venerdì 1 ottobre 2010

L’EUROPA SGRETOLA IL MITO DEL GIUDICATO

L'articolo 324 del codice di procedura civile disciplina il cosiddetto giudicato formale. Esso consiste nella non impugnabilità della sentenza, dal momento in cui non sono più esperibili contro la stessa i mezzi ordinari di impugnazione (appello e ricorso per cassazione).
Il giudicato formale è il presupposto del giudicato sostanziale.
In proposito, l’articolo 2909 del codice civile stabilisce che “l’accertamento contenuto nella sentenza passata in giudicato fa stato a ogni effetto tra le parti, i loro eredi o aventi causa”.
Per questo, con espressione latina, si dice che il giudicato “facit de albo nigrum, aequat quadrata rotundis”, e cioè cambia il bianco in nero, eguaglia le cose quadrate a quelle rotonde.
Si distingue fra il giudicato interno, cioè formatosi nello stesso processo (riguardante, ad esempio, una sentenza parziale) ed il giudicato esterno, che si è formato in un diverso processo.
In questo quadro di certezze, è venuto a collocarsi il diritto comunitario, di cui non ha tardato ad affermarsi la prevalenza sul diritto nazionale.
Sin con la sentenza 5 febbraio 1963, la Corte di Giustizia ebbe a definire il diritto comunitario quale ordinamento distinto da quello degli Stati membri e con un’autonomia e dignità sue proprie:
“La Comunità costituisce un ordinamento giuridico di nuovo genere nel campo del diritto internazionale, a favore del quale gli Stati hanno rinunziato, anche se in settori limitati, ai loro diritti sovrani, ordinamento che riconosce come soggetti non soltanto gli Stati membri, ma anche i loro cittadini”.
Compiendo un ulteriore passo in avanti, la Corte di Giustizia, nella decisione, nota agli addetti ai lavori come la sentenza “Simmenthal” (9 marzo 1978), come ricorda il costituzionalista Sergio Bartole nel suo volume “Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana”, ribadì l’opinione che l’applicabilità diretta dei regolamenti comunitari “va intesa nel senso che le norme di diritto comunitario devono esplicare la pienezza dei loro effetti, in maniera uniforme in tutti gli Stati membri”. Quel diritto deve avere la preminenza sul diritto interno degli Stati membri, rendendo non solo inapplicabile la loro legislazione preesistente, ma anche impedendo “la valida formazione di nuovi atti legislativi nazionali, nella misura in cui questi fossero incompatibili con norme comunitarie”. Nell’ipotesi di conflitto la piena efficacia dei regolamenti va direttamente garantita dal giudice, senza “chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi procedimento costituzionale” degli atti interni con essi configgenti.
Questo principio, che in Italia dopo qualche iniziale incertezza, è stato sostanzialmente accettato dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione, applicato sino alle sue estreme conseguenze, ha ora mandato in frantumi un principio fondamentale come quello del giudicato, nell’ipotesi in cui l’ordinamento nazionale, nell’ambito del quale il giudicato si è formato, sia in conflitto con l’ordinamento comunitario.
Con la sentenza in data 18 luglio 2007 (meglio nota come sentenza “Lucchini”), la Corte di Giustizia ha affermato che “...il diritto comunitario osta all’applicazione di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 c.c. del codice civile italiano, volta a sancire il principio dell’autorità di cosa giudicata, nei limiti in cui l’applicazione di tale disposizione impedisce il recupero di un aiuto di Stato erogato in contrasto con il diritto comunitario e la cui incompatibilità con il mercato comune è stata dichiarata con decisione dalla Commissione divenuta esecutiva”.
Da questa sentenza emerge un elemento rilevante: un giudicato nazionale non può essere invocato come ostacolo per impedire l’applicazione di regole comunitarie inderogabili. Il primato del diritto comunitario, quindi, non conosce ostacoli nel diritto nazionale, anche a costo di frantumare le più ferme certezze giuridiche.
