linea di pluralismo.
La sede della Corte costituzionale è restata a Karlsruhe, la Banca centrale a Francoforte, il polo radiotelevisivo a Monaco, e Bonn ha conservato interi dicasteri, così da mantenere il 55 per cento dei posti di lavoro nelle amministrazioni centrali. Accanto alle istituzioni parlamentari, dunque, solo una minoranza delle funzioni governative è migrata verso Berlino.
Anche l’Unione europea ha una struttura policentrica. La Commissione e il Consiglio dei Ministri hanno sede a Bruxelles; il Parlamento si divide fra Strasburgo, Lussemburgo e Bruxelles, la Corte di Giustizia è a Lussemburgo, mentre la Banca centrale europea ha la sua sede a Francoforte.
Per l’Italia si è parlato, più fra gli studiosi che fra i politici, della necessità di costituire una capitale reticolare, intesa come il riequilibrio del sistema urbano nazionale nel suo complesso, con il conseguente rafforzamento di dodici-quindici città italiane nella prospettiva di rispondere adeguatamente alla competizione economica europea.
Merita di essere ricordato, a questo proposito, uno studio della Fondazione Giovanni Agnelli, che risale al 1993, che contiene anche un interessante saggio del costituzionalista Gustavo Zagrebelsky.
Questi ha proposto per l’organizzazione pubblica una struttura “ad arcipelago”, piuttosto che “a piramide”. Ciò consiste nella diffusione delle strutture governanti in più centri localizzati diversamente, “disseminati” in modo che tra di essi non vi siano più rapporti gerarchici, ma semmai rapporti di pari ordinazione e coordinazione.
La scelta di aprire uffici ministeriali a Monza sembrerebbe, ad un primo esame, coerente con questa impostazione.
In realtà non è così, perché tali uffici sono solo uffici di rappresentanza decentrati, atti ad eventualmente favorire i rapporti con i poteri locali. Qualcosa di assimilabile, quindi, agli uffici di rappresentanza che le Regioni hanno a Roma o a Bruxelles, presso la Commissione europea.
Per di più l’operatività di questi uffici (che pare non abbiano mai iniziato a funzionare) è stata sospesa da un decreto del Giudice del Lavoro presso il Tribunale di Roma in data 19 ottobre 2011.
Infatti due sindacati autonomi dei dipendenti della Presidenza del Consiglio, non essendo stata ottemperata, da parte della stessa Presidenza, la richiesta di consultazione delle organizzazioni sindacali sul processo di riorganizzazione collegato all’apertura delle sedi decentrate, avevano presentato un ricorso per repressione di condotta antisindacale, ai sensi dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori.
Il Giudice del Lavoro ha dichiarato “l’antisindacalità della condotta tenuta dalla presidenza del Consiglio dei ministri, consistente nell’istituzione di sedi periferiche della struttura di missione di supporto al Ministro per la Semplificazione normativa e del Dipartimento per le Riforme istituzionali, a mezzo del decreto ministeriale per le riforme per il federalismo, entrambi emanati in data 7.6.2011, omettendo l’informativa preventiva e conseguentemente impedendo la concertazione con le organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative del relativo comparto”. Pertanto, a seguito di questo comportamento, il Giudice del Lavoro ha ordinato “all’amministrazione resistente di desistere dal comportamento antisindacale e di rimuoverne gli effetti”.
Nel frattempo, per effetto della crisi finanziaria, il clima politico è cambiato. Si può pensare che gli uffici di Monza verranno abbandonati, che le ragnatele vi si accumuleranno e che la polvere offuscherà le lucide targhe di ottone, in attesa di tempi migliori.
E’ il destino della Villa Reale di Monza da quando, nel 1900, fu teatro dell’assassinio di Umberto I.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di novembre 2011)

1.200.000 FIRME PER IL REFERENDUM. MA SERVIRANNO?

Nel mese di settembre, con una attività frenetica che ha trovato pronta rispondenza in una opinione pubblica sempre più suggestionata dall’antipolitica, sono state raccolte più di 1.200.000 firme sulle due richieste di referendum abrogativo della Legge 21 dicembre 2005 n. 270.
Si tratta della vigente legge elettorale, ormai universalmente conosciuta come “porcellum”. I difetti di tale legge sono ben noti. In primo luogo la soppressione dei collegi uninominali e la mancata previsione del voto di preferenza ha tolto all’elettore qualsiasi possibilità di scegliere i suoi rappresentanti ed ha eliminato ogni legame politico del parlamentare con il territorio. Deputati e senatori sono nominati dai vertici dei partiti, in quanto vengono eletti solamente in virtù dell’ordine in cui sono posizionati nelle liste, ordine che è deciso dai partiti. Inoltre, il premio di maggioranza, così come previsto per la Camera dei Deputati, dà una palese sovrarappresentazione alla coalizione vincente; di contro, il premio di maggioranza previsto per il Senato, strutturato su base regionale, non funziona, in quanto i vari premi regionali si neutralizzano a vicenda. Di conseguenza non può con sicurezza essere garantita una chiara maggioranza nell’ambito dell’assemblea.
Si tratta di una legge sconclusionata, che non piace a nessuno, tranne che ai capipartito, che vedono esaltato e dilatato a dismisura il loro potere. Non a caso il suo stesso ideatore, il ministro Calderoli, ebbe a definire questa legge una “porcata”.
La legge è anche, almeno in parte, responsabile del discredito che, negli ultimi anni, ha colpito la politica e le istituzioni e che ha pochi eguali nei paesi dell’Unione europea.
Il numero dei sottoscrittori delle due richieste di referendum credo abbia ben pochi precedenti ed è tanto più significativo se si pensa al periodo brevissimo, ed ancora a ridosso della stagione estiva, in cui le firme sono state raccolte.
Ma ciò non garantisce affatto che il referendum si possa svolgere.
Il referendum è disciplinato dall’articolo 75 della Costituzione. Esso ha carattere abrogativo ed è escluso “per le leggi tributarie e di bilancio, di amnistia e di indulto, di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.
L’articolo 75 prevede la possibilità di sottoporre al corpo elettorale, la richiesta di referendum abrogativo, totale o parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge (un decreto legge o un decreto legislativo). Il referendum è volto, quindi, a privare di efficacia un atto normativo.
Potendo il referendum essere anche parziale, nella prassi, si sono talora avuti quesiti referendari che, attraverso l’abrogazione di singole parole o di singole frasi arrivavano a mutare radicalmente il significato di una o più norme. Il referendum, quindi, nato come abrogativo, si è talora trasformato in manipolativo ed ha sostanzialmente proposto all’esame ed alla approvazione degli elettori una norma che disciplinava in modo diverso un determinato istituto.
L’articolo 2 della Legge costituzionale 11 marzo 1953 n. 1 prevede che compete alla Corte costituzionale “giudicare se le richieste di referendum abrogativo presentate a norma dell’art. 75 della Costituzione siano ammissibili ai sensi del secondo comma dell’articolo stesso”.
In altri termini, non basta che, su un quesito referendario, si raccolgano le firme in numero sufficiente; occorre anche che il quesito sia dichiarato ammissibile dalla Corte costituzionale. Di tale competenza, non prevista dall’articolo 134 della Costituzione ed introdotta nel 1953 con legge costituzionale, la Corte ha fatto un uso tale da modellare l’istituto referendario in modo assai innovativo. Si è ritenuto che ci si trovasse di fronte ad una sorta di integrazione della Costituzione.
Con la sentenza 7 febbraio 1978 n. 16, la Corte, infatti, abbandonò l’interpretazione letterale dell’articolo 2 della Legge costituzionale 11 marzo 1953 n. 1 per aprire, di fronte al moltiplicarsi delle richieste referendarie, ad una interpretazione sistematica dell’ammissibilità, che orienterà tutta la sua giurisprudenza successiva.
Secondo la Corte, l’elenco di cause di inammissibilità del referendum, previsto dall’articolo 75, non è rigorosamente tassativo, ma presuppone una serie di cause di inammissibilità inespresse, ricavabili dall’intero ordinamento costituzionale del referendum abrogativo.
Particolarmente significative, sotto il profilo dell’ammissibilità delle richieste, sono le sentenze in materia elettorale (complessivamente tredici fra il 1991 e il 2008).
La Corte, riconducendo le leggi elettorali nella categoria delle leggi costituzionalmente obbligatorie, ha consentito di assoggettare a referendum abrogativo parziale (si veda, ad esempio, la sentenza 10 febbraio 1997 n. 26) anche le norme sull’elezione degli organi costituzionali o di rilevanza costituzionale, alla condizione che restasse in vigore una normativa complessivamente idonea a garantire il rinnovo, in qualsiasi momento, dell’organo rappresentativo.
In conclusione, anche se la Corte ha ritenuto ammissibili, in materia elettorale, referendum fortemente manipolativi, capaci di modificare, attraverso l’abrogazione di singole parole, il significato complessivo della disposizione, resta il vincolo della necessità della sopravvivenza, dopo che sia stata utilizzata la tecnica del ritaglio, di una normativa di risulta in grado di essere applicata senza interventi integrativi da parte del legislatore.
Facendo applicazione di tali principi (per i quali si è parlato di una “dottrina” della Corte Costituzionale in materia di referendum elettorali) le due richieste di referendum dovrebbero essere ritenute inammissibili. Consapevoli di tale rischio, i promotori del referendum, tra i quali si annoverano illustri costituzionalisti, sostengono la tesi della reviviscenza delle precedenti leggi elettorali (quelle che, nel loro insieme, furono definite “mattarellum”, dal nome del suo ideatore, è cioè le Leggi 4 agosto 1993 n. 276 e n. 277).
Dottrina e giurisprudenza, tuttavia, non sembrano riconoscere in modo generalizzato il fenomeno della reviviscenza, ritenendo che l’abrogazione di una norma abrogativa non provochi automaticamente il ripristino delle precedenti norme già abrogate, salvo espressa previsione ad opera dello stesso legislatore, sulla base del principio “abrogata lege abrogante, non reviviscit lex abrogata”.
Ciononostante, il fenomeno della reviviscenza è stato talora riconosciuto dalla giurisprudenza come naturale conseguenza in caso di dichiarazione di incostituzionalità di una norma abrogativa (Cass., 6 agosto 2009, n. 18054; in senso contrario, Cass., 14 ottobre 1988 n. 5599).
Dal canto suo, la Corte costituzionale, nella recentissima sentenza 26 gennaio 2011 n. 24, relativa all’ammissibilità del quesito referendario sulla privatizzazione dei servizi pubblici locali a rilevanza economica (il referendum sull’acqua, tanto per intenderci), ha affermato che, dalla abrogazione dell’articolo 23 bis del D.L. 25 giugno 2008 n . 112, sottoposto a referendum, non sarebbe conseguita “alcuna reviviscenza delle norme abrogate da tale articolo”.
La legge “mattarellum”, già utilizzata nelle elezioni del 1994, 1996 e 2001 è certamente migliore del “porcellum”: consente agli elettori la possibilità di scelta e, unendo il carattere maggioritario insito nel sistema dei collegi uninominali al recupero proporzionale per una quota ridotta del 25 per cento, sembra sufficientemente adatta al sistema politico italiano.
Tuttavia, il cammino per ritornare, attraverso il referendum, a tale sistema elettorale che, pur non perfetto, è certamente più apprezzabile del famigerato “porcellum”, appare decisamente impervio.
Un’ultima considerazione. Come nel 1991 e nel 1993 la strada del referendum, per quanto impervia, appare oggi l’unico strumento in mano ai cittadini per imporre nell’agenda politica il cambiamento dell’attuale legge elettorale, che ha spezzato il rapporto tra elettori ed eletti, sostituendo a questi ultimi un Parlamento di nominati.
Di fronte ad una riforma in pejus come quella costituita dal “porcellum”, sotto il profilo costituzionale il referendum finisce per apparire come l’unico strumento costituzionale utilizzabile dagli elettori, per rivendicare l’effettività della loro sovranità, ripristinando la democraticità del sistema.Alla Corte costituzionale, l’ultima parola.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di ottobre 2011)

