venerdì 1 ottobre 2010

L’EUROPA SGRETOLA IL MITO DEL GIUDICATO

L'articolo 324 del codice di procedura civile disciplina il cosiddetto giudicato formale. Esso consiste nella non impugnabilità della sentenza, dal momento in cui non sono più esperibili contro la stessa i mezzi ordinari di impugnazione (appello e ricorso per cassazione).
Il giudicato formale è il presupposto del giudicato sostanziale.
In proposito, l’articolo 2909 del codice civile stabilisce che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.
Per questo, con espressione latina, si dice che il giudicato “facit de albo nigrum, aequat quadrata rotundis”, e cioè cambia il bianco in nero, eguaglia le cose quadrate a quelle rotonde.
Si distingue fra il giudicato interno, cioè formatosi nello stesso processo (riguardante, ad esempio, una sentenza parziale) ed il giudicato esterno, che si è formato in un diverso processo.
In questo quadro di certezze, è venuto a collocarsi il diritto comunitario, di cui non ha tardato ad affermarsi la prevalenza sul diritto nazionale.
Sin con la sentenza 5 febbraio 1963, la Corte di Giustizia ebbe a definire il diritto comunitario quale ordinamento distinto da quello degli Stati membri e con un’autonomia e dignità sue proprie:
“La Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro diritti sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini”.
Compiendo un ulteriore passo in avanti, la Corte di Giustizia, nella decisione, nota agli addetti ai lavori come la sentenza “Simmenthal” (9 marzo 1978), come ricorda il costituzionalista Sergio Bartole nel suo volume “Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana”, ribadì l’opinione che l’applicabilità diretta dei regolamenti comunitari “va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri”. Quel diritto deve avere la preminenza sul diritto interno degli Stati membri, rendendo non solo inapplicabile la loro legislazione preesistente, ma anche impedendo “la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”. Nell’ipotesi di conflitto la piena efficacia dei regolamenti va direttamente garantita dal giudice, senza “chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi procedimento costituzionale” degli atti interni con essi configgenti.
Questo principio, che in Italia dopo qualche iniziale incertezza, è stato sostanzialmente accettato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione, applicato sino alle sue estreme conseguenze, ha ora mandato in frantumi un principio fondamentale come quello del giudicato, nell’ipotesi in cui l’ordinamento nazionale, nell’ambito del quale il giudicato si è formato, sia in conflitto con l’ordinamento comunitario.
Con la sentenza in data 18 luglio 2007 (meglio nota come sentenza “Lucchini”), la Corte di Giustizia ha affermato che “...il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 c.c. del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione dalla Commissione divenuta esecutiva”.
Da questa sentenza emerge un elemento rilevante: un giudicato nazionale non può essere invocato come ostacolo per impedire l’applicazione di regole comunitarie inderogabili. Il primato del diritto comunitario, quindi, non conosce ostacoli nel diritto nazionale, anche a costo di frantumare le più ferme certezze giuridiche.
Qualche giorno fa (con la sentenza “Olimpiclub” del 3 settembre 2009), la Corte di Giustizia ha ribadito che si deve disapplicare il principio dell’autorità del giudicato, sancito dall’articolo 2909 del codice civile, quando esso venga a consacrare un risultato contrastante con il diritto comunitario, frustrandone l’applicazione.
Questo il principio di diritto affermato dai giudici della Corte di Lussemburgo: “Il diritto comunitario osta all’applicazione... di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’imposta sul valore aggiunto concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta”.
In buona sostanza, è ben vero che la Corte di Giustizia ha sottolineato a più riprese che le norme che conferiscono carattere definitivo alle decisioni giurisdizionali o amministrative contribuiscono alla certezza del diritto, che è un principio fondamentale anche per il diritto comunitario.
Ma è altrettanto vero che, dalla giurisprudenza della Corte emerge anche che il principio della certezza del diritto – e il carattere definitivo delle decisioni derivanti da tale principio – non è assoluto nel senso che prevale in ogni circostanza: semmai, esso dev’essere conciliato con altri valori meritevoli di tutela, quali i principi dello stato di diritto e del primato del diritto comunitario, nonché il principio di effettività. Di conseguenza, qualora le norme nazionali, che conferiscono carattere definitivo alle decisioni, ostacolino l’applicazione dei suddetti principi, i giudici nazionali – e, se del caso, gli organi amministrativi – possono essere tenuti a disapplicare tali norme in determinate circostanze.
Le conclusioni cui la Corte di Giustizia è pervenuta possono destare meraviglia in giuristi di formazione tradizionale. Ma, a ben vedere, sono del tutto coerenti non solo con la pluralità di ordinamenti giuridici che coesistono, ma anche con il fatto che uno di tali ordinamenti (quello comunitario) è gerarchicamente sovraordinato agli ordinamenti nazionali.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel settembre 2009)

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