Qualche giorno fa (con la sentenza “Olimpiclub” del 3 settembre 2009), la Corte di Giustizia ha ribadito che si deve disapplicare il principio dell’autorità del giudicato, sancito dall’articolo 2909 del codice civile, quando esso venga a consacrare un risultato contrastante con il diritto comunitario, frustrandone l’applicazione.
Questo il principio di diritto affermato dai giudici della Corte di Lussemburgo: “Il diritto comunitario osta all’applicazione... di una disposizione del diritto nazionale, come l’art. 2909 del codice civile, in una causa vertente sull’imposta sul valore aggiunto concernente un’annualità fiscale per la quale non si è ancora avuta una decisione giurisdizionale definitiva, in quanto essa impedirebbe al giudice nazionale investito di tale causa di prendere in considerazione le norme comunitarie in materia di pratiche abusive legate a detta imposta”.
In buona sostanza, è ben vero che la Corte di Giustizia ha sottolineato a più riprese che le norme che conferiscono carattere definitivo alle decisioni giurisdizionali o amministrative contribuiscono alla certezza del diritto, che è un principio fondamentale anche per il diritto comunitario.
Ma è altrettanto vero che, dalla giurisprudenza della Corte emerge anche che il principio della certezza del diritto – e il carattere definitivo delle decisioni derivanti da tale principio – non è assoluto nel senso che prevale in ogni circostanza: semmai, esso dev’essere conciliato con altri valori meritevoli di tutela, quali i principi dello stato di diritto e del primato del diritto comunitario, nonché il principio di effettività. Di conseguenza, qualora le norme nazionali, che conferiscono carattere definitivo alle decisioni, ostacolino l’applicazione dei suddetti principi, i giudici nazionali – e, se del caso, gli organi amministrativi – possono essere tenuti a disapplicare tali norme in determinate circostanze.
Le conclusioni cui la Corte di Giustizia è pervenuta possono destare meraviglia in giuristi di formazione tradizionale. Ma, a ben vedere, sono del tutto coerenti non solo con la pluralità di ordinamenti giuridici che coesistono, ma anche con il fatto che uno di tali ordinamenti (quello comunitario) è gerarchicamente sovraordinato agli ordinamenti nazionali.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel settembre 2009)

UN’AVVOCATURA DI FIGLI DI PAPA’

Nelle scorse settimane, la Commissione giustizia del Senato, a tappe forzate, ha iniziato l’esame del disegno di legge di riforma della professione forense.
La professione di avvocato è attualmente disciplinata dal R.D.L. 27 novembre 1933 n. 1578 e dal R.D. 22 gennaio 1934 n. 37, ai quali, nel tempo, sono state apportate solo modifiche di non rilevante entità.
Tenuto conto dei mutamenti economici e sociali intervenuti dagli anni trenta ad oggi, la riforma era attesa ormai da molto tempo.
Si potrebbe, quindi, ipotizzare che l’avvocatura si accinga a salutare con soddisfazione l’introduzione del nuovo ordinamento, che, nel febbraio scorso, ha ottenuto il convinto “placet” del Consiglio Nazionale Forense, organismo posto al vertice del sistema degli Ordini.
Non è così: basta leggere quotidiani specializzati come “Il Sole 24 Ore” e “Italia Oggi”, ovvero fare qualche rapida ricerca su internet, per avvedersi che i malumori sono parecchi, soprattutto fra le giovani generazioni, che nel disegno di legge Alfano (così chiamato dal nome del ministro proponente) hanno visto una sorta di barriera eretta dal sistema degli Ordini per rendere particolarmente difficoltoso l’ingresso nella professione, a tutela di quanti già esercitano l’avvocatura, nonché dei loro figli e dei loro nipoti.
