martedì 14 settembre 2010

UNA FIRMA PER IL REFERENDUM

A poco più di un anno dalle elezioni politiche del 2006, il governo Prodi e la maggioranza che dovrebbe sostenerlo appaiono notevolmente indeboliti. Le cause del fenomeno sono molteplici: vanno dalla debolezza intrinseca della maggioranza (soprattutto al Senato), alla sua litigiosità prossima alla rissa, derivante da forti (se non insanabili) contrasti in materia di politica estera e di politica economico-sociale.
In un sistema politico normale, si andrebbe certamente ad elezioni politiche anticipate: il corpo elettorale, chiamato ad esprimere il proprio giudizio, potrebbe confermare la maggioranza uscente, ovvero premiare l’opposizione.
Un ostacolo praticamente insormontabile si frappone, tuttavia, a una tale soluzione solo apparentemente obbligata. Si tratta della legge elettorale, approvata sul finire della scorsa legislatura e talmente poco apprezzata da essere definita da uno dei suoi stessi padri, il senatore leghista Calderoli, una “porcata”.
Tutti i più importanti esponenti politici, a cominciare dal Presidente della Repubblica, hanno dichiarato che è impossibile andare a nuove elezioni senza aver preventivamente approvato una nuova legge elettorale.
Ma, sui contenuti del nuovo sistema elettorale, i pareri non sono certo concordi, anche perché ogni forza politica valuta un sistema elettorale in funzione dei vantaggi (o degli svantaggi) che dalla sua introduzione potrebbero derivare.
Si è, perciò, creata una situazione di stallo che, forse, solo il referendum potrebbe sbloccare.
In queste settimane (e sino al 24 luglio prossimo) il comitato, guidato dal costituzionalista Giovanni Guzzetta e da Mario Segni (non dimenticato protagonista della stagione referendaria che, tra il 1991 e il 1993, contribuì ad affossare definitivamente il sistema dei partiti della prima repubblica), sta raccogliendo le firme su tre proposte di referendum che, se approvate, dovrebbero modificare in modo apprezzabile il vigente sistema elettorale.
Non si può pensare, tuttavia, che dai referendum possa all’improvviso uscire, come Minerva dalla testa di Giove, un sistema elettorale completamente nuovo. Nell’ordinamento costituzionale italiano, infatti, il referendum, previsto dall’art. 75 della costituzione, è un referendum abrogativo, finalizzato, cioè, ad abrogare, in tutto o in parte, norme di legge.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale (alla quale compete, secondo l’art. 2 della Legge costituzionale 11 marzo 1953 n. 1, di “giudicare se le richieste di referendum abrogativo … siano ammissibili”) ha tracciato distintamente il profilo istituzionale del referendum abrogativo.
L’esame della giurisprudenza della Corte Costituzionale è particolarmente importante, perché si è via via affermato, fra i promotori dei referendum, il tentativo di manipolare il testo legislativo, attraverso la nota tecnica del “ritaglio”, che ha introdotto forme di referendum assai simili, in concreto, ad un referendum propositivo (come tale non previsto dalla Costituzione).
Tuttavia la richiesta di referendum formulata con la tecnica del “ritaglio” è stata dichiarata ammissibile allorquando vi sia la possibilità che l’abrogazione popolare lasci indenne “una coerente normativa residua immediatamente applicabile” (sentenze 4 febbraio 1993 n. 32 e 2 febbraio 1991 n. 47, rese proprio in materia elettorale).
Le richieste di referendum sono state appunto formulate con la tecnica del “ritaglio” e sono finalizzate ad ottenere, attraverso la sapiente soppressione di parole e frasi, variamente collocate nel corpo della legge, una “normativa residua immediatamente applicabile”.
I quesiti che i promotori del referendum vorrebbero sottoporre al corpo elettorale sono tre.
Tale scelta è dovuta al fatto che, sempre secondo la giurisprudenza della Corte Costituzionale, sono inammissibili le richieste di referendum ogni volta che esse contengano una molteplicità di domande eterogenee “carenti di una matrice razionalmente unitaria”, che permetta all’elettore un voto consapevole (sentenza 3 febbraio 1987, n. 29).
Il primo e secondo quesito (uno per la Camera e l’altro per il Senato), prevedono che a beneficiare del premio di maggioranza siano solo le “liste” e non più anche le “coalizioni di liste”. Questo sistema obbligherebbe i partiti, secondo i promotori dei referendum, a formare grandi raggruppamenti aprendo una “prospettiva tendenzialmente bipartitica”. Si innescherebbe, così, un meccanismo virtuoso che ridurrebbe la frammentazione del quadro politico, anche se non è da escludere che forze politiche omogenee formino un’unica lista per partecipare alle elezioni, per poi suddividersi in diversi gruppi parlamentari in competizione fra loro.
Un secondo effetto del referendum è l’innalzamento delle soglie di sbarramento. Per ottenere rappresentanza parlamentare, cioè, le liste devono raggiungere un consenso del 4% alla Camera e dell’8% al Senato.
Il terzo quesito colpisce la possibilità di essere candidato in più circoscrizioni. “Il plurieletto – affermano i promotori – è signore del destino di tutti gli altri candidati la cui elezione dipende dalla propria opzione”. Nell’attuale legislatura, questo fenomeno di “cooptazione” ha coinvolto circa un terzo dei parlamentari.
Se approvati, i quesiti referendari introdurrebbero certamente importanti novità. La riforma per via referendaria, tuttavia, lascerebbe sopravvivere (proprio perché, come si è visto, il referendum è abrogativo e non propositivo) l’impianto proporzionale della legge e non eliminerebbe lo scandalo delle liste bloccate, grazie al quale i parlamentari sono cooptati dai capi partito, al di fuori di qualsiasi possibilità di scelta da parte degli elettori.
Come ha osservato Luca Ricolfi su “La Stampa”, riprendendo gli argomenti dei promotori del referendum, il referendum è comunque preferibile alla assoluta inerzia che, come si è detto all’inizio, caratterizza la posizione delle varie forze politiche in materia elettorale. Le ragioni, secondo Ricolfi, sono presto dette: “primo, un eventuale successo del referendum darebbe all’Italia una legge elettorale imperfetta ma comunque migliore di quella attuale; secondo, il referendum ha già ottenuto il risultato di risvegliare il Parlamento dal suo torpore; terzo, la raccolta delle firme non impedisce in alcun modo al Parlamento di varare una nuova legge elettorale, migliore di quella attuale e migliore di quella che risulterebbe dal referendum”.
Se il Parlamento sembra bloccato dai veti reciproci, il referendum può essere davvero “una pistola carica sul tavolo delle riforme”, per usare la felice definizione coniata da Giuliano Amato.
A Guzzetta, a Segni, agli altri referendari tutto questo è ben chiaro. Sono loro i primi, infatti, a chiedere al Parlamento non una riforma purchessia, ma una buona legge maggioritaria.
Nel frattempo, ai cittadini che hanno a cuore il futuro del paese, non resta che firmare (sempre che trovino i tavoli dove poterlo fare) le richieste di referendum: al termine ultimo del 24 luglio mancano ormai solo pochi giorni.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel luglio 2007)

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