lunedì 5 settembre 2011

LA LIBERALIZZAZIONE DELL’AVVOCATURA, SOGNO DI UNA NOTTE DI MEZZA ESTATE

Nel mezzo del mese di agosto, per far fronte ad una crisi finanziaria devastante, il Governo ha emanato il D.L. 13 agosto 2011 n. 138, avente ad oggetto “ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione e lo sviluppo”.
L’articolo 3 di tale decreto concerne la “abrogazione delle indebite restrizioni all’accesso e all’esercizio delle professioni a delle attività economiche”.
Nell’imminenza della riunione del Consiglio dei Ministri che avrebbe varato il decreto pareva che il decreto medesimo avrebbe avuto, in ordine alla liberalizzazione delle professioni, effetti dirompenti. Le voci furono raccolte anche da autorevoli organi di stampa, come “Il Sole 24 Ore”, del 13 agosto 2011.
La lettura del testo pubblicato poi sulla Gazzetta Ufficiale ha riservato, invece, più di una delusione. La prima parte dell’articolo 3, infatti, rinvia a future norme (che dovrebbero essere emanate entro un anno) e, nella sostanza, ricorda più il contenuto di una legge delega che quello di un decreto legge.
Che un decreto legge possa avere un siffatto contenuto e, peraltro, vietato dall’articolo 15 della Legge 21 agosto 1988 n. 400 (avente ad oggetto la disciplina dell’attività di Governo), secondo cui i decreti legge devono contenere misure di immediata applicazione e non possono conferire deleghe legislative.
Riguarda più specificatamente le professioni (e, per quanto mi interessa, l’avvocatura) il comma 5 dell’articolo 3. Esso non sembra introdurre sostanziali novità rispetto alla situazione attuale. Le tariffe professionali rimangono come criterio orientativo e restano abolite le tariffe minime, già soppresse dal cosiddetto decreto Bersani (D.L. 4 luglio 2006 n. 223, convertito con modificazioni nella Legge 4 agosto 2006 n. 248).
Anche l’abolizione del divieto di pubblicità per le attività professionali, già contenuto nel decreto Bersani, viene confermato. Sembrerebbe invece abolito (in realtà la norma non ne parla) il potere degli Ordini professionali di sindacare, sotto il profilo deontologico della dignità della professione, la congruità delle tariffe applicate al cliente, nonché le modalità con cui la pubblicità viene effettuata.
Forse non ci si poteva attendere di più, ma il decreto è già una netta inversione di tendenza rispetto agli ultimi orientamenti parlamentari.
Infatti la nuova legge professionale forense, già approvata dal Senato ed attualmente all’esame della Camera dei Deputati, prevederebbe il ristabilimento dei minimi tariffari. Mentre qualche settimana fa, la Camera dei Deputati ha approvato una riforma dell’Ordine dei giornalisti (ordine assolutamente inutile, a mio avviso, non me ne voglia il direttore di questo giornale), che prevede due vere chicche. L’obbligo, per i giornalisti di possedere una laurea, almeno triennale (se fosse stato così in passato, grandi firme come Giorgio Bocca, Ugo Stille e Vittorio Feltri – per tacere di altri – avrebbero fatto un altro mestiere) e l’obbligo, per i pubblicisti, di sostenere un esame (provi il lettore soltanto ad immaginare la Commissione incaricata di esaminare aspiranti pubblicisti come Eugenio Montale ed Umberto Eco).
Il problema delle professioni non è semplice. Fra l’altro la Costituzione, all’articolo 33, comma 5, prevede genericamente un esame di stato “per l’abilitazione all’esercizio professionale”. In proposito, la Corte Costituzionale, nella sentenza 23 luglio 1974 n. 240 ha sottolineato l’esigenza che “un accertamento preventivo, fatto con serie garanzie, assicuri, nell’interesse della collettività e dei committenti, che il professionista abbia i requisiti di preparazione e di capacità occorrenti per il retto esercizio professionale”.
