mercoledì 15 settembre 2010

LA FINE DELLA FAMIGLIA E L’IMBARAZZO DEI GIURISTI

L’articolo 29, primo comma, della Costituzione afferma che “La Repubblica riconosce i diritti della famiglia come società naturale fondata sul matrimonio”.
I vari progetti di riforma della Costituzione non hanno mai toccato il contenuto della norma e, quindi, non è mai stato neppure ipotizzato un allargamento della garanzia costituzionale in favore di modelli familiari non tradizionali.
Il principio è, ovviamente, presente anche in altri ordinamenti. L’articolo 119 della Costituzione di Weimar (che è un po’ la madre delle moderne costituzioni europee) prevedeva che “Il matrimonio, quale fondamento della vita della famiglia, e del mantenimento e potenziamento della nazione, è posto sotto la speciale protezione della Costituzione”.
Anche l’articolo 6 della Grundgesetz (l’attuale Costituzione della Germania) ribadisce che “Il matrimonio e la famiglia godono della particolare protezione dell’ordinamento statale”.
La stessa Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 10 dicembre 1948) afferma, in modo assai significativo, all’articolo 16, che “La famiglia è il nucleo naturale e fondamentale della società e ha diritto ad essere protetta dalla società e dallo Stato”.
Anche il diritto comunitario, che si ritiene intervenga solo in quei settori del diritto privato correlati al funzionamento del mercato unico, si è posto il problema della tutela morale e giuridica dei membri della famiglia che hanno accompagnato il lavoratore emigrato in un altro paese comunitario.
Va notato che, in tutti questi testi, e, per quanto qui particolarmente interessa, nella Costituzione italiana, il matrimonio non è definito indissolubile. L’Assemblea Costituente scelse di non costituzionalizzare l’indissolubilità del matrimonio, lasciando al legislatore ordinario la possibilità di introdurre eventualmente il divorzio, che entrò a far parte dell’ordinamento italiano con la Legge 1° dicembre 1970 n. 898.
La stessa Cassazione (con la sentenza 13 luglio 1992, n. 8475) ha avuto modo di affermare “che difetta nella Costituzione … un principio di indissolubilità del vincolo coniugale”.
La famiglia cui facevano riferimento i Costituenti (e, credo di poter dire, anche gli estensori della Costituzione di Weimar e della Grundgesetz), anche se non fondata sul matrimonio indissolubile, era la famiglia tradizionale. Sino a non molti anni fa, quando in Italia si parlava di famiglia, si pensava a due coniugi, sposati secondo il rito concordatario (matrimonio canonico con effetti civili), con uno o più figli, nati in costanza di matrimonio.
Questo tipo di famiglia è entrato in crisi. Dalle viscere più profonde della società italiana (non diversa, in questo, da altre società europee) si è avviato un inarrestabile movimento di fondo segnato da un declino sempre più accentuato della famiglia in quanto istituzione sociale ed anche come realtà anagrafica.
Chiunque di noi, passando in rassegna le proprie relazioni familiari, di amicizia, di lavoro, è in grado di stilare un elenco senza fine di matrimoni civili, separazioni, divorzi, convivenze, figli nati fuori dal matrimonio.
Il fenomeno ha persino avuto una ricaduta sul piano linguistico. Un tempo, quando si parlava di compagni, ci si riferiva sicuramente ai militanti dei partiti di sinistra; oggi, invece, il termine indica persone che vivono insieme al di fuori del vincolo del matrimonio.
Secondo ambienti cattolici tradizionalisti (si vedano, per tutti, gli assai frequentati siti internet www.cattoliciromani.com e www.crismon.it) la responsabilità della crisi della famiglia (ma a me pare più realistico usare la parola “fine”) sarebbe di Prodi e di Rosy Bindi, colpevoli di non aver promosso una politica per la famiglia e di aver proposto un disegno di legge (presto arenatosi nelle secche parlamentari) sulle unioni civili (i cosiddetti “DI.CO.”). Peraltro gli esponenti politici che si atteggiano a difensori della famiglia, da Berlusconi a Bossi, da Casini a Fini, sono tutti in situazione personale irregolare (sono divorziati o separati o con figli nati fuori dal matrimonio).
I sostenitori di tale tesi palesemente confondono la causa con l’effetto.
La fine della famiglia, piaccia o no (ed a me, credo di averlo fatto capire, non piace), è un fenomeno epocale che investe tutte le società occidentali, anche quelle in cui una secolare tradizione cattolica avrebbe dovuto incidere in modo più significativo sul costume e sui comportamenti.
Di fronte ad un fenomeno sociale che, guardato con realismo, appare inarrestabile e sempre più difficilmente governabile, il giurista è palesemente nell’imbarazzo. Le soluzioni tecniche sembrano, infatti, inadeguate rispetto al fenomeno sociale e spesso contrastano con i più profondi convincimenti morali del giurista stesso.
I principi costituzionali che dovrebbero disegnare le linee ispiratrici della legislazione ordinaria appaiono anch’essi inadeguati.
Secondo la dottrina costituzionalistica, l’articolo 29 della Costituzione afferma il principio del “favor matrimonii”, pur non autorizzando ad escludere la rilevanza della famiglia di fatto, in quanto ricompresa nel novero delle formazioni sociali espressamente tutelate dall’articolo 2 della Costituzione, tutte le volte che l’unione libera dei genitori assicuri l’adempimento delle funzioni di mantenimento, istruzione ed educazione della prole.
Parimenti, sempre secondo la dottrina, sarebbe tutelabile la convivenza “more uxorio” vissuta in assenza di prole, non potendosi escludere, in via di principio, che in essa si sviluppino valori di ordine spirituale e garanzie di stabilità tali da rappresentare una formazione sociale meritevole di tutela.
E’, tuttavia, evidente che i generalissimi principi costituzionali, con i corollari che la dottrina ne ha fatto discendere, sono del tutto insufficienti a governare un fenomeno sociale che si fa, di giorno in giorno, sempre più dirompente.
Non so dire se il disegno di legge sui DI.CO. fosse o meno adeguato, ma penso che, ad una disciplina delle unioni di fatto, già esistente nella più parte dei paesi europei, si debba prima o poi giungere, se non altro per assicurare ai figli il massimo della tutela possibile ed anche taluni diritti ai “partners” nel caso del venir meno dell’unione.
Una riforma, però, potrebbe essere attuata subito, senza particolare aggravio di costi. Si tratta dell’istituzione del Tribunale della Famiglia, come sezione specializzata del Tribunale ordinario, nel quale si dovrebbero unificare le varie competenze oggi affidate al Tribunale per i minorenni, al Tribunale ordinario, al Giudice tutelare.
Dovrebbe essere possibile rivolgersi ad un unico giudice, davanti al quale discutere tutte le controversie che riguardino sia i genitori coniugati che quelli naturali, sia i problemi di educazione e mantenimento degli figli legittimi e naturali che quelli dei figli adottati, sia i provvedimenti relativi alla potestà genitoriale che i provvedimenti riguardanti la modificazione delle condizioni di separazione e di divorzio.
La famiglia dovrebbe poter essere ascoltata da un unico giudice, anche per evitare che fra i vari provvedimenti vi possano essere contraddizioni.
La fine della famiglia è un fenomeno morale e sociale, prima che giuridico: l’ordinamento può solo sperare di ridurne gli aspetti patologici.


(articolo pubblicato su "La Cronaca" nel novembre 2007)

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