venerdì 8 ottobre 2010

DA NAPOLEONE AL FEDERALISMO: APOGEO E DECLINO DEL PREFETTO

Ha destato scalpore, nei primi giorni di luglio, la riunione, al teatro Capranica di Roma, di oltre 100 prefetti, che hanno detto no ai tentativi, probabilmente per il momento rientrati ma sempre latenti, di abolire l’istituto prefettizio “con il tratto di penna di un emendamento”.
La figura del prefetto, frutto del governo di Napoleone, varcò le Alpi e venne introdotta in Italia con decreto del 6 maggio 1802. Con la caduta di Napoleone e la restaurazione dei precedenti ordinamenti monarchici, il nuovo sistema di organizzazione amministrativa, incentrato sul prefetto, che si era rivelato efficiente, fu mantenuto in vita ad onta del mutato clima politico.
Così accadde anche nel Regno di Sardegna in cui, con la legge Rattazzi (Legge 23 ottobre 1859 n. 3702), il territorio fu diviso in province, con a capo un governatore (il cui nome fu cambiato in quello di prefetto con il R.D. 9 ottobre 1861 n. 250).
Nel 1860, per iniziativa di Cavour, fu istituita, presso il Consiglio di Stato, la Commissione temporanea di legislazione. Frutto dei lavori della Commissione fu il progetto Minghetti sull’ordinamento delle regioni, presentato il 13 marzo 1861.
Marco Minghetti aveva elaborato un progetto di riordino amministrativo ispirato ad un ampio decentramento. La proposta tendeva a conciliare le esigenze del nuovo Stato con le esperienze e le tradizioni di governo locali. Ipotizzava sei grandi unità territoriali da costituire come corpi intermedi tra centro e periferia.
Minghetti proponeva un disegno realmente innovativo, del tutto inedito nel contesto europeo, che si basava sull’idea di uno Stato minimo in grado di enfatizzare il principio del self-government, nel settore cruciale della spesa pubblica, ma anche di preservare il diritto naturale dei cittadini di associarsi in entità fortemente coese.
Purtroppo, alla fine di un lungo dibattito parlamentare, non privo di toni accesi, non si trovò di meglio che estendere all’Italia unita la legge piemontese del 1859. Alla cosiddetta piemontesizzazione dell’amministrazione unitaria si pervenne, infine, con la nuova legge comunale e provinciale (Legge 20 marzo 1865, n. 2245, all. A).
Figura centrale dell’assetto dei poteri locali, delineato da tale legge (che riprende, senza particolari innovazioni, la precedente legge Rattazzi), è il prefetto, struttura portante di raccordo fra centro e periferia.
Secondo l’articolo 3 della legge “il Prefetto rappresenta il potere esecutivo in tutta la provincia; esercita le attribuzioni a lui demandate dalle leggi, e veglia sul mantenimento dei diritti dell’autorità amministrativa elevando, ove occorra, i conflitti di giurisdizione…; provvede alla pubblicazione ed alla esecuzione delle leggi; veglia sull’andamento di tutte le Pubbliche Amministrazioni, ed in caso d’urgenza fa i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami del servizio; soprintende alla pubblica sicurezza, ha il diritto di disporre della forza pubblica, e di richiedere la forza armata; dipende dal Ministro dell’Interno e, ne eseguisce le istruzioni”.
Inizialmente il prefetto aveva il monopolio istituzionale delle relazioni fra il centro e la periferia, ma tale posizione viene rapidamente erosa. Già il R.D. 22 settembre 1867 n. 3956 (la cosiddetta legge Coppino, in materia scolastica) istituiva, nei capoluoghi di provincia, i provveditorati agli studi, in diretta relazione con il Ministero della Pubblica Istruzione. Successivamente, il R.D. 26 settembre 1869 n. 5286 istituiva le intendenze di finanza, uffici alle dirette dipendenze del Ministero delle Finanze. Seguirono gli uffici del genio civile dipendenti dal Ministero dei Lavori Pubblici.
L’istituto prefettizio subisce, quindi, un progressivo indebolimento, con invece la mappa degli uffici periferici statali che si accresce in maniera disordinata; ma, per altro verso, la riduzione del peso del prefetto veniva compensata dall’attribuzione di numerosi altri compiti di ingerenza nell’attività e nell’organizzazione degli enti locali.
Il prefetto godeva della garanzia amministrativa per la quale non poteva essere chiamato a rendere conto dell’esercizio delle sue funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né sottoposto a procedimento penale per alcun atto di tale esercizio senza autorizzazione del re, previo parere del Consiglio di Stato (articolo 8 della Legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. A).
I prefetti rappresentavano un corpo omogeneo per origine sociale e formazione culturale, che coincidevano con la provenienza sociale e con la cultura della classe politica e della ristretta classe dirigente dell’epoca. Furono, probabilmente, queste caratteristiche, piuttosto che le leggi di indirizzo accentratore, che permisero a quei funzionari di realizzare, in pochi anni, la fusione delle province degli Stati preunitari nello Stato nazionale.

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Dopo il fascismo, che si caratterizzò per il tendenziale progressivo assorbimento degli enti locali nell’orbita dell’ordinamento statale, con la compressione di tutti gli spazi di autonomia politica da questi conquistati nell’Italia postunitaria, la Costituzione repubblicana tace dell’istituto prefettizio perché, in seno all’Assemblea Costituente non si raggiunse un accordo in ordine al mantenimento o meno dell’istituto.
Con l’articolo 5, pur scegliendosi una forma di Stato unitaria e non federale, il principio di autonomia locale viene sancito e collocato fra i principi fondamentali del nuovo ordinamento: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
A segnare il confine che separa il modello autonomistico da più modeste forme di decentramento amministrativo, è la presenza, al qua dello stesso, e l’assenza, al di là, di situazioni giuridiche inquadrabili in un regime di garanzie costituzionali. Gli enti locali, infatti, sono autonomi in ragione degli spazi liberi di azione che possono segnare con decisioni imperative provenienti dai loro organi.
Nel 1970, con ventidue anni di ritardo, entra in funzione l’ordinamento regionale. Il prefetto perde, con altre, la sua tradizionale e fondamentale funzione di controllo sugli enti locali ed entra in una sorta di cono d’ombra istituzionale dal quale non è più uscito.
E’ legittimo, quindi, domandarsi se, in uno Stato regionale a forte caratterizzazione autonomistica, se non, almeno in prospettiva, federale, abbia ancora un significato la presenza del prefetto.
E’ ben vero che, fin dai suoi più remoti antecedenti storici, il prefetto si è sempre caratterizzato, in primo luogo, come il referente istituzionale delle istanze statuali unitarie a livello locale.
Ma è altrettanto vero che in nessuno Stato ad organizzazione federale esiste un organo come il prefetto, e cioè un rappresentante del Governo centrale presso le comunità locali: rischierebbe, infatti, di essere un organo autoreferenziale e che amministra solo se stesso. Il futuro destino del prefetto è, alla luce delle riforme istituzionali di cui oggi si parla, incerto ed il prefetto, in prospettiva, rischia, dopo due secoli di servizio, sotto regimi politici diversi, il pensionamento.

(articolo pubblicato su "La Cronaca" nel luglio 2010)

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