Critiche corrosive al disegno di legge sono state espresse dal costituzionalista Roberto Bin, con una nota dal significativo titolo “Al Consiglio Nazionale Forense, la consulenza di un giurista potrebbe giovare?”, pubblicata sul sito internet “Forum di Quaderni Costituzionali”.
Le critiche di Roberto Bin si rivolgono contro gran parte del disegno di legge e non sono certo prive di fondamento.
Ma io mi limiterò a parlare delle norme che regolano l’accesso alla professione.
La nuova disciplina prevede che, per essere ammesso alla pratica, il laureato in giurisprudenza (che –non si può dimenticarlo - da qualche anno segue un corso di studi non più quadriennale ma quinquennale), deve superare un test di ingresso da svolgersi con modalità informatiche, presso gli Ordini delle città sede di Corte d’Appello (per intenderci, i cremonesi dovranno svolgere il test a Brescia). È evidente che la previsione di un test d’ingresso per l’iscrizione alla pratica, obbligatoria per sostenere l’esame di abilitazione professionale, svuota di significato la laurea. È, poi, assolutamente irragionevole che sia affidata ad un test (modalità – come è noto - del tutto aleatoria) la valutazione di una preparazione già certificata dal curriculum degli studi universitari.
Il praticante, superato il test, dovrà svolgere la pratica presso uno studio professionale (più o meno come accade ora) e frequentare obbligatoriamente, per non meno di due anni, corsi di formazione “tenuti esclusivamente da Ordini e associazioni forensi”. Le Scuole di specializzazione per le professioni legali, che ormai da nove anni sono organizzate dalle Facoltà di giurisprudenza e che sinora hanno dato un’ottima prova di sé, non saranno più, quindi, un canale di avvio all’avvocatura, ma solo un canale di accesso alla magistratura. Il criterio di fondo che ha determinato l’introduzione di tali Scuole (una base di preparazione comune per magistrati ed avvocati) sarebbe così completamente frustrato.
Dopo alcune verifiche intermedie, il praticante dovrebbe sostenere, a conclusione del corso, un esame finale. I costi dei corsi di formazione potranno, è appena il caso di rilevarlo, essere messi a carico dei praticanti.
L’insieme delle procedure per l’accesso alla professione è destinato a diventare un percorso di guerra. Vi è, infatti, una selezione per diventare tirocinanti; il tirocinio biennale è obbligatorio ed è incompatibile con qualunque altra attività economica (impedendo al praticante di guadagnare qualcosa, che lo metta in condizione di non dipendere ancora in tutto, anche dopo la laurea, dal papà e dalla mamma); il costo dei corsi di formazione può essere messo, in tutto o in parte, a carico del praticante; terminato il tirocinio c’è un’ulteriore selezione per accedere all’esame di abilitazione.
Quando, finalmente, il praticante potrà sostenere l’esame non sarà sicuro di nulla, perché l’aleatorietà dell’esame, specie per quanto riguarda le prove scritte, è, purtroppo, un fatto notorio.
L’esame scritto, che si svolge in aule sovraffollate e caotiche, costituisce poi un autentico stress fisico.
L’alea dell’esame scritto non è solo determinata dai temi assegnati (riguardanti, non di rado, argomenti lontani dall’esperienza maturata negli anni di pratica), ma anche, e soprattutto, dalle modalità con cui vengono corretti gli elaborati.
Se le cose stanno così, si può concludere che l’esame di abilitazione alla professione, considerato nel suo complesso, è, in realtà, finalizzato ad arginare l’accesso alla professione, più che a garantire una adeguata preparazione ai futuri avvocati.
“Quid juris”, come si diceva un tempo?
È evidente che, in futuro ancora più di oggi, solo i rampolli di famiglie abbienti potranno coltivare l’ambizione di accedere all’avvocatura, confermando, ahimè, la teoria di cui qualche praticante pare essere già oggi convinto: fare la pratica legale significa passeggiare sotto il porticato del Tribunale, con un cellulare di ultima generazione in una mano ed una borsa di pelle umana nell’altra.