giovedì 13 ottobre 2011

MORTE E RISURREZIONE DELLA PROVINCIA

Nel convulso dibattito estivo determinato da una crisi finanziaria devastante quanto inattesa, è parso, ad un certo momento, che i destini del paese fossero legati all’abolizione delle Province.
In effetti, il D.L. 13 agosto 2011 n. 138, emanato dal Governo in un drammatico ferragosto su pressante sollecitazione della Banca centrale europea, prevedeva che fossero soppresse le Province che non rispettassero alcuni precisi limiti dimensionali (di popolazione e di superficie). Nel complesso, avrebbe dovuto essere eliminata una trentina di enti. Alla soppressione di tali Province avrebbe dovuto conseguire la scomparsa degli uffici statali con circoscrizione provinciale (Prefetture e Questure, in primo luogo). Di tutto ciò, tuttavia, non vi è traccia nella legge di conversione del decreto (la Legge 14 settembre 2011, n. 148).
La materia, infatti, in sede di conversione del decreto, è stata stralciata ed ha formato oggetto di un apposito disegno di legge costituzionale, già presentato alle Camere.
Ad un primo esame, la soluzione adottata dal Governo potrebbe apparire corretta. La Provincia è, infatti, un ente previsto dalla Costituzione. L’articolo 114 afferma che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Non è conseguentemente ipotizzabile che la Provincia possa scomparire come ente senza una modifica costituzionale (che – come è noto – richiede un iter lungo e complesso).
Le sorprese, tuttavia, iniziano se si legge il testo del disegno di legge, pudicamente denominato “Soppressione di enti intermedi”.
Il senso della riforma può essere sintetizzato nella celebre frase pronunciata da Tancredi nel Gattopardo, “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Mentre, infatti, l’articolo 1 del disegno di legge espunge dal testo costituzionale le parola “Provincia”, l’articolo 2 introduce la nuova “Provincia regionale”, con una aggiunta all’articolo 117 della Costituzione: “Spetta alla legge regionale, adottata previa intesa con il Consiglio delle autonomie locali di cui all’articolo 123, istituire sull’intero territorio regionale forme associative fra i Comuni per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta nonché definirne gli organi, le funzioni e la legislazione elettorale”.
Io non sono mai stato fra coloro che hanno fatto della soppressione delle Province un leit motiv della politica italiana. Neppure penso che la soppressione delle Province costituisca una terapia d’urto per affrontare la situazione economica. Ho sempre considerato piuttosto la soppressione delle Province come uno slogan sbandierato da quegli editorialisti (fra cui un mio omonimo) che continuano a proporre la misura come panacea di tutti i mali della finanza pubblica.
Il disegno di legge che sopprime le Province, per farle immediatamente risorgere nella forma di province regionali, mi conferma nel convincimento che, non solo per ragioni storiche, la Provincia, a partire dalla Legge 8 giugno 1990 n. 142, che ha trasformato l’assetto dei poteri locali nel nostro paese, è diventata qualcosa di diverso dal passato, quando era un ente che, pur essendo considerata alla stregua dei Comuni, nell’ambito del sistema degli enti locali, aveva in realtà funzioni piuttosto circoscritte e finiva talora per essere sovrapposto o confuso con organi periferici dello Stato, come la Prefettura, operanti in ambito provinciale.
La Provincia, invece, è, e non solo appare, come espressione effettiva di autonomia ed è ente esponenziale di una comunità territoriale.
Come ha scritto un illustre studioso Gian Candido De Martin, “Oggi, invece, la Provincia – rafforzata nelle funzioni istituzionali di carattere generale e ricompresa nell’elenco dei soggetti che costituiscono la Repubblica – è sempre più da considerare come l’espressione istituzionale di una comunità legata ad un territorio di area vasta, destinata a rappresentare uno snodo essenziale rispetto sia ai Comuni che alla Regione. Rispetto ai primi, perché può certamente svolgere a vario titolo una preziosa funzione tanto di supporto quanto di coordinamento, soprattutto dei piccoli Comuni. Nei confronti della Regione, d’altra parte, può essere determinante per affrontare finalmente il problema del decentramento dell’ente regionale, immaginato anche nella Costituzione essenzialmente come soggetto di legislazione, programmazione e coordinamento, più che di amministrazione attiva, e che invece nei fatti ha alimentato la progressiva costruzione di un apparato amministrativo spesso elefantiaco, burocraticamente simile al modello statale, cui si aggiunge una miriade di enti o società strumentali regionali, con una forte propensione all’accentramento e alla considerazione degli enti locali più come soggetti dipendenti, che non dotati di un’autonomia effettiva”.
Altro problema, invece, è quello della riduzione dei costi e su di esso già mi sono soffermato, in passato, su queste stesse colonne. In sostanza, per ottenere una effettiva, pur se limitata, riduzione di costi, gli organi devono essere ridotti all’essenziale, ma ciò non può valere per le sole Province, ma deve riguardare anche Regioni e Comuni. Ed anche lo Stato deve fare la sua parte: l’organizzazione dell’amministrazione periferica statale sul territorio non dovrebbe necessariamente essere sempre fondata sull’ambito provinciale.
Resta il fatto che non si può pensare di “fare cassa” con misure di questo tipo. A parte il tempo che è logicamente necessario perché una complessa riforma istituzionale giunga a compimento, è da rilevare che, se si sopprimono gli enti, non si possono certamente sopprimere né le funzioni né il personale che tali funzioni esplica. La riduzione dei costi (peraltro modesta) si può solo ottenere dalla soppressione o riduzione degli organi. Per raggiungere tale scopo, mi pare fuori luogo una riforma costituzionale, comunque complessa: è sufficiente agire, e lo si può fare rapidamente ed efficacemente, attraverso leggi ordinarie.


