martedì 14 settembre 2010

EUROPA, CENTO DI QUESTI GIORNI . . .

Nelle scorse settimane si sono susseguite le celebrazioni per i cinquant’anni della firma dei Trattati di Roma (avvenuta il 25 marzo 1957 nel Salone degli Orazi e Curiazi in Campidoglio), con i quali furono istituite la Comunità economica europea e la Comunità europea per l’energia atomica.
CEE ed Euratom andarono ad aggiungersi alla CECA (il cui Trattato era stato firmato a Parigi il 18 aprile 1951), che riguardava, tuttavia, solo il limitato settore del carbone e dell’acciaio.
Altri hanno già parlato, anche su queste colonne e certamente meglio di me, del significato di cinquant’anni di Europa.
Io mi limiterò ad alcune righe sulla costruzione più originale nata dai Trattati, il diritto comunitario.
Nell’arco di un cinquantennio un nuovo ramo del diritto è nato: ha assunto dignità scientifica, viene insegnato nelle Università e viene quotidianamente applicato, oltre che dall’Amministrazione, da magistrati e avvocati.
Non posso, a questo proposito, esimermi da un ricordo personale. Una ventina d’anni fa, nei corridoi del TAR di Milano, mentre attendevo la chiamata di un ricorso, ricordo che un noto amministrativista, con un atteggiamento misto di superiorità e degnazione, che è tipico di taluni avvocati milanesi, spiegava ai colleghi provinciali (“burini” direbbero a Roma) come il diritto comunitario fosse solo una parte del diritto internazionale, assolutamente irrilevante dal punto di vista pratico.
Mai analisi fu più fallace. E non era difficile capirlo, sin da allora, come lo compresi io, pur nella mia pochezza di avvocato di campagna. Si era infatti alla vigilia della celebre sentenza “Costanzo” (Corte di Giustizia, 22 giugno 1989).
La sentenza fu emessa a seguito di un rinvio pregiudiziale del TAR per la Lombardia, nell’ambito di una causa promossa dalla impresa Fratelli Costanzo, che era stata automaticamente esclusa da una gara di appalto bandita dal Comune di Milano, per la ristrutturazione dello stadio di San Siro in vista dei Mondiali di calcio del 1990, in quanto la sua era un’offerta anomala.
La Corte di Giustizia, nell’affermare il principio della diretta applicabilità delle direttive comunitarie nell’ambito dell’ordinamento statale, stabilì che la direttiva allora vigente in materia di appalti vietava agli Stati di emanare disposizioni che prescrivessero l’esclusione d’ufficio dagli appalti di lavori pubblici di talune offerte determinate secondo un criterio matematico, invece di obbligare l’Amministrazione aggiudicatrice ad applicare la procedura di verifica in contraddittorio prevista dalla direttiva.
Non vi è nulla, quindi, di più sbagliato del voler considerare il diritto comunitario come una sottospecie del più ampio diritto internazionale.
Anche se nasce da Trattati internazionali, il diritto comunitario è profondamente diverso dal diritto internazionale; riassumendo e schematizzando, le differenze principali sono:
1. Mentre le norme del diritto internazionale hanno come unici destinatari gli Stati ed, eventualmente, le organizzazioni internazionali a cui si riconosce soggettività, quelle del diritto comunitario (compresi i Trattati istitutivi) sono dirette anche ad altri soggetti, come i privati e le imprese;
2. Mentre il diritto internazionale ha mezzi molto limitati per indurre i destinatari al rispetto delle norme, il diritto comunitario ha un sistema sanzionatorio e coercitivo che ne garantisce l’attuazione in concreto.
Nell’ambito dell’ordinamento comunitario, esiste anche un organo giurisdizionale, la Corte di Giustizia, la cui elaborazione giurisprudenziale, nel corso degli ultimi decenni, ha profondamente inciso sugli ordinamenti degli Stati, e, in particolare, sull’ordinamento italiano.
Due sono i principi elaborati dalla Corte di Giustizia, che hanno ormai trovato piena cittadinanza nell’ordinamento del nostro paese, il principio di sussidiarietà e il principio di proporzionalità.
Mentre il principio di sussidiarietà riguarda i rapporti fra i vari livelli di governo, il principio di proporzionalità incide molto di più sulla regolazione dell’attività di privati ed imprese, riguardando l’attività amministrativa.
Il principio di proporzionalità rappresenta, senza dubbio, una delle più importanti “scoperte” della Corte di Giustizia.
Esso si risolve essenzialmente nella affermazione dei criteri in base ai quali l’autorità comunitaria non può imporre sia con atti normativi, sia con atti amministrativi, obblighi e restrizioni alla libertà dell’amministrato in misura superiore (e quindi sproporzionata) a quella strettamente necessaria nel pubblico interesse per il raggiungimento dello scopo che l’autorità stessa è tenuta a realizzare.
Ormai il principio di proporzionalità, di matrice comunitaria, anche in forza delle modifiche costituzionali del 2001, è direttamente applicabile nel diritto interno. Secondo la giurisprudenza (TAR Liguria, 25 novembre 2003, n. 1581), esso esige che nel perseguire gli interessi pubblici l’Amministrazione adotti i provvedimenti che incidano sul privato nella misura strettamente necessaria a non aggravare, pregiudicandoli definitivamente, gli interessi di questi.
In conclusione, con buona pace di quel collega milanese del quale parlavo all’inizio, il diritto comunitario deve ormai far parte del bagaglio culturale di ogni giurista.
E vi è da sperare che, a quel collega, il diritto comunitario abbia fatto diminuire la prosopopea ed accrescere l’umiltà.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2007)

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