Tutto questo nonostante l’articolo 34, terzo comma, della Costituzione preveda che “i capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi”.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel giugno 2009)

PER QUARANT’ANNI HO LAVORATO ACCANTO A “GRUMI EVERSIVI”

Il 9 giugno prossimo compirò i quarant’anni di professione forense. Infatti, giovane poco più che venticinquenne, il 9 giugno 1969, mi iscrivevo all’albo degli avvocati.
Nel corso di quarant’anni ho conosciuto decine e decine di magistrati, a Cremona e altrove.
Per il tipo di lavoro che ho sempre svolto, ho avuto rapporti, in prevalenza, con giudici civili; ma ho avuto modo di conoscere anche giudici penali e magistrati del Pubblico Ministero. Ho, poi, conosciuto, in modo approfondito, taluni magistrati trovandomi con loro nelle Commissioni Tributarie e nelle Commissioni per gli esami di avvocato, organismi nei quali magistrati ed avvocati lavorano fianco a fianco.
In quarant’anni di lavoro non mi sono mai avveduto, forse per mia distrazione, di avere a che fare con “grumi eversivi”, per utilizzare l’espressione recentemente usata dal Presidente del Consiglio. Di parecchi magistrati, ormai defunti o allontanatisi da tempo da Cremona, serbo sempre un grato ricordo.
Per tutti gli altri ho sempre nutrito sentimenti di stima e di apprezzamento; con qualcuno, infine, mantengo rapporti di personale amicizia.
Non ho mai percepito che fossero, o potessero essere, eversori dell’ordine costituzionale. Se, a qualcuno dei tanti magistrati che ho conosciuto, posso muovere una critica, è quella di decidere appiattendosi forse in modo eccessivo sulla giurisprudenza della Cassazione e manifestando una certa timidezza nel sollevare questioni di costituzionalità e di pregiudizialità comunitaria, nonché nel far propria una interpretazione evolutiva o adeguatrice delle norme. Ho quindi conosciuto non pochi magistrati forse troppo poco “eversori”, rispetto alle mie personali opinioni.
L’espressione usata dal Presidente del Consiglio lascia quindi sconcertati. Viene da dire che, come per l’avvocato il miglior giudice è quello che gli dà ragione (lo dice Piero Calandrei nel suo aureo libretto “Elogio dei giudici scritto da un avvocato”), così per Berlusconi è eversivo il giudice che si occupa di lui, mettendo potenzialmente a repentaglio la sua carriera politica.
I magistrati in Italia sono più di ottomila. Fra di essi, come in ogni categoria di persone o gruppo sociale, vi sono i migliori ed i peggiori, i bravi ed i meno bravi, i colti e i superficiali, i laboriosi e gli sfaticati. Non possono, tuttavia, essere demonizzati nel loro complesso (ricordo quando il Presidente del Consiglio, con espressioni non certo eleganti, definì i giudici “disturbati mentali” e “metastasi della democrazia”).
Soprattutto una caratteristica dei magistrati va tutelata e difesa, come un bene prezioso, la loro indipendenza, che è una garanzia per tutti.
Secondo l’articolo 104 della Costituzione, in- fatti, “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”. Con tale affermazione, la Costituzione chiarisce che l’indipendenza non riguarda esclusivamente i singoli giudici, ma è una qualità che caratterizza la magistratura nel suo complesso.