(articolo pubblicato sul quotidiano cremonese "La Cronaca" nel settembre 2011)

lunedì 5 settembre 2011

LA LIBERALIZZAZIONE DELL’AVVOCATURA, SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

Nel mezzo del mese di agosto, per far fronte ad una crisi finanziaria devastante, il Governo ha emanato il D.L. 13 agosto 2011 n. 138, avente ad oggetto “ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione e lo sviluppo”.
L’articolo 3 di tale decreto concerne la “abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni a delle attività economiche”.
Nell’imminenza della riunione del Consiglio dei Ministri che avrebbe varato il decreto pareva che il decreto medesimo avrebbe avuto, in ordine alla liberalizzazione delle professioni, effetti dirompenti. Le voci furono raccolte anche da autorevoli organi di stampa, come “Il Sole 24 Ore”, del 13 agosto 2011.
La lettura del testo pubblicato poi sulla Gazzetta Ufficiale ha riservato, invece, più di una delusione. La prima parte dell’articolo 3, infatti, rinvia a future norme (che dovrebbero essere emanate entro un anno) e, nella sostanza, ricorda più il contenuto di una legge delega che quello di un decreto legge.
Che un decreto legge possa avere un siffatto contenuto e, peraltro, vietato dall’articolo 15 della Legge 21 agosto 1988 n. 400 (avente ad oggetto la disciplina dell’attività di Governo), secondo cui i decreti legge devono contenere misure di immediata applicazione e non possono conferire deleghe legislative.
Riguarda più specificatamente le professioni (e, per quanto mi interessa, l’avvocatura) il comma 5 dell’articolo 3. Esso non sembra introdurre sostanziali novità rispetto alla situazione attuale. Le tariffe professionali rimangono come criterio orientativo e restano abolite le tariffe minime, già soppresse dal cosiddetto decreto Bersani (D.L. 4 luglio 2006 n. 223, convertito con modificazioni nella Legge 4 agosto 2006 n. 248).
Anche l’abolizione del divieto di pubblicità per le attività professionali, già contenuto nel decreto Bersani, viene confermato. Sembrerebbe invece abolito (in realtà la norma non ne parla) il potere degli Ordini professionali di sindacare, sotto il profilo deontologico della dignità della professione, la congruità delle tariffe applicate al cliente, nonché le modalità con cui la pubblicità viene effettuata.
Forse non ci si poteva attendere di più, ma il decreto è già una netta inversione di tendenza rispetto agli ultimi orientamenti parlamentari.
Infatti la nuova legge professionale forense, già approvata dal Senato ed attualmente all’esame della Camera dei Deputati, prevederebbe il ristabilimento dei minimi tariffari. Mentre qualche settimana fa, la Camera dei Deputati ha approvato una riforma dell’Ordine dei giornalisti (ordine assolutamente inutile, a mio avviso, non me ne voglia il direttore di questo giornale), che prevede due vere chicche. L’obbligo, per i giornalisti di possedere una laurea, almeno triennale (se fosse stato così in passato, grandi firme come Giorgio Bocca, Ugo Stille e Vittorio Feltri – per tacere di altri – avrebbero fatto un altro mestiere) e l’obbligo, per i pubblicisti, di sostenere un esame (provi il lettore soltanto ad immaginare la Commissione incaricata di esaminare aspiranti pubblicisti come Eugenio Montale ed Umberto Eco).
Il problema delle professioni non è semplice. Fra l’altro la Costituzione, all’articolo 33, comma 5, prevede genericamente un esame di stato “per l’abilitazione all’esercizio professionale”. In proposito, la Corte Costituzionale, nella sentenza 23 luglio 1974 n. 240 ha sottolineato l’esigenza che “un accertamento preventivo, fatto con serie garanzie, assicuri, nell’interesse della collettività e dei committenti, che il professionista abbia i requisiti di preparazione e di capacità occorrenti per il retto esercizio professionale”.
Inoltre, se da un lato sono ben visibili i “lacci e lacciuoli” (per riprendere una fortunata espressione di Guido Carli) che costringono in una camicia di Nesso l’esercizio delle professioni (e, per quanto particolarmente mi interessa, della professione forense), dall’altro ognuno comprende come una pura e semplice liberalizzazione degli accessi (già sperimentata, con esiti infausti, per l’Università, nel lontano 1969) non sia, di per sé, garanzia di sviluppo per il paese.
Se si vuole, come io auspico, che l’avvocatura torni ad essere la “prima scelta”, di molti giovani bravi laureati in giurisprudenza, occorre ripensare, in primo luogo, all’Università.
Come scriveva, già nel 2005, Adriano Cavanna, uno storico del diritto prematuramente scomparso, “da molto tempo le lancette della storia hanno segnato l’eclissi degli estremismi politici studenteschi e della massificazione demografica delle Facoltà di Giurisprudenza italiane (già divenute giganteschi esamifici e ora intente a scindersi in una miriade impazzita di microgemmazioni periferiche, spesso addirittura ridicole per la loro superfluità e per lo spirito di competizione campanilistica che le anima). Intanto, mentre si approssima l’integrazione europea dei titoli di studio e dell’esercizio delle professioni legali, prende forma una illusoria “autonomia universitaria” e decolla una deludente riforma caratterizzata dal cosiddetto sistema dei “crediti formativi”: il tutto nel contesto di facoltà-parcheggio dalle strutture e dalle attrezzature sclerotizzate, popolate per un verso da una moltitudine studentesca sempre meno preparata dagli studi secondari e a rischio di esserlo ancor meno nel futuro, per altro verso da corpi di docenti quotidianamente distolti nel lavoro e dall’attività scientifica da inutili commissioni e progressivamente frustrati nel loro intento di formare criticamente, secondo seri canoni di merito, le nuove generazioni di giuristi”.
Cavanna proseguiva affermando: “è ottima cosa l’idea della laurea breve ed è legittimo che tutti coloro i quali vorranno impegnarsi seriamente in una futura carriera che non sia necessariamente quella dell’avvocato, del magistrato o del notaio aspirino a conseguirla. L’altro rischio che si corre è piuttosto quello di costringere chi vuole proseguire negli studi a farlo con una identica preparazione istituzionale di base”.
L’iter delle varie riforme ha avuto un esito diverso ed oggi vi è solo la laurea in giurisprudenza, cosiddetta “magistrale”, al termine di un corso di studi di cinque anni.
Si dovrebbe tornare, invece, al doppio sistema, che ha avuto vita brevissima. La laurea triennale può essere sufficiente per l’impiego pubblico e privato, mentre la laurea magistrale dovrebbe essere riservata a chi aspira alla carriera accademica, alla magistratura, all’avvocatura, al notariato.
Solo dopo sarà possibile pensare ad un accesso alla professione, con un esame di stato collegato alla frequenza obbligatoria di una scuola retribuita. Pochi lo sanno, ma i medici che frequentano le scuole di specializzazione, ai sensi del D.Lgs. 8 agosto 1991 n. 257, godono di borse di studio a carico del Servizio Sanitario Nazionale.
A mio modestissimo parere, questa, unita ad altre misure (di cui mi riservo di parlare dopo la conversione in legge del decreto), consentirebbe una vera riforma strutturale in grado di portare a livello europeo il mercato dei servizi legali.
Tutto il resto, dalla formazione continua alle specializzazioni, che da anni viene partorito dalla fervida fantasia del sistema degli Ordini, sono chiacchiere, che dimostrano come l’avvocatura organizzata (non i singoli professionisti più avveduti) sia impari rispetto alla sfida che la attende.
Oggi, comunque, la liberalizzazione dell’avvocatura rimane il sogno di una notte di mezza estate.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'agosto 2011)

