venerdì 24 settembre 2010

CON LA MORTE DI MORO FINI’ LA PRIMA REPUBBLICA

Trent’anni sono passati da quel 9 maggio 1978, quando a Roma, in Via Caetani, una strada del centro storico non lontana dalla sede democristiana di Piazza del Gesù e dalla sede comunista di Via delle Botteghe Oscure, fu rinvenuto, nel bagagliaio di una R4 rossa, il corpo senza vita di Aldo Moro, ucciso dalle Brigate rosse, che l’avevano rapito cinquantacinque giorni prima, dopo aver massacrato i cinque uomini della sua scorta.
Quando giunse la notizia della morte di Moro, era riunita la Direzione della Democrazia Cristiana ed aveva da poco iniziato il suo intervento il Presidente del Senato Fanfani, il quale, secondo le unanimi previsioni, si sarebbe pronunciato a favore di una, sia pur cauta, trattativa con i terroristi, volta a salvare la vita dell’ostaggio.
Lo scontro fra il “partito della fermezza” (largamente maggioritario) ed i fautori della trattativa segnarono tutta la vicenda Moro.
L’anniversario, che quest’anno ricorre, ha rinfocolato, nella pubblicistica, vecchie polemiche, in realtà mai sopite, sul fatto se fosse o meno possibile salvare Moro e se vi fosse o meno la volontà di salvarlo.
In realtà, i numerosi volumi pubblicati negli ultimi mesi non aiutano a risolvere il dilemma.
Si tratta però di libri che aiutano chi, in ragione dell’età, non ha memoria personale di quei fatti, a conoscere e comprendere quanto accadde allora.
Ma questa pubblicistica aiuta soprattutto a conoscere la figura di Aldo Moro, che appare lontanissima, come pensiero ed anche come stile, da quella dei politici attuali (nessuno avrebbe mai potuto immaginarlo con una “velina” seduta sulle ginocchia).
Nelle becere polemiche, alimentate da politici ignoranti e giornalisti faziosi, totalmente digiuni della storia recente, cui siamo, da tempo, abituati, Moro, con grossolana faciloneria, è liquidato come un “cattocomunista”. Secondo lo stereotipo, sarebbe stato un personaggio che, sotto il malefico influsso di Giuseppe Dossetti (con il quale, peraltro, non risulta Moro avesse particolari rapporti di frequentazione), mirava solo ad una alleanza fra cattolici e comunisti, che avrebbe allontanato il nostro paese dall’Occidente e dall’Europa.
Il Moro che esce da talune di queste ricostruzioni da “talk show” televisivo è talmente deformato da apparire addirittura macchiettistico.
Moro era professore di istituzioni di diritto e procedura penale nella Facoltà di Scienze Politiche dell’Università “La Sapienza” di Roma. La sua formazione culturale, tuttavia, non era tanto quella del penalista (non fece mai l’avvocato), quanto, piuttosto, quella del filosofo del diritto, che lo portava spesso ad esprimersi in modo involuto. Talune sue analisi della società italiana, tuttavia, rilette a decenni di distanza, appaiono ancora penetranti e suggestive.
Disse, ad esempio, nel suo intervento al Congresso della Democrazia Cristiana del marzo 1976 (l’ultimo cui partecipò): “Questo paese non si salverà e la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere”.
Sono parole che nascono da un’amara consapevolezza di una realtà – nella quale l’Italia viveva – dove veniva sentito come necessario il bisogno di un cambio di rotta, di un mutamento radicale nella società e nella politica. Sono parole di drammatica attualità, senza tempo; parole sulle quali i leaders politici di oggi, dimentichi del fatto che è più facile alimentare le speranze che mantenere le promesse, dovrebbero soffermarsi a meditare.
In particolare, è da sfatare il mito del cattocomunismo di Moro.
Giovanni Galloni, che all’epoca del sequestro Moro era vice segretario della Democrazia Cristiana, in un suo recentissimo libro di memorie (“30 anni con Moro”, pagina 233), riferisce quanto Moro ebbe a dirgli il 20 febbraio 1978, alla vigilia della formazione di quel governo di “solidarietà nazionale”, appoggiato dai comunisti, che avrebbe ottenuto la fiducia il 16 marzo, lo stesso giorno del rapimento di Moro in Via Fani: “Se l’evoluzione in corso sia del Pci che della Dc andrà in porto, se da una parte il Pci compirà i passi decisivi per confermare la sua autonomia da Mosca e noi dall’altra i passi decisivi iniziati con la segreteria Zaccagnini per trasformare il partito, nella sua unità, in un partito popolare espressione di 14 milioni di voti, non potremo certamente presentarci nelle liste elettorali insieme ai comunisti (e cioè accettando il compromesso storico) ma dovremo presentarci agli elettori con una lista autonoma. Da una parte la Dc dovrà raccogliere i voti dei nostri elettori su un programma il più possibile avanzato e cercare la convergenza parlamentare dei partiti laici democratici che non intendono fare il governo con i comunisti, compreso lo stesso partito liberale. Dall’altra, i comunisti presenteranno un programma alternativo di governo, pur avendo in comune con noi i principi fondamentali della Costituzione. Cercheremo, se possibile, di vincere le elezioni su una linea di riforme democratiche rifiutando uno schieramento di destra. Ma anche se dovesse vincere lo schieramento alternativo democratico di sinistra, rimasto fermo sui principi costituzionali della democrazia parlamentare, noi passeremo all’opposizione, ma la democrazia nel paese non sarebbe stata per questo compromessa.
Avremmo raggiunto cioè in Italia la democrazia compiuta”
La “democrazia compiuta”, e cioè una democrazia in cui fosse possibile l’alternanza, era il vero obiettivo della strategia politica di Aldo Moro.
La sua prematura uscita di scena vanificò questo disegno.
Alla “democrazia compiuta” si è arrivati dopo il 1994, dopo che, in un contesto che Moro non poteva certo immaginare, la prima repubblica (e con essa la Democrazia Cristiana che ne era stata il partito egemone), era ingloriosamente finita nel fango, sommersa dal discredito e dagli scandali di tangentopoli.
Come ha scritto il giornalista Andrea Colombo, in un altro volume sulla vicenda Moro, (“Un affare di stato. Il delitto Moro e la fine della Prima Repubblica”), a trent’anni di distanza, l’idea che il 13 maggio 1978 nella basilica di San Giovanni, in occasione della messa in suffragio di Moro, celebrata da Paolo VI in persona, con tutti i protagonisti politici schierati, con i volti terrei, intorno ad una metaforica bara vuota, si siano celebrati finti funerali di Moro (la famiglia aveva voluto esequie privatissime), ma vere esequie della prima repubblica, ha una forza suggestiva quasi invincibile.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2008)

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