L’indipendenza dell’ordine giudiziario si fonda sul principio liberale della separazione dei poteri. Nonostante si sia spesso sottolineato come la teoria classica della separazione dei poteri sia stata accolta nel nostro ordinamento solo in via tendenziale, è anche vero che la separazione dell’ordine giudiziario rispetto al legislativo e all’esecutivo costituisce uno dei cardini organizzativi su cui si fonda la Costituzione: l’indipendenza dell’ordine giudiziario complessivamente considerato è, infatti, fortemente garantita nei confronti dei poteri politici, sia di quello esecutivo, sia di quello legislativo. L’indipendenza non implica, però, una separatezza assoluta. I rapporti fra la magistratura e gli organi politici sono stati oggetto di alcune pronunce della Corte costituzionale, dalle quali emerge come l’indipendenza non debba tradursi in conflittualità, ben potendosi, invece, individuare momenti in cui è necessario instaurare rapporti di leale collaborazione.
In particolare, è interessante notare che l’articolo 10 della Legge 24 marzo 1958 n. 195, riguardante la costituzione ed il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura, prevede che il C.s.m. possa, se richiesto, dare pareri al Ministro della Giustizia sui disegni di legge concernenti l’ordinamento giudiziario, l’amministrazione della giustizia e su ogni altro oggetto comunque attinente alle predette materie.
Gli elementi distintivi che caratterizzano l’indipendenza della magistratura (imperniato sul Consiglio Superiore della Magistratura) vanno ricercati nell’approntamento di strumenti di garanzia dell’indipendenza (tanto interna, quanto esterna) di ogni singolo magistrato, nella netta separazione della magistratura (anche quella requirente) rispetto al potere esecutivo, nella configurazione di una struttura amministrativa (con al vertice il C.s.m.), autonoma dall’esecutivo e dagli stessi organi che esercitano la giurisdizione, incaricata dell’esercizio delle funzioni strumentali per il corretto esplicarsi di quest’ultima. E la peculiarità forse maggiore del sistema consiste proprio nella compresenza di questi fattori e nel loro complessivo ed armonico sviluppo.
Non a caso, il sistema delineato dalla Costituzione è stato poi mutuato da Costituzioni più recenti, quali quelle della Grecia, della Spagna, del Portogallo.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2009)

UN PARLAMENTO PER UNA GRANDE PATRIA COMUNE

Tra poco, in tutti i 27 paesi dell’Unione europea, si voterà per l’elezione, a suffragio universale, del Parlamento europeo.
Dalla prima elezione, svoltasi nel 1979 e fortemente voluta dall’allora Presidente francese Valery Giscard d’Estaing, sono passati trent’anni e, in questa occasione, sempre più forti si sono sentite le voci degli euroscettici (fra tutte, quella di Angelo Panebianco sul “Corriere della Sera”), che affermano l’inutilità dell’istituzione o, quanto meno, della sua elezione diretta, a suffragio universale.
Eppure l’elezione diretta del Parlamento europeo (l’organismo esisteva anche anteriormente al 1979, ma era espressione dei Parlamenti nazionali) costituisce uno dei momenti più significativi del grandioso, ed anche faticoso, processo verso l’unità, politica e giuridica, dell’Europa.
Come ha scritto il giudice costituzionale Paolo Grossi nel suo volume “L’Europa del diritto”, il processo di integrazione europea è “grandioso perché si tratta della costruzione di un edificio imponente, che ha ricevuto via via sempre più numerose adesioni di Stati, faticoso perché si tratta di ridurre un arcipelago di isole statuali a un continente politicamente e giuridicamente compatto”.
Come si sa l’Unione europea è un tipo di organizzazione politica che non si inserisce perfettamente né nella dimensione internazionale, in cui pure storicamente nasce, né in quella statale, a cui sicuramente non è ancora approdata. Presenta elementi dell’una e dell’altra dimensione.
Alcune caratteristiche (che la giurisprudenza della Corte di Giustizia non ha mai mancato di mettere in luce) la fanno assomigliare agli ordinamenti statuali. Di contro, nelle riunioni del Consiglio europeo (l’organo politico che riunisce i capi di Stato o di Governo degli Stati membri), si percepisce la dimensione tipica delle organizzazioni internazionali, nelle quali gli Stati regolano, su un piano di parità, i loro affari.