lunedì 22 agosto 2011

UNA VISIONE CARICATURALE DELLA GIUSTIZIA

A causa della mia professione, mi è accaduto più di una volta di parlare, con varie persone, dei problemi della giustizia.
Si trattava sovente di persone di buona cultura che, nel loro ambito professionale, avevano raggiunto risultati di eccellenza.
Ciononostante ho sentito spesso discorsi che, eufemisticamente, definirei quanto meno irrazionali.
Ho sentito dire che l’apparato giudiziario non funziona, senza che fosse fatta distinzione alcuna tra civile e penale, tra sede giudiziaria e sede giudiziaria. Ho sentito dire che i magistrati non lavorano, atteso che non hanno vincolo di orario e non tengono quasi mai (e non è vero) udienza al pomeriggio, quasi che non fosse necessario, per loro, avere tempo per studiare i processi e scrivere le sentenze. Ho sentito negare pervicacemente l’esistenza di problemi giuridici, sulla base dell’ovviamente erroneo presupposto che i processi sarebbero decisi sulla base di criteri essenzialmente politici.
Una visione caricaturale della giustizia, quindi. Una visione caricaturale, aggiungerei, che è specifica della giustizia: nessuno, infatti, si sognerebbe di attribuire ai medici le nefandezze che attribuisce con nonchalance ai magistrati, anche se è noto a tutti che gli ospedali sono politicizzati certo di più dei palazzi di giustizia e non sempre sono un modello di efficienza. Nessuno avrebbe poi l’ardire di sostenere che le terapie mediche e gli interventi chirurgici vengono eseguiti secondo criteri politici.
All’origine di questa visione caricaturale della giustizia vi è un piccolo gruppo di giornalisti, di cui, per carità di patria, non faccio il nome, ma che tutti conoscono perché costantemente imperversano nei dibattiti televisivi.
Per giustificare la tesi (che non so veramente quanto possa essere in concreto fondata) di un Berlusconi vittima di persecuzioni giudiziarie, iniettando veleni nell’opinione pubblica, costoro hanno accreditato questa idea caricaturale della giustizia, riuscendo a farla accettare ai loro lettori come verità incontrovertibile.
I magistrati in Italia sono complessivamente poco più di 8000: come è naturale, atteso il numero, non si tratta di una categoria del tutto omogenea come preparazione professionale e come approccio al lavoro. Vi sono, quindi, magistrati più o meno preparati, più o meno laboriosi, più o meno efficienti, che più o meno sono attenti agli avvenimenti della politica. Distinzioni che si rinvengono in ogni categoria, dagli avvocati ai commercialisti, dai medici ai dirigenti d’azienda, dai burocrati agli insegnanti.
E’ assolutamente irragionevole, tuttavia, definire i magistrati, come è stato fatto, un cancro. Perché non è vero, non è affatto vero.
Ciò non significa che, nell’ambito della giustizia, tutto funzioni alla perfezione. I problemi ci sono e non sono pochi. Solo in parte sono attribuibili a norme procedurali che consentirebbero comportamenti defatigatori. Anzi, le modifiche a “a pelle di leopardo” del codice di procedura civile realizzate nell’ultimo quindicennio, mandando in frantumi la coerente logica del codice del 1942, hanno creato nuovi problemi più che risolvere i vecchi.
Il problema reale è quello delle strutture. E queste, nei centocinquant’anni trascorsi dall’unità d’Italia, sono palesemente peggiorate. Ho recentemente scoperto su internet (che è una vera miniera di informazioni) il testo digitalizzato di un Annuario statistico della Provincia di Milano e delle Provincie di Lombardia che risale al 1863. Secondo tale Annuario, al circondario di Cremona (Tribunale, Corte d’Assise, Preture) era assegnato un numero complessivo di 43 giudici, a fronte di un totale di 45 avvocati (e di una popolazione che era meno della metà dell’attuale). Io non sono uno storico delle istituzioni e non so dire, quindi, quanto l’ordinamento giudiziario di allora fosse paragonabile a quello attuale.
Mi limito ad osservare che i giudici si sono ridotti di oltre i due terzi, mentre gli avvocati si sono accresciuti di sei volte.
Ogni giorno di più, in conclusione, emerge la necessità di affrontare il problema della giustizia con intelligenza e senza faziosità. Ma dubito che la classe dirigente attuale sia all’altezza di questo non facile compito. Quando ancora mi nutrivo delle illusioni della gioventù, vedevo i ministri come personaggi di altissima caratura politico-amministrativa. Ora, con il disincanto della vecchiaia, vedendo l’azione di certi ministri, mi vien da dire, in dialetto, a fare il ministro in questo modo “sò bòon an me”.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel luglio 2011)

