lunedì 22 agosto 2011

UNA VISIONE CARICATURALE DELLA GIUSTIZIA

A causa della mia professione, mi è accaduto più di una volta di parlare, con varie persone, dei problemi della giustizia.
Si trattava sovente di persone di buona cultura che, nel loro ambito professionale, avevano raggiunto risultati di eccellenza.
Ciononostante ho sentito spesso discorsi che, eufemisticamente, definirei quanto meno irrazionali.
Ho sentito dire che l’apparato giudiziario non funziona, senza che fosse fatta distinzione alcuna tra civile e penale, tra sede giudiziaria e sede giudiziaria. Ho sentito dire che i magistrati non lavorano, atteso che non hanno vincolo di orario e non tengono quasi mai (e non è vero) udienza al pomeriggio, quasi che non fosse necessario, per loro, avere tempo per studiare i processi e scrivere le sentenze. Ho sentito negare pervicacemente l’esistenza di problemi giuridici, sulla base dell’ovviamente erroneo presupposto che i processi sarebbero decisi sulla base di criteri essenzialmente politici.
Una visione caricaturale della giustizia, quindi. Una visione caricaturale, aggiungerei, che è specifica della giustizia: nessuno, infatti, si sognerebbe di attribuire ai medici le nefandezze che attribuisce con nonchalance ai magistrati, anche se è noto a tutti che gli ospedali sono politicizzati certo di più dei palazzi di giustizia e non sempre sono un modello di efficienza. Nessuno avrebbe poi l’ardire di sostenere che le terapie mediche e gli interventi chirurgici vengono eseguiti secondo criteri politici.
All’origine di questa visione caricaturale della giustizia vi è un piccolo gruppo di giornalisti, di cui, per carità di patria, non faccio il nome, ma che tutti conoscono perché costantemente imperversano nei dibattiti televisivi.
Per giustificare la tesi (che non so veramente quanto possa essere in concreto fondata) di un Berlusconi vittima di persecuzioni giudiziarie, iniettando veleni nell’opinione pubblica, costoro hanno accreditato questa idea caricaturale della giustizia, riuscendo a farla accettare ai loro lettori come verità incontrovertibile.
I magistrati in Italia sono complessivamente poco più di 8000: come è naturale, atteso il numero, non si tratta di una categoria del tutto omogenea come preparazione professionale e come approccio al lavoro. Vi sono, quindi, magistrati più o meno preparati, più o meno laboriosi, più o meno efficienti, che più o meno sono attenti agli avvenimenti della politica. Distinzioni che si rinvengono in ogni categoria, dagli avvocati ai commercialisti, dai medici ai dirigenti d’azienda, dai burocrati agli insegnanti.
E’ assolutamente irragionevole, tuttavia, definire i magistrati, come è stato fatto, un cancro. Perché non è vero, non è affatto vero.
Ciò non significa che, nell’ambito della giustizia, tutto funzioni alla perfezione. I problemi ci sono e non sono pochi. Solo in parte sono attribuibili a norme procedurali che consentirebbero comportamenti defatigatori. Anzi, le modifiche a “a pelle di leopardo” del codice di procedura civile realizzate nell’ultimo quindicennio, mandando in frantumi la coerente logica del codice del 1942, hanno creato nuovi problemi più che risolvere i vecchi.
Il problema reale è quello delle strutture. E queste, nei centocinquant’anni trascorsi dall’unità d’Italia, sono palesemente peggiorate. Ho recentemente scoperto su internet (che è una vera miniera di informazioni) il testo digitalizzato di un Annuario statistico della Provincia di Milano e delle Provincie di Lombardia che risale al 1863. Secondo tale Annuario, al circondario di Cremona (Tribunale, Corte d’Assise, Preture) era assegnato un numero complessivo di 43 giudici, a fronte di un totale di 45 avvocati (e di una popolazione che era meno della metà dell’attuale). Io non sono uno storico delle istituzioni e non so dire, quindi, quanto l’ordinamento giudiziario di allora fosse paragonabile a quello attuale.
Mi limito ad osservare che i giudici si sono ridotti di oltre i due terzi, mentre gli avvocati si sono accresciuti di sei volte.
Ogni giorno di più, in conclusione, emerge la necessità di affrontare il problema della giustizia con intelligenza e senza faziosità. Ma dubito che la classe dirigente attuale sia all’altezza di questo non facile compito. Quando ancora mi nutrivo delle illusioni della gioventù, vedevo i ministri come personaggi di altissima caratura politico-amministrativa. Ora, con il disincanto della vecchiaia, vedendo l’azione di certi ministri, mi vien da dire, in dialetto, a fare il ministro in questo modo “sò bòon an me”.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel luglio 2011)

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