venerdì 1 ottobre 2010

UN’AVVOCATURA DI FIGLI DI PAPA’

Nelle scorse settimane, la Commissione giustizia del Senato, a tappe forzate, ha iniziato l’esame del disegno di legge di riforma della professione forense.
La professione di avvocato è attualmente disciplinata dal R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 e dal R.D. 22 gennaio 1934 n. 37, ai quali, nel tempo, sono state apportate solo modifiche di non rilevante entità.
Tenuto conto dei mutamenti economici e sociali intervenuti dagli anni trenta ad oggi, la riforma era attesa ormai da molto tempo.
Si potrebbe, quindi, ipotizzare che l’avvocatura si accinga a salutare con soddisfazione l’introduzione del nuovo ordinamento, che, nel febbraio scorso, ha ottenuto il convinto “placet” del Consiglio Nazionale Forense, organismo posto al vertice del sistema degli Ordini.
Non è così: basta leggere quotidiani specializzati come “Il Sole 24 Ore” e “Italia Oggi”, ovvero fare qualche rapida ricerca su internet, per avvedersi che i malumori sono parecchi, soprattutto fra le giovani generazioni, che nel disegno di legge Alfano (così chiamato dal nome del ministro proponente) hanno visto una sorta di barriera eretta dal sistema degli Ordini per rendere particolarmente difficoltoso l’ingresso nella professione, a tutela di quanti già esercitano l’avvocatura, nonché dei loro figli e dei loro nipoti.
Critiche corrosive al disegno di legge sono state espresse dal costituzionalista Roberto Bin, con una nota dal significativo titolo “Al Consiglio Nazionale Forense, la consulenza di un giurista potrebbe giovare?”, pubblicata sul sito internet “Forum di Quaderni Costituzionali”.
Le critiche di Roberto Bin si rivolgono contro gran parte del disegno di legge e non sono certo prive di fondamento.
Ma io mi limiterò a parlare delle norme che regolano l’accesso alla professione.
La nuova disciplina prevede che, per essere ammesso alla pratica, il laureato in giurisprudenza (che –non si può dimenticarlo - da qualche anno segue un corso di studi non più quadriennale ma quinquennale), deve superare un test di ingresso da svolgersi con modalità informatiche, presso gli Ordini delle città sede di Corte d’Appello (per intenderci, i cremonesi dovranno svolgere il test a Brescia). È evidente che la previsione di un test d’ingresso per l’iscrizione alla pratica, obbligatoria per sostenere l’esame di abilitazione professionale, svuota di significato la laurea. È, poi, assolutamente irragionevole che sia affidata ad un test (modalità – come è noto - del tutto aleatoria) la valutazione di una preparazione già certificata dal curriculum degli studi universitari.
Il praticante, superato il test, dovrà svolgere la pratica presso uno studio professionale (più o meno come accade ora) e frequentare obbligatoriamente, per non meno di due anni, corsi di formazione “tenuti esclusivamente da Ordini e associazioni forensi”. Le Scuole di specializzazione per le professioni legali, che ormai da nove anni sono organizzate dalle Facoltà di giurisprudenza e che sinora hanno dato un’ottima prova di sé, non saranno più, quindi, un canale di avvio all’avvocatura, ma solo un canale di accesso alla magistratura. Il criterio di fondo che ha determinato l’introduzione di tali Scuole (una base di preparazione comune per magistrati ed avvocati) sarebbe così completamente frustrato.
Dopo alcune verifiche intermedie, il praticante dovrebbe sostenere, a conclusione del corso, un esame finale. I costi dei corsi di formazione potranno, è appena il caso di rilevarlo, essere messi a carico dei praticanti.
L’insieme delle procedure per l’accesso alla professione è destinato a diventare un percorso di guerra. Vi è, infatti, una selezione per diventare tirocinanti; il tirocinio biennale è obbligatorio ed è incompatibile con qualunque altra attività economica (impedendo al praticante di guadagnare qualcosa, che lo metta in condizione di non dipendere ancora in tutto, anche dopo la laurea, dal papà e dalla mamma); il costo dei corsi di formazione può essere messo, in tutto o in parte, a carico del praticante; terminato il tirocinio c’è un’ulteriore selezione per accedere all’esame di abilitazione.
Quando, finalmente, il praticante potrà sostenere l’esame non sarà sicuro di nulla, perché l’aleatorietà dell’esame, specie per quanto riguarda le prove scritte, è, purtroppo, un fatto notorio.
L’esame scritto, che si svolge in aule sovraffollate e caotiche, costituisce poi un autentico stress fisico.
L’alea dell’esame scritto non è solo determinata dai temi assegnati (riguardanti, non di rado, argomenti lontani dall’esperienza maturata negli anni di pratica), ma anche, e soprattutto, dalle modalità con cui vengono corretti gli elaborati.
Se le cose stanno così, si può concludere che l’esame di abilitazione alla professione, considerato nel suo complesso, è, in realtà, finalizzato ad arginare l’accesso alla professione, più che a garantire una adeguata preparazione ai futuri avvocati.
“Quid juris”, come si diceva un tempo?
È evidente che, in futuro ancora più di oggi, solo i rampolli di famiglie abbienti potranno coltivare l’ambizione di accedere all’avvocatura, confermando, ahimè, la teoria di cui qualche praticante pare essere già oggi convinto: fare la pratica legale significa passeggiare sotto il porticato del Tribunale, con un cellulare di ultima generazione in una mano ed una borsa di pelle umana nell’altra.
Tutto questo nonostante l’articolo 34, terzo comma, della Costituzione preveda che “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel giugno 2009)

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