IN DIFESA DELLA PROVINCIA

Ciclicamente riemerge, nel dibattito politico, l’affermazione della necessità di abolire le Province. Si sostiene, da parte di non pochi osservatori, che le Province sarebbero macchine mangiasoldi e che la loro abolizione consentirebbe l’eliminazione di sprechi e notevoli risparmi nell’ambito della spesa pubblica.
Questa tesi, reiteratamente ribadita negli ultimi tempi, è, senz’ombra di dubbio, una mistificazione.
Prima di tutto perché la Provincia è prevista dalla Costituzione, all’articolo 114. E’ un elemento costitutivo della Repubblica, intermedio fra il Comune e la Regione, tendenzialmente alternativo alla città metropolitana (che, prevista sin dal 1990, non ha ancora trovato, ad oggi, concreta attuazione). Si tratta di un ente di governo di area vasta, presente in diversi ordinamenti europei: basti pensare ai dipartimenti francesi, alle contee inglesi, alle province spagnole, ai kreis tedeschi.
Nell’ordinamento italiano, l’istituzione provinciale ha avuto una storia contraddistinta da una perdurante incertezza in ordine al ruolo da riconoscere all’ente per l’autogoverno delle collettività territoriali ed alla valenza che, di contro, la circoscrizione provinciale (mutuando, in questo, il modello francese) aveva assunto quale livello di decentramento dell’amministrazione statale, fondato peraltro su delimitazioni territoriali sovente artificiose.
L’avvento delle Regioni, nel 1970, mise fortemente in discussione il livello di autogoverno provinciale. Si fece, infatti, risaltare, soprattutto per iniziativa di Ugo La Malfa, la valenza, per così dire sostitutiva e alternativa, del nuovo livello di governo regionale, nei confronti di un ente di area vasta, intermedio fra Comuni e Regioni.
I dubbi e le incertezze furono superati dapprima con la Legge 8 giugno 1990 n. 142 (che riformò l’ordinamento delle autonomie locali) e poi con il D. Lgs. 31 marzo 1998 n. 112 (noto come Legge Bassanini), che segnarono un deciso rafforzamento delle competenze provinciali. Oggi il settore di intervento più significativo delle Province è quello della tutela e valorizzazione del territorio e dell’ambiente.
Al ruolo di amministrazione attiva della Provincia, si affianca un complesso di compiti di programmazione e pianificazione che fanno dell’ente uno snodo determinante per le attività programmatorie dei vari livelli di governo.
Attese le competenze proprie delle Province, abolire tali enti non appare sicuramente facile. Si abolirebbero certamente gli organi, ma non si potrebbero ovviamente sopprimere le funzioni, che dovrebbero essere redistribuite fra Comuni e Regioni. I Comuni, per la loro dimensione limitata, non sarebbero certamente in condizione di esercitare le funzioni di un ente di area vasta come la Provincia. Dal lato opposto, nelle Regioni, soprattutto in quelle di maggiori dimensioni, con l’accentramento delle competenze provinciali, si verrebbe a creare una struttura amministrativa assai complessa, probabilmente a danno dell’efficienza.
Se, invece, come penso, si vogliono essenzialmente ridurre i costi, di ordine generale, che il funzionamento delle Province comporta, altre sarebbero, a mio parere, le misure da adottare (con legge o con atti amministrativi).
Gli organi delle Province (Consiglio e Giunta) potrebbero tranquillamente essere dimezzati: non si vede perché a Cremona, tanto per fare un esempio, il Consiglio non potrebbe scendere da trenta a quindici consiglieri. Non si vede perché, poi, la Giunta, da dieci componenti non potrebbe essere ridotta a cinque, il Presidente e quattro assessori, dato che oggi le deleghe assegnate a qualche assessore sono inconsistenti, improbabili ovvero riguardano materie estranee alle competenze dell’ente.
Si dovrebbe poi abolire il Presidente del Consiglio provinciale: le sedute del Consiglio potranno tornare, come un tempo, ad essere presiedute dal Presidente della Giunta.
Negli enti di maggiore dimensione, laddove esistano, si dovrebbero eliminare le strutture che le Province mettono a disposizione dei gruppi consiliari (e cioè dei partiti).
Un Consiglio più snello consentirebbe, poi, di abolire le Commissioni, con l’accentramento nello stesso Consiglio di ogni attività, comprese quelle che oggi normalmente si affidano alle Commissioni.
Se, come previsto dalla legge sin dal 1990, si introducessero finalmente le Città metropolitane, potrebbero essere abolite le Province coincidenti con tale nuovo ente (che sarebbe, cioè, una sorta di Comune-Provincia per le aree metropolitane più ampie).
Potrebbe, infine, essere presa in considerazione la possibilità di sopprimere le Province istituite negli ultimi anni che hanno, tutte, un ambito territoriale assai ridotto, con il ritorno al numero di Province esistenti nel 1970, al momento dell’entrata in funzione dell’ordinamento regionale.
Soprattutto, infine, occorrerebbe accentrare nella Provincia, come ente di area vasta, tutte le funzioni che attualmente sono affidate ad enti di carattere provinciale, subprovinciale o sovracomunale (come, ad esempio, le Comunità montane).
Secondo me, anche le stesse A.S.L. (ma non gli Ospedali), attualmente governate da Direttori generali di nomina regionale (figura ibrida di funzionari politici) potrebbero essere affidate al livello di governo provinciale.
Con misure di questo tipo, le spese generali si ridurrebbero in modo apprezzabile e si otterrebbe, contemporaneamente, il risultato di completare il disegno costituzionale della Provincia intesa come ente autonomo necessario e direttamente rappresentativo della comunità locale.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel luglio 2011)

martedì 12 luglio 2011

LA TOPONOMASTICA FRA STORIA E POLITICA

La toponomastica riguarda l’attribuzione di una denominazione a luoghi e monumenti pubblici o di fruizione pubblica.
E ciò sia per renderne agevole l’identificazione, sia, soprattutto per i monumenti, per l’omaggio alla memoria di alcune persone giudicate particolarmente meritevoli di essere ricordate.
La meritevolezza dei soggetti cui dedicare aree di circolazione (vie, vicoli, calli, viali, piazze e simili), viene, come è facilmente intuibile, valutata diversamente a seconda dei tempi, dei luoghi e del relativo clima politico.
La prima volta in cui mi recai in Spagna, poco dopo la morte di Franco, agli albori del processo di transizione verso la democrazia, non vi era città spagnola che non avesse una avenida o una plaza “del Generalisimo”. Oggi credo che, anche a girare tutta la Spagna, da Madrid a Barcellona, da Bilbao a Siviglia, non se ne troverebbe neppure una.
E’ intuibile, quindi, come il legislatore abbia circondato di particolari cautele la scelta di dedicare una via o una piazza a personaggi contemporanei.
La materia è regolata dal R.D.L. 10 maggio 1923 n. 1158 (convertito nella Legge 17 aprile 1925 n. 473), nonché dalla Legge 23 giugno 1927 n. 1188, che prevede una speciale autorizzazione prefettizia ove la scelta ricada sul nominativo di un personaggio contemporaneo.
Inoltre, qualora si intenda mutare, in un Comune, il nome di una strada o di una piazza, si dovrà chiedere ed ottenere preventivamente l’approvazione del Ministero della Pubblica Istruzione (ora dei Beni culturali).
Come ha ritenuto il Consiglio di Stato, la norma è motivata dall’esigenza di non mutare, se non in casi eccezionali la denominazione di antiche strade o piazze che rappresenta storicamente la volontà delle amministrazioni nelle diverse epoche e comporta il ricordo dell’antico evento o personaggio, caratterizzante lo stesso luogo (Cons. Stato, Sez. VI, 12 dicembre 2002, n. 6790).
* * *
Essendo questa la normativa, accade, nella pratica, che nuove denominazioni vengano attribuite soprattutto a strade e piazze nuove che a Cremona, città il cui sviluppo urbanistico è fermo da anni, certamente non abbondano.
In questo quadro, si collocano le polemiche, ancora non sopite, sull’intitolazione di una strada ad Aldo Protti che fu certamente un grande cantante lirico, ma è ricordato anche per essere stato un combattente, non pentito, della Repubblica Sociale Italiana.
Eppure anche Protti fa parte della storia della nostra città. L’intitolazione a lui di una strada non può quindi essere ritenuta completamente fuori luogo ma, per essere accettata dalla coscienza collettiva, deve inserirsi in una prassi per cui tutti i cremonesi illustri devono avere un riconoscimento toponomastico.
Ciò, invece, è accaduto di rado atteso che spesso alle nuove strade sono stati attribuiti, negli ultimi decenni, nomi di fantasia. Così sono sorti i quartieri dei castelli, dei fiori, degli alberi.
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Non pochi cremonesi, invece, meriterebbero di essere ricordati con la intitolazione di una via o di una piazza. Due, Gino Gorla e Paride Formentini, ho già avuto modo di ricordarli tempo fa su queste stesse colonne.
* * *
Desidero, perciò, lasciare una sorta di pro-memoria agli amministratori, attuali e futuri, del Comune, ricordando alcuni personaggi significativi della nostra storia recente, cui si potrebbero intitolare strade o piazze.
Come già ho detto, mi pare, infatti, preferibile, laddove non esistano antichi toponimi, dedicare vie o piazze a personaggi illustri, piuttosto che denominarle con nomi di fantasia, privi di qualsiasi riferimento con la realtà (in via degli Ontani, non credo vi sia neppure un ontano).
Il primo personaggio che vorrei suggerire è Felice Guarneri. Nacque a Pozzaglio nel 1882 da una famiglia di agricoltori, e si laureò in economia a Venezia, nel 1906.
Dopo alcune esperienze nell’ambito delle Camere di Commercio e dopo aver combattuto nella grande guerra come sottotenente di fanteria, fu chiamato a dirigere i servizi economici della Confindustria.
Nel 1937 fu nominato Ministro per gli scambi e le valute (un Ministero di nuova istituzione trasformatosi, nel dopoguerra, nel Ministero del Commercio con l’estero). Fu rimosso nel 1939, come capro espiatorio dell’impreparazione bellica del paese.
Dal 1940 al 1944 presiedette il Banco di Roma.
Prosciolto dalla Commissione di epurazione, nel dopoguerra ricoprì vari incarichi in grandi gruppi industriali, sino alla morte, avvenuta a Roma nel 1955.
Liberista in economia e liberale a riformatore in politica è il prototipo del tecnocrate che, senza mai identificarsi con il fascismo, collaborò attivamente con il regime, convinto di fare l’interesse del paese.
A Felice Guarneri può essere accomunato Giuseppe Bianchini, nato a Cremona nel 1876 e morto a Milano nel 1970, direttore e poi presidente dell’Assobancaria, senatore del Regno e sottosegretario alle Finanze nel 1935. Ricordo di averlo incontrato negli anni Sessanta, a Pavia, presso l’Almo Collegio Borromeo (di cui, all’epoca, ero studente). Ultraottantenne era il decano della Associazione alunni del Collegio.
* * *
Personaggio del tutto diverso è Carlo Falconi, nato a Cremona nel 1915 e scomparso nel 1988. Fu ordinato sacerdote, ma, nel 1949, per una crisi di fede, si distaccò dalla Chiesa. Iniziò una intensa attività di pubblicista e di storico, collaborando a “Il Mondo”, “Il Giorno” e “L’Espresso”, con articoli, specie nei primi anni, caratterizzati da una certa vena anticlericale.
Divenne, negli anni sessanta, lo storico più noto del cattolicesimo contemporaneo. Fra i suoi numerosi volumi (circa una ventina) si possono ricordare i due monumentali (ed ormai introvabili) “La Chiesa e le organizzazioni cattoliche in Italia” e “La Chiesa e le organizzazioni cattoliche in Europa”, oltre ad una documentatissima biografia del cardinale Antonelli, segretario di Stato di Pio IX.

Pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di luglio 2011

mercoledì 13 aprile 2011

ALFANO E IL RASOIO DI OCCAM

Guglielmo di Occam è un filosofo inglese del XIV secolo, alla cui figura Umberto Eco si ispirò nel delineare il personaggio di Guglielmo da Baskerville, il protagonista del suo romanzo “Il nome della rosa”.
Guglielmo di Occam è conosciuto per il principio metodologico noto come “rasoio di Occam”. Tale principio, che è alla base del pensiero scientifico moderno, nella sua forma più immediata suggerisce l’inutilità di formulare più assunti di quelli che si siano trovati per spiegare un dato fenomeno: il rasoio di Occam impone, cioè, di evitare ipotesi aggiuntive, quando quelle iniziali sono sufficienti.
La metafora del rasoio suggerisce l’idea che sia opportuno eliminare con tagli di lama e mediante approssimazioni successive le ipotesi più complicate. Il principio si suole sintetizzare nella formula latina “entia non sunt multiplicanda praeter necessitatem”, vale a dire che gli elementi non devono essere moltiplicati più del necessario.
Il principio del rasoio di Occam mi è tornato alla mente nelle scorse settimane, di fronte alla proposta di riforma costituzionale, definita “epocale”, della giustizia, presentata dal Ministro Alfano, che, quanto al Consiglio Superiore della Magistratura, prevede la suddivisione dello stesso in tre distinti organismi, il Consiglio Superiore della magistratura giudicante, il Consiglio Superiore della magistratura requirente, la Corte di disciplina della magistratura giudicante e requirente.
Alla base di questa tripartizione di organismi vi è, evidentemente, il principio fissato dell’articolo 5 della proposta di riforma (che andrebbe a sostituire l’articolo 104 della Costituzione vigente), secondo il quale “la legge assicura la separazione delle carriere dei giudici e dei pubblici ministeri”. Oggi invece, ed ormai da qualche anno, esiste (prevista dalla legge sull’ordinamento giudiziario) una rigida separazione tra le funzioni di giudice e di pubblico ministero, tanto è vero che, ormai da qualche anno, il passaggio fra le due carriere è divenuto assolutamente eccezionale, come ben sa chiunque si occupi di vicende giudiziarie.
Le ragioni per cui, nell’ambito della giustizia penale, è opportuno che le funzioni di giudice e di pubblico ministero siano nettamente distinte, sono intuitive. Tuttavia chi, portando alle estreme conseguenze l’opportunità di una distinzione di funzioni, vorrebbe separare le carriere, con una disposizione contenuta nella stessa Costituzione, mi pare sottovaluti, proprio nell’ottica garantista in cui si muove, il rischio di avere, nei magistrati del pubblico ministero, una sorta di superpoliziotti, con mezzi pressoché illimitati a disposizione e totalmente privi, per non averla mai avuta, di quella “cultura della giurisdizione” che oggi accomuna giudici e pubblici ministeri.
Al di là della distinzione delle funzioni o della separazione delle carriere, la caratteristica essenziale che i magistrati debbono avere è data dall’autonomia e dall’indipendenza, che devono essere proprie sia dei giudici che dei pubblici ministeri. Non a caso il primo comma dell’articolo 104 della Costituzione del 1948 afferma espressamente che “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”.
Si afferma in dottrina che l’indipendenza non riguarda esclusivamente i singoli giudici e pubblici ministri, ma è una qualità che caratterizza la magistratura nel suo complesso. A garanzia dell’autonomia e indipendenza, la Costituzione ha previsto un organo, il Consiglio Superiore della Magistratura, cui la Costituzione stessa (articolo 104, secondo comma) affida, in quanto potenzialmente pericolose per l’indipendenza, tutte le funzioni attinenti allo stato giuridico dei magistrati (giudici e pubblici ministeri), un tempo di competenza del Ministro della Giustizia.
Se autonomia ed indipendenza sono i valori che debbono essere garantiti per tutti i magistrati, non si capisce la ragione per cui le funzioni attualmente svolte dal Consiglio Superiore debbano essere attribuite a tre organi diversi. Anche se le carriere dovranno essere separate (ed io ho qualche perplessità in proposito), il Consiglio Superiore potrebbe restare unico, sebbene suddiviso in due distinte sezioni, una per i giudici ed una per i pubblici ministeri, con elezioni separate per ciascuna delle due sezioni. Ad una terza sezione, composta da persone diverse rispetto alle prime due, potrebbero poi essere attribuite le funzioni disciplinari che, invece, il progetto di riforma intenderebbe conferire ad una Corte disciplinare nuova di zecca. La stranezza della soluzione progettata, poi, è che, di fronte a due distinti Consigli Superiori, vi sarebbe un’unica Corte di disciplina, comune a giudici e pubblici ministeri.
Resta da dire della composizione degli organismi previsti dalla riforma: la proporzione fra i componenti togati ed i componenti laici del C.S.M., attualmente fissata in due terzi per i togati ed un terzo per i laici, diverrebbe paritaria (cinquanta per cento per ciascuna componente).
Anche questo mutamento, che sembrerebbe secondario, mi induce talune perplessità. Il sistema attuale, infatti, intende evitare che attraverso l’esercizio di poteri che incidono sullo status dei magistrati si possa ledere la loro indipendenza; nello stesso tempo, si vuole impedire che l’ordine giudiziario perda qualsiasi legame con gli altri poteri dello Stato.
Riassuntivamente, non mi pare che una riforma delle norme costituzionali in materia di Consiglio Superiore della Magistratura sia particolarmente necessaria ed urgente. Piuttosto sarebbe opportuno introdurre modificazioni alla Legge 24 marzo 1958 n. 195, che contiene le norme sull’elezione ed il funzionamento del Consiglio Superiore.
Ritorna, quindi, il principio del rasoio di Occam, secondo cui, fra l’altro, “frustra fit per plura quod fieri potest per pauciora”, è inutile, cioè, fare con più ciò che si può fare con meno.

(pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di aprile 2011)

mercoledì 6 aprile 2011

L’AVVOCATURA ALLA RICERCA DI SE’ STESSA

Qualche settimana fa, su queste stesse colonne, Gianfranco Taglietti, con l’abilità che tutti gli riconoscono, ha tratteggiato, nel cinquantesimo anniversario della morte, la figura dell’avvocato Mario Stradivari, caratteristico personaggio della vecchia Cremona. Nonostante abbia alle spalle quasi quarantadue anni di avvocatura, io non ho avuto modo di conoscere l’avvocato Stradivari. Ne ho, tuttavia, molto sentito parlare, poiché, quando iniziavo la professione, la sua figura era ancora ricordata nelle aule di Palazzo Persichelli e la sua voce tonante ancora, per così dire, riecheggiava nei corridoi. L’avvocato Stradivari fu uno degli ultimi epigoni di un’avvocatura ormai consegnata alla storia. Sino alla metà del secolo XX, l’avvocato era, più che un tecnico del diritto, un umanista. Le ore che trascorreva in ufficio erano, rispetto alle abitudini di oggi, relativamente poche e l’avvocato, oltre che i codici e le pandette, amava leggere i classici, dilettarsi di musica e di teatro. Per l’avvocato, era altresì un vanto occuparsi della cosa pubblica; prima della grande guerra nelle amministrazioni locali era cospicua la presenza di avvocati. Il XX secolo ha visto, tuttavia, in molteplici campi dell’attività umana, l’affermarsi progressivo della tecnica e della specializzazione (La politica e la tecnica come professione di Max Weber risale al 1919). L’avvocato, di fronte ad una società sempre più complessa, ha dovuto di necessità affinare la propria preparazione giuridica, dovendo diventare, anche per poter continuare ad esercitare la sua funzione di mediatore sociale, sempre più tecnico del diritto. Gli autori ai quali oggi un avvocato di buona cultura deve fare riferimento non sono più Virgilio, Catullo ed Orazio, come ai tempi dell’avvocato Stradivari e delle generazioni che l’hanno preceduto, ma Galgano, Zagrebelsky, Santoro Passarelli o Rosario Nicolò. Una vera mutazione genetica, dunque. Nel frattempo, ci si è avveduti che la preparazione fornita dall’Università, anche se più approfondita di un tempo (il corso di laurea in giurisprudenza è passato da quattro a cinque anni), non è certo sufficiente per l’intero arco della vita professionale di un avvocato. Altre professioni hanno affrontato di petto la questione. I medici, ad esempio, hanno ormai più che valide scuole di specializzazione, a carattere teorico-pratico, e gli specializzandi che le frequentano sono (giustamente) retribuiti. E’ ben vero che la salute, di cui i medici devono occuparsi, è un valore essenziale, ma è altrettanto vero che la libertà personale non è un valore meno importante. Nel sostanziale disinteresse del legislatore (che si è limitato ad istituire le Scuole di specializzazione per le professioni legali, che, tuttavia, preparano all’accesso alla professione e non si curano dell’aggiornamento permanente dei professionisti), la categoria degli avvocati ha dovuto occuparsi da sola del proprio aggiornamento. Avrebbe potuto (e sarebbe stata la soluzione più semplice) affidarsi al mercato: l’avvocato ha la necessità di tenersi aggiornato e deve provvedere da sé a migliorare la propria cultura giuridica, leggendo libri e riviste e frequentando seminari, convegni e corsi post-universitari. Se non lo fa, sarà meno competitivo nel suo lavoro e lavorerà meno bene e con più difficoltà. Invece il Consiglio Nazionale Forense, l’organismo posto al vertice del sistema degli Ordini professionali (sulla cui rappresentatività sarebbero da avanzare non poche riserve) ha elaborato, considerando l’aggiornamento un obbligo deontologico su cui gli Ordini hanno il compito di vigilare, un complesso sistema di crediti formativi, che devono essere acquisiti dall’avvocato nel corso di un triennio. Non ho certo la pretesa di spiegare il funzionamento del sistema messo in piedi dagli Ordini che, almeno sino ad oggi, si è rivelato essenzialmente un modo per garantire un pubblico anche ad iniziative di infimo valore e di ben scarsa valenza culturale. In buona sostanza: tutti si sono messi ad organizzare seminari e corsi di lezioni, sovente a pagamento, che gli avvocati si vedono costretti a frequentare, pur di riuscire ad accumulare i crediti che hanno l’obbligo di conseguire nel triennio. Risultato: ore ed ore vengono sottratte al lavoro, mentre gli abissi di ignoranza, se esistono (e talora esistono), permangono inalterati. Gli Ordini, poi, trattano gli avvocati come asini, alternando il bastone alla carota. Basteranno due esempi, tratti da quella miniera di informazioni che ormai è internet. L’Ordine di Bergamo ha organizzato una proiezione del celebre film Kramer vs Kramer, cui è seguito un dibattito. Un cineforum di periferia, quindi, cui però vengono attribuiti tre crediti formativi. L’Ordine di Reggio Emilia, invece, ha organizzato, in occasione della manifestazione degli avvocati a Roma contro la recente legge sulla mediazione obbligatoria nelle cause civili, una trasferta a Roma in pullman, con l’attribuzione ai partecipanti di ben otto crediti formativi. Lascio ai lettori di immaginare quali saranno stati i vantaggi, sotto il profilo della preparazione giuridica, della partecipazione ad un cineforum e ad un viaggio (o dovremmo definirlo una gita?) a Roma. Ma la trepidante solerzia con cui il Consiglio Nazionale Forense si occupa della formazione culturale degli avvocati non finisce qui. Il prossimo 1 luglio entrerà in vigore il Regolamento (emanato non si sa in base a quale norma di legge), in forza del quale il Consiglio Nazionale Forense potrà attribuire, agli avvocati che supereranno una sorta di percorso di guerra, congegnato sulla frequenza di corsi a pagamento, il titolo di specialista in un determinato ramo del diritto. Non starò a soffermarmi sui complessi dettagli di tale regolamentazione. Mi limito ad osservare che non si comprende quale particolare competenza abbia il Consiglio Nazionale Forense per rilasciare, al posto dell’Università, dei titoli di specializzazione. Ovviamente, gli avvocati che conseguiranno il titolo non saranno particolarmente più specializzati di coloro che ne saranno privi. Ma intanto si onerano gli avvocati che intendono svolgere con serietà il loro lavoro, ed essere apprezzati come tali, delle spese per la frequenza dei corsi e del tempo necessario per seguire i corsi stessi e preparare relazioni ed esami. Queste novità si inseriscono in un momento non facile per la professione forense: la crisi economica ha inciso pesantemente, come è stato riferito da diversi quotidiani, sul lavoro degli studi legali, già condizionato negativamente da recenti leggi che hanno ridotto il lavoro e ancor più lo ridurranno in futuro (il D.Lgs. 7 settembre 2005 n. 209 denominato Codice delle assicurazioni e il D.Lgs. 4 marzo 2010 n. 28 sulla mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, di cui, in una prossima occasione, converrà parlare particolareggiatamente). A fronte di ciò, la nomenklatura che oggi governa l’avvocatura dà la sensazione di essere solo una casta autoreferenziale che mira a perpetuare sé stessa. Certo qualcosa di molto meno efficace della Associazione Nazionale Magistrati, che ha sempre e concretamente esaltato il ruolo, anche sociale, dei propri aderenti. (pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di aprile 2011)

