venerdì 24 settembre 2010

L’EUROPA SI E’ FERMATA A DUBLINO

Il 13 dicembre 2007, a Lisbona fu firmato il Trattato che, sostituendo il Trattato costituzionale europeo (abbandonato dopo che, nel 2005, i francesi e gli olandesi, in due distinti referendum, ne avevano respinto la ratifica), avrebbe dovuto porre fine ad anni di estenuanti negoziati sul nuovo assetto istituzionale dell’Unione europea allargata a 27 Stati membri (e alle cui porte premono, per l’ingresso, altri paesi, prima fra tutti la Croazia).
Da parte di molti si chiedeva, infatti, di abbandonare le questioni sul funzionamento dell’Unione per poter finalmente dedicare risorse ed energie alle nuove politiche comunitarie rese urgenti dalla globalizzazione e da un contesto internazionale sempre più incerto e instabile.
L’obiettivo sembrava essere a portata di mano quando, all’inizio del 2008, tutti i paesi europei – con la significativa eccezione dell’Irlanda – dichiararono di voler procedere alla ratifica del Trattato attraverso un voto parlamentare.
L’entrata in vigore del nuovo Trattato per il 1° gennaio 2009 veniva considerata come il momento di avvio di una nuova fase nella vita dell’Unione.
Era stato però sottovalutato il caso dell’Irlanda, l’unico paese che ha l’obbligo costituzionale di ratificare i trattati internazionali attraverso un referendum.
E, a sorpresa, il 12 giugno 2008, gli irlandesi hanno seccamente respinto il Trattato di Lisbona.
Nel risultato del referendum, ha stupito, in modo particolare, che proprio l’Irlanda avesse detto no al Trattato.
Nell’ultimo decennio, infatti, l’Irlanda ha ricevuto enormi vantaggi economici da Bruxelles, che ne hanno fatto, dal punto di vista economico, quella che oggi viene definita la “tigre celtica”.
Ciononostante, il diniego di Dublino si è unito a quelli di Francia e Olanda di tre anni fa.
Ci si è sforzati, perciò, di capire le ragioni che hanno portato al discredito dell’Unione europea, un’istituzione che tradizionalmente riscuoteva la fiducia dei popoli del vecchio continente.
Viene spontaneo alla mente rilevare che l’integrazione europea non sta funzionando perfettamente, perché non si accompagna ad una vera condivisione popolare degli obiettivi, quella condivisione che certamente esisteva nei primi decenni del dopoguerra.
Sottoposto a referendum, infatti, il nuovo Trattato non vince e non convince. Questo è un fatto, e con i fatti è inutile polemizzare.
L’Europa, infatti, è stata percepita per lo più come un grande organismo burocratico, che ha reso sempre più difficoltosa la vita degli europei.
Ma, come ha scritto Riccardo Perissich nel suo recente volume “L’Unione europea, una storia non ufficiale”, si deve prendere atto che l’Europa, nella sua composizione attuale, non può andare oltre quello che già è: “bisogna accettare che non esistono oggi le condizioni per progredire verso l’unione politica nella composizione attuale”.
La conclusione cui arriva Perissich è la medesima a cui sono inevitabilmente approdati tutti coloro che condividono un approccio federalista: la necessità di andare avanti nel processo di integrazione con chi ci sta.
Ma, secondo Perissich, questo ulteriore passaggio non è affatto scontato: “Nulla di quanto dovrebbe ancora avvenire per completare l’integrazione può essere considerato un prodotto probabile della necessità storica”. Egualmente “nulla di quanto è stato finora realizzato può essere considerato veramente irreversibile”.
Eppure, oggi, perché l’Europa possa decidere il proprio futuro, è indispensabile il salto di qualità costituito dall’integrazione politica, in quanto, senza l’unione politica, anche l’integrazione economica già realizzata può subire contraccolpi ed arretramenti.
Dopo il no irlandese, quali possono essere gli sviluppi possibili? A tale domanda occorre dare una risposta, dato che il Trattato di Lisbona (che pure introduce il principio del voto a maggioranza, senza il quale nessun futuro salto di qualità è ipotizzabile), perché possa entrare in vigore, necessita della ratifica di tutti i 27 Stati membri (attualmente le ratifiche sono 24, compresa quella italiana, avvenuta con voto unanime di Camera e Senato).
Le possibili soluzioni sembrano essere tre:
1) il Trattato non entra in vigore e si mantengono le attuali regole;
2) il Trattato non entra in vigore e se ne elabora un altro;
3) ci si adopera affinché l’Irlanda cambi idea e il Trattato entri in vigore.
Per ragioni diverse, nessuna delle tre soluzioni è facilmente percorribile. La prima è impedita dalla necessità, ormai improcrastinabile, di riformare le istituzioni europee in modo da farle operare per un’Unione allargata a 27 Stati.
La seconda è sbarrata dalla pratica impossibilità di riaprire un negoziato. E sarebbe anche largamente inutile. Un nuovo Trattato non potrebbe, infatti, essere troppo diverso da quello di Lisbona e riproporrebbe i medesimi problemi.
La terza soluzione sembra non praticabile sul piano interno: per quale ragione, infatti, gli irlandesi dovrebbero cambiare idea in assenza di modifiche del Trattato?
Vi è forse una quarta soluzione: l’entrata in vigore del Trattato senza l’Irlanda. Sebbene tale scelta presenti qualche difficoltà tecnica (i parlamenti degli Stati membri che hanno autorizzato la ratifica, lo hanno fatto per un Trattato a 27 e non a 26), la fattibilità di questa soluzione dipende largamente dalla circostanza che nessuno degli altri Stati membri defezioni, o, quanto meno, che non lo faccia uno Stato grande, per esempio la Gran Bretagna.
Contemporaneamente all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, devono però avviarsi i negoziati per l’uscita dell’Irlanda (e di chi altri non ci sta) da tutto il sistema dell’Unione europea. Forse la prospettiva di rinunciare a tutti i diritti e i vantaggi che l’Europa ora silenziosamente e costantemente garantisce renderà, come per incanto, comprensibile anche l’ostico linguaggio del Trattato.
Questa strada ricorda la formazione degli Stati Uniti d’America, sapientemente ricostruita dall’ambasciatore Sergio Romano sul “Corriere della Sera” del 19 luglio 2008: “La prima Carta americana quella confederale del 1777 esigeva che ogni emendamento venisse approvato da tutti i tredici Stati. Quando fu evidente che quella regola non avrebbe mai permesso di migliorare la costituzione per renderla effettivamente federale, i membri della Convenzione, riuniti a Filadelfia nel 1788, decisero che il nuovo testo sarebbe stato valido non appena approvato da almeno nove Stati”.
La costruzione europea è il più importante progetto politico ed economico che sia stato realizzato dopo la fine della seconda guerra mondiale.
Ma se lo si vuole salvare ed evitare il ritorno dei nazionalismi, occorre cambiare l’architettura del progetto medesimo, tenendo conto dei segnali che, da tre anni ormai, provengono dai cittadini europei.
Disegnare un Trattato diverso, circoscritto ai principi generali, ed immaginare una struttura di governo meno invasiva e più democratica è senz’altro difficile.
Ma neppure si può continuare ignorando gli orientamenti che più volte i cittadini europei hanno espresso.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel settembre 2008)

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