lunedì 27 settembre 2010

SU ELUANA ENGLARO SFIORATA LA CRISI ISTITUZIONALE

Molte polemiche ha suscitato l’iniziativa, assunta dal Governo pochi giorni prima della scomparsa di Eluana Englaro, di emanare un decreto legge che, vietando la sospensione dell’alimentazione e dell’idratazione forzata, impedisse, in concreto, che il decreto della Corte di Appello di Milano, conforme a quanto disposto dalla Corte di Cassazione, trovasse attuazione.
Come si sa, il decreto legge non è stato poi emanato, in quanto il Presidente della Repubblica ha negato la propria firma.
Secondo l’articolo 87 della Costituzione, infatti, compete al Presidente della Repubblica l’emanazione dei “decreti aventi valore di legge”. In proposito, la dottrina ammette che il Presidente della Repubblica possa sempre, in via informale, chiedere chiarimenti ed esprimere i propri rilievi critici al Governo, come è accaduto in questo caso.
Censurabile, quindi, non è stata tanto la lettera inviata da Napolitano al Governo, quanto la sua diffusione alla stampa, per iniziativa di Palazzo Chigi.
Si discute, invece, se il Presidente della Repubblica possa rifiutare il consenso alla emanazione di un decreto legge nell’ipotesi di mancanza del requisito della necessità ed urgenza: la prassi, tuttavia, almeno sin dalla presidenza Pertini, è nel senso di ammettere un controllo presidenziale sugli atti governativi pieno ed effettivo.
I rilievi che, nell’ipotesi concreta, il Presidente della Repubblica aveva mosso all’emanando decreto erano essenzialmente due, la mancanza di requisiti costituzionali di necessità ed urgenza e l’intendimento di vanificare una pronuncia dell’Autorità giudiziaria.
Nella fattispecie, i requisiti di necessità ed urgenza certamente difettavano, come si desume chiaramente dal fatto che il decreto, trasformato subito in disegno di legge, non è stato approvato a tamburo battente, come si suol dire, ma, a distanza di settimane, è ancora all’esame delle aule parlamentari.
Più complesso è, invece, il secondo rilievo del Presidente Napolitano, concernente la violazione “del fondamentale principio della divisione e del reciproco rispetto tra poteri e organi dello Stato”.
Il decreto della Corte di Appello di Milano è stato, infatti, emesso in sede di volontaria giurisdizione, e cioè nell’ambito dell’attività che viene esercitata dal Giudice non per comporre una lite, ma nell’interesse di uno o più soggetti, per il rilascio di autorizzazioni e omologazioni.
Il decreto in esame possiede natura autorizzatoria (in quanto consente al tutore l’attuazione di quanto disposto nel decreto stesso) e può acquistare efficacia esecutiva, pur se non riconducibile alla non pertinente nozione di giudicato. Come tutti i provvedimenti presi in camera di consiglio, è modificabile qualora muti la situazione di fatto che ha portato alla sua emanazione. Secondo un’altra interpretazione, tuttavia, tale decreto si differenzia da altri provvedimenti, in quanto, avendo deciso su contrapposte posizioni di diritto soggettivo, è suscettibile di acquistare autorità di giudicato (in proposito, Cass., 16 aprile 2003, n. 6011).
Inoltre il decreto può sì essere modificato, ma solo su istanza del titolare del diritto inciso, cosicché acquista, comunque, carattere di definitività.
Di fronte ad un siffatto provvedimento, il Presidente della Repubblica ha ritenuto che non si può azzerare, attraverso un decreto legge, una decisione dell’Autorità giudiziaria, pena la lesione irreparabile del principio costituzionale di separazione dei poteri, a garanzia del quale si pone la stessa figura del Capo dello Stato.
Un decreto legge di siffatto contenuto avrebbe certamente avuto un carattere lacerante, per il suo potenziale eversivo, nei confronti dell’ ordine giudiziario.
Le reazioni del Presidente del Consiglio sono state sconcertanti: partito dalla stravagante considerazione secondo cui, nel redigere il testo costituzionale i costituenti si sarebbero ispirati alla Costituzione sovietica del 1936 (tesi subito smentita da uno scandalizzato Andreotti, uno dei pochissimi costituenti superstiti), Berlusconi ha dichiarato che, se il Governo non avesse la possibilità di ricorrere al decreto legge, egli tornerebbe “dal popolo a chiedere il cambiamento della Costituzione”.
Lo scontro fra Governo e Presidente della Repubblica è stato grave e vi è il timore che possa ripetersi in futuro. Si è parlato di “giornata nera” o di “notte della Repubblica”.
Le conseguenze di ulteriori scontri potrebbero essere dirompenti.
Infatti, in astratto, il Governo che contesti il blocco frapposto dal Capo dello Stato ad un decreto legge, potrebbe sempre aprire un conflitto di attribuzioni dinanzi alla Corte costituzionale: bloccando l’entrata in vigore di un decreto, il Presidente della Repubblica assume consapevolmente il rischio di un’eventualità del genere, la quale non esclude, peraltro, che in parallelo possa aversi anche la messa in stato di accusa da parte del Parlamento in seduta comune, laddove questo ravvisi nel comportamento del Presidente della Repubblica, l’attentato alla Costituzione, previsto dall’articolo 90 della Carta.
Se a questo punto si dovesse malauguratamente arrivare, si tratterebbe di un conflitto istituzionale senza precedenti in Italia, di un “vulnus” gravissimo all’equilibrio dei poteri disegnato dalla Costituzione.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel marzo 2009)

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