venerdì 11 febbraio 2011

Cala il sipario sulla saga della Fondazione

Con la nomina e l’insediamento del nuovo Consiglio di Amministrazione della Fondazione Città di Cremona, è calato il sipario su una saga che sembrerebbe aver appassionato i cremonesi per parecchi mesi.
Il sipario dunque è calato e viene da domandarsi se lo spettacolo che è terminato sia stato un bello spettacolo. La risposta alla domanda è senz’altro negativa. Errori e titubanze hanno caratterizzato gli atti amministrativi adottati dal Comune di Cremona; ancora oggi, anche se probabilmente gli atti del Comune riferentisi alla Fondazione sono ormai divenuti inoppugnabili, permangono in me forti perplessità sulla legittimità (oltre che sull’opportunità) di tali provvedimenti.
Intendo, in particolare, riferirmi agli atti successivi alle dimissioni del precedente Consiglio di Amministrazione della Fondazione, ottenute (o, per meglio dire, pretese) dal Sindaco a seguito di incomprensioni verificatesi in relazione all’acquisto, da parte della Fondazione, del complesso di Palazzo Fodri.
Al momento di provvedere alla nomina del nuovo Consiglio di Amministrazione (che compete al Sindaco del Comune di Cremona, secondo la previsione dell’articolo 9 dello Statuto della Fondazione) il Comune ha ritenuto che, nella fattispecie, dovesse trovare applicazione l’articolo 6, comma 5, del D.L. 31 maggio 2010 n. 78, convertito con modificazioni nella Legge 30 luglio 2010 n. 122. Tale norma testualmente prevede: “Tutti gli enti pubblici, anche economici, e gli organismi pubblici, anche con personalità giuridica di diritto privato, provvedono all’adeguamento dei rispettivi statuti al fine di assicurare che, a decorrere dal primo rinnovo successivo alla data di entrata in vigore del presente decreto, gli organi di amministrazione e quelli di controllo, ove non già costituiti in forma monocratica, nonché il collegio dei revisori, siano costituiti da un numero non superiore, rispettivamente, a cinque e a tre componenti”.
Poiché lo Statuto della Fondazione prevedeva, invece, un Consiglio di Amministrazione di sette componenti, si disse che, prima che il Sindaco procedesse alle nuove nomine, il numero degli amministratori doveva essere adeguato alle disposizioni legislative sopravvenute.
Nutro molti dubbi in ordine alla necessità che la norma in esame dovesse applicarsi alla Fondazione Città di Cremona. La Fondazione, infatti, è un soggetto di diritto privato. L’articolo 16 del D.Lgs. 4 maggio 2001 n. 207, che dopo gli interventi della Corte Costituzionale in materia di istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (da ultimo, si veda Corte Costituzionale, 7 aprile 1988, n. 396), stabilì, infatti, che le istituzioni, per le quali fosse esclusa la possibilità di trasformazione in aziende pubbliche di servizi (non erogando esse direttamente servizi assistenziali), fossero trasformate in associazioni o fondazioni di diritto privato, disciplinate dal codice civile e sottoposte al controllo ed alla vigilanza della Regione, ente nel quale veniva identificata l’autorità governativa, di cui agli articoli 25 e 27 del codice civile.
E questo è quanto è accaduto per la Fondazione Città di Cremona, come ho già avuto modo di spiegare, tempo addietro, su queste stesse colonne.
La norma che dispone la riduzione dei Consigli di Amministrazione a cinque componenti, che pur non brilla certo di eccessiva chiarezza, più che a fondazioni private, sembra potersi riferire agli organismi di diritto pubblico, espressione derivata dal diritto comunitario, con cui si intende qualsiasi organismo anche in forma societaria (e quindi anche di diritto privato) in cui sussistano cumulativamente i seguenti requisiti: che venga istituito, anche in forma societaria, per soddisfare specificamente esigenze di interesse generale, avente carattere non industriale o commerciale; che sia dotato di personalità giuridica; che svolga attività finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi, oppure ancora il cui organo di amministrazione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà sia designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico (articolo 3, comma 26, del D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163, noto come Codice degli appalti pubblici).
Ma la Fondazione Città di Cremona non può certo rientrare nella categoria degli organismi di diritto pubblico, atteso che non risulta essere finanziata, in modo maggioritario, dallo Stato o da altri enti pubblici.
Secondo l’articolo 12 dello Statuto della Fondazione, compete al Consiglio di Amministrazione dell’ente di provvedere, se del caso, alla modificazione dello Statuto. Alla luce di tale precisa disposizione, pare anomalo che, nel caso concreto, per modificare lo Statuto ed adeguarlo alla normativa sopravvenuta (comunque non applicabile per le ragioni già esposte) si sia nominato, su richiesta del Comune, un Commissario da parte dell’A.S.L. (ente cui la Regione Lombardia, ai sensi dell’articolo 6, comma 2, della L.R. 8 febbraio 2005, n. 6, ha attribuito le funzioni amministrative di vigilanza e controllo, di cui all’articolo 25 del codice civile, sulle persone giuridiche di diritto privato “che operano in ambito socio-sanitario e socio-assistenziale”).
Poiché i poteri dell’A.S.L. non possono che essere quelli previsti dall’articolo 25 del codice civile, non v’è chi non veda come non rientri nelle previsioni di tale norma la nomina di un Commissario allo scopo di apportare modifiche allo Statuto di una fondazione di diritto privato. E’ solo previsto, infatti, che l’Autorità di vigilanza “può sciogliere l’amministrazione e nominare un commissario straordinario, qualora gli amministratori non agiscano in conformità dello statuto e dello scopo della fondazione o della legge”.
In questo modo, certamente anomalo, lo Statuto della Fondazione è stato modificato, con la riduzione a cinque componenti del Consiglio di Amministrazione.
Lo snellimento del Consiglio di Amministrazione ha poi determinato l’immediato accrescersi degli appetiti delle forze politiche, con una rigida lottizzazione del Consiglio stesso.
Ciò è accaduto nonostante la giurisprudenza (compresa quella del T.A.R. di Brescia) abbia avuto più volte modo di affermare che, quando la nomina riguarda un soggetto privato, come la Fondazione Città di Cremona indubitabilmente è, l’Ente locale procede alla nomina nell’esercizio della propria capacità di diritto civile, della quale è titolare al pari di ogni altro soggetto dell’ordinamento, e quindi non nomina un rappresentante dell’Ente stesso, ma un cittadino degno di fiducia “secondo una valutazione discrezionale del Sindaco, quale pubblica autorità, senza che in alcun modo possano riscontrarsi collegamenti con l’indirizzo politico-amministrativo dell’Ente locale” (si veda, da ultimo, T.A.R. Lombardia, Brescia, Sez. II, 8 luglio 2010, n. 2478).
La conseguenza pratica della feroce lottizzazione del Consiglio di Amministrazione della Fondazione è stata l’eliminazione, dal Consiglio, del rappresentante dell’Associazione degli ex allievi dell’Orfanatrofio, che degnamente rappresentava quanti tradizionalmente erano stati beneficati dalle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza di Cremona.
Da parte delle forze politiche, bontà loro, si è detto che un rappresentante dell’Associazione sarebbe stato ammesso come uditore alle adunanze del Consiglio di Amministrazione (contro ogni previsione legislativa o statutaria).
Grazie al cielo, la Fondazione Città di Cremona, come più volte si è ripetuto, è un ente privato. Se così non fosse, e la Fondazione fosse, come ai piani alti del Palazzo Municipale si mostra di credere, una azienda partecipata del Comune, tutti gli atti della Fondazione, se adottati con l’intervento di persone estranee al Consiglio di Amministrazione, sarebbero, per ciò stesso, illegittimi.
Come ha ritenuto il Consiglio di Stato (Sezione VI, 21 ottobre 1996, n. 1367), costituisce principio generale il fatto che, negli organi collegiali, la partecipazione di persone estranee, anche se limitata alla sola presenza fisica, costituisce motivo di invalidità delle deliberazioni assunte dall’organo.
Ma la cosa che, nella vicenda, maggiormente stupisce è un’altra. Nessuno, in modo particolare dell’opposizione o della sempre invocata società civile, ha criticato, se non con un fragoroso silenzio, questa poco commendevole proposta di inserire un uditore nel Consiglio di Amministrazione della Fondazione.
Purtroppo, il vero problema dell’ordinamento costituzionale italiano (evito deliberatamente di usare la stucchevole espressione riforme) sembra essere quello di ricostituire le condizioni perché si affermi e si consolidi l’indipendenza delle istituzioni governanti dai partiti e dai movimenti politici, dalle cui invadenti ingerenze le istituzioni stesse devono essere poste al riparo.
Ma questo è un problema che va ben al di là delle modeste vicende della Fondazione Città di Cremona.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel febbraio 2011)