giovedì 13 ottobre 2011

MORTE E RISURREZIONE DELLA PROVINCIA

Nel convulso dibattito estivo determinato da una crisi finanziaria devastante quanto inattesa, è parso, ad un certo momento, che i destini del paese fossero legati all’abolizione delle Province.
In effetti, il D.L. 13 agosto 2011 n. 138, emanato dal Governo in un drammatico ferragosto su pressante sollecitazione della Banca centrale europea, prevedeva che fossero soppresse le Province che non rispettassero alcuni precisi limiti dimensionali (di popolazione e di superficie). Nel complesso, avrebbe dovuto essere eliminata una trentina di enti. Alla soppressione di tali Province avrebbe dovuto conseguire la scomparsa degli uffici statali con circoscrizione provinciale (Prefetture e Questure, in primo luogo). Di tutto ciò, tuttavia, non vi è traccia nella legge di conversione del decreto (la Legge 14 settembre 2011, n. 148).
La materia, infatti, in sede di conversione del decreto, è stata stralciata ed ha formato oggetto di un apposito disegno di legge costituzionale, già presentato alle Camere.
Ad un primo esame, la soluzione adottata dal Governo potrebbe apparire corretta. La Provincia è, infatti, un ente previsto dalla Costituzione. L’articolo 114 afferma che “la Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”. Non è conseguentemente ipotizzabile che la Provincia possa scomparire come ente senza una modifica costituzionale (che – come è noto – richiede un iter lungo e complesso).
Le sorprese, tuttavia, iniziano se si legge il testo del disegno di legge, pudicamente denominato “Soppressione di enti intermedi”.
Il senso della riforma può essere sintetizzato nella celebre frase pronunciata da Tancredi nel Gattopardo, “Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”.
Mentre, infatti, l’articolo 1 del disegno di legge espunge dal testo costituzionale le parola “Provincia”, l’articolo 2 introduce la nuova “Provincia regionale”, con una aggiunta all’articolo 117 della Costituzione: “Spetta alla legge regionale, adottata previa intesa con il Consiglio delle autonomie locali di cui all’articolo 123, istituire sull’intero territorio regionale forme associative fra i Comuni per l’esercizio delle funzioni di governo di area vasta nonché definirne gli organi, le funzioni e la legislazione elettorale”.
Io non sono mai stato fra coloro che hanno fatto della soppressione delle Province un leit motiv della politica italiana. Neppure penso che la soppressione delle Province costituisca una terapia d’urto per affrontare la situazione economica. Ho sempre considerato piuttosto la soppressione delle Province come uno slogan sbandierato da quegli editorialisti (fra cui un mio omonimo) che continuano a proporre la misura come panacea di tutti i mali della finanza pubblica.
Il disegno di legge che sopprime le Province, per farle immediatamente risorgere nella forma di province regionali, mi conferma nel convincimento che, non solo per ragioni storiche, la Provincia, a partire dalla Legge 8 giugno 1990 n. 142, che ha trasformato l’assetto dei poteri locali nel nostro paese, è diventata qualcosa di diverso dal passato, quando era un ente che, pur essendo considerata alla stregua dei Comuni, nell’ambito del sistema degli enti locali, aveva in realtà funzioni piuttosto circoscritte e finiva talora per essere sovrapposto o confuso con organi periferici dello Stato, come la Prefettura, operanti in ambito provinciale.
La Provincia, invece, è, e non solo appare, come espressione effettiva di autonomia ed è ente esponenziale di una comunità territoriale.
Come ha scritto un illustre studioso Gian Candido De Martin, “Oggi, invece, la Provincia – rafforzata nelle funzioni istituzionali di carattere generale e ricompresa nell’elenco dei soggetti che costituiscono la Repubblica – è sempre più da considerare come l’espressione istituzionale di una comunità legata ad un territorio di area vasta, destinata a rappresentare uno snodo essenziale rispetto sia ai Comuni che alla Regione. Rispetto ai primi, perché può certamente svolgere a vario titolo una preziosa funzione tanto di supporto quanto di coordinamento, soprattutto dei piccoli Comuni. Nei confronti della Regione, d’altra parte, può essere determinante per affrontare finalmente il problema del decentramento dell’ente regionale, immaginato anche nella Costituzione essenzialmente come soggetto di legislazione, programmazione e coordinamento, più che di amministrazione attiva, e che invece nei fatti ha alimentato la progressiva costruzione di un apparato amministrativo spesso elefantiaco, burocraticamente simile al modello statale, cui si aggiunge una miriade di enti o società strumentali regionali, con una forte propensione all’accentramento e alla considerazione degli enti locali più come soggetti dipendenti, che non dotati di un’autonomia effettiva”.
Altro problema, invece, è quello della riduzione dei costi e su di esso già mi sono soffermato, in passato, su queste stesse colonne. In sostanza, per ottenere una effettiva, pur se limitata, riduzione di costi, gli organi devono essere ridotti all’essenziale, ma ciò non può valere per le sole Province, ma deve riguardare anche Regioni e Comuni. Ed anche lo Stato deve fare la sua parte: l’organizzazione dell’amministrazione periferica statale sul territorio non dovrebbe necessariamente essere sempre fondata sull’ambito provinciale.
Resta il fatto che non si può pensare di “fare cassa” con misure di questo tipo. A parte il tempo che è logicamente necessario perché una complessa riforma istituzionale giunga a compimento, è da rilevare che, se si sopprimono gli enti, non si possono certamente sopprimere né le funzioni né il personale che tali funzioni esplica. La riduzione dei costi (peraltro modesta) si può solo ottenere dalla soppressione o riduzione degli organi. Per raggiungere tale scopo, mi pare fuori luogo una riforma costituzionale, comunque complessa: è sufficiente agire, e lo si può fare rapidamente ed efficacemente, attraverso leggi ordinarie.


(articolo pubblicato sul quotidiano cremonese "La Cronaca" nel settembre 2011)

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