Inoltre, se da un lato sono ben visibili i “lacci e lacciuoli” (per riprendere una fortunata espressione di Guido Carli) che costringono in una camicia di Nesso l’esercizio delle professioni (e, per quanto particolarmente mi interessa, della professione forense), dall’altro ognuno comprende come una pura e semplice liberalizzazione degli accessi (già sperimentata, con esiti infausti, per l’Università, nel lontano 1969) non sia, di per sé, garanzia di sviluppo per il paese.
Se si vuole, come io auspico, che l’avvocatura torni ad essere la “prima scelta”, di molti giovani bravi laureati in giurisprudenza, occorre ripensare, in primo luogo, all’Università.
Come scriveva, già nel 2005, Adriano Cavanna, uno storico del diritto prematuramente scomparso, “da molto tempo le lancette della storia hanno segnato l’eclissi degli estremismi politici studenteschi e della massificazione demografica delle Facoltà di Giurisprudenza italiane (già divenute giganteschi esamifici e ora intente a scindersi in una miriade impazzita di microgemmazioni periferiche, spesso addirittura ridicole per la loro superfluità e per lo spirito di competizione campanilistica che le anima). Intanto, mentre si approssima l’integrazione europea dei titoli di studio e dell’esercizio delle professioni legali, prende forma una illusoria “autonomia universitaria” e decolla una deludente riforma caratterizzata dal cosiddetto sistema dei “crediti formativi”: il tutto nel contesto di facoltà-parcheggio dalle strutture e dalle attrezzature sclerotizzate, popolate per un verso da una moltitudine studentesca sempre meno preparata dagli studi secondari e a rischio di esserlo ancor meno nel futuro, per altro verso da corpi di docenti quotidianamente distolti nel lavoro e dall’attività scientifica da inutili commissioni e progressivamente frustrati nel loro intento di formare criticamente, secondo seri canoni di merito, le nuove generazioni di giuristi”.
Cavanna proseguiva affermando: “è ottima cosa l’idea della laurea breve ed è legittimo che tutti coloro i quali vorranno impegnarsi seriamente in una futura carriera che non sia necessariamente quella dell’avvocato, del magistrato o del notaio aspirino a conseguirla. L’altro rischio che si corre è piuttosto quello di costringere chi vuole proseguire negli studi a farlo con una identica preparazione istituzionale di base”.
L’iter delle varie riforme ha avuto un esito diverso ed oggi vi è solo la laurea in giurisprudenza, cosiddetta “magistrale”, al termine di un corso di studi di cinque anni.
Si dovrebbe tornare, invece, al doppio sistema, che ha avuto vita brevissima. La laurea triennale può essere sufficiente per l’impiego pubblico e privato, mentre la laurea magistrale dovrebbe essere riservata a chi aspira alla carriera accademica, alla magistratura, all’avvocatura, al notariato.
Solo dopo sarà possibile pensare ad un accesso alla professione, con un esame di stato collegato alla frequenza obbligatoria di una scuola retribuita. Pochi lo sanno, ma i medici che frequentano le scuole di specializzazione, ai sensi del D.Lgs. 8 agosto 1991 n. 257, godono di borse di studio a carico del Servizio Sanitario Nazionale.
A mio modestissimo parere, questa, unita ad altre misure (di cui mi riservo di parlare dopo la conversione in legge del decreto), consentirebbe una vera riforma strutturale in grado di portare a livello europeo il mercato dei servizi legali.
Tutto il resto, dalla formazione continua alle specializzazioni, che da anni viene partorito dalla fervida fantasia del sistema degli Ordini, sono chiacchiere, che dimostrano come l’avvocatura organizzata (non i singoli professionisti più avveduti) sia impari rispetto alla sfida che la attende.
Oggi, comunque, la liberalizzazione dell’avvocatura rimane il sogno di una notte di mezza estate.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'agosto 2011)