Allo stesso modo, il Parlamento europeo è molto di più della assemblea consultiva di una organizzazione internazionale (come l’Assemblea parlamentare della NATO), senza avere, almeno per il momento, tutti i poteri tipici del Parlamento in uno Stato sovrano.
Nel succedersi dei vari Trattati europei, il Parlamento ha però conosciuto un progressivo accrescimento del suo ruolo e dei suoi poteri, sia sul piano dell’esercizio della funzione legislativa, sia su quello dell’esercizio di una funzione di controllo.
Il ruolo del Parlamento viene aumentato in modo apprezzabile dal Trattato di Lisbona, che, con ogni probabilità, è destinato ad entrare in vigore nel 2010, dopo che, nell’autunno prossimo, si terrà un nuovo referendum in Irlanda, il cui esito, per effetto del mutato clima politico, a seguito della crisi economica internazionale, si ipotizza positivo.
Il Trattato contiene un’affermazione particolarmente significativa circa la posizione ormai acquisita dal Parlamento in seno alle istituzioni comunitarie, là dove si dice che “il Parlamento europeo esercita, congiuntamente al Consiglio, la funzione legislativa e la funzione di bilancio” e si aggiunge che “esercita funzioni di controllo politico e consultive alle condizioni stabilite dai Trattati. Elegge il Presidente della Commissione”.
L’organizzazione del Parlamento europeo corrisponde a quella dei parlamenti statali grazie al potere di autoregolamentazione e autorganizzazione di cui esso dispone. Ogni due anni e mezzo, il Parlamento nomina il suo presidente che organizza e dirige i lavori parlamentari con l’assistenza dell’ufficio di presidenza – del quale fanno parte vicepresidenti e questori – e della conferenza dei presidenti dei gruppi parlamentari. Accanto all’assemblea plenaria del Parlamento, lavorano le commissioni parlamentari permanenti, articolate per materia (oggi ne esistono venti) e le commissioni temporanee, create in genere per compiti di inchiesta o indagine. Lo svolgimento dei lavori parlamentari dipende dai gruppi che vengono costituiti dai parlamentari europei dopo ogni elezione.
I gruppi politici tradizionalmente più forti del Parlamento sono quelli del Partito popolare europeo (che, nato nell’alveo della tradizione democratico-cristiana, si è poi allargato sino a ricomprendere varie formazioni politiche di centro-destra) ed il Partito socialista, cui deve aggiungersi il raggruppamento delle formazioni politiche di derivazione liberale e democratica.
A questi tre gruppi, presenti da sempre nel Parlamento e diffusi in quasi tutti gli Stati dell’Unione, si sono poi aggiunte varie formazioni, di destra e di sinistra, in prevalenza euroscettiche, ed i verdi.
Il Parlamento europeo che i popoli d’Europa si accingono ad eleggere non è, quindi, poca cosa. Né le elezioni europee possono essere soltanto un gigantesco sondaggio sugli orientamenti politici degli elettori, privo di rilevanza pratica.
Può divenire, se avrà la statura politica necessaria (che dipenderà dall’affluenza alle urne dei cittadini europei e dalla personalità degli eletti), il motore dell’Unione europea.
L’Unione europea ed i suoi problemi sono sovente sottovalutati nel dibattito politico. Eppure, come ha scritto un illustre giurista, Sabino Cassese, “l’Unione europea è il maggior successo nella formazione di un sistema di governo sopranazionale, dopo i grandi imperi del passato (il sacro romano impero, quello spagnolo, quello ottomano, quello asburgico, quello inglese).
Nessuna di queste grandi formazioni plurinazionali si è sviluppata in così breve tempo come l’Unione europea (passata in mezzo secolo da una associazione di 6 a una di 27 paesi e da una unione economica a una unione politica). Né alcuna di esse è stata il frutto – come l’Unione europea - di una libera e paritaria associazione di nazioni”.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2009)

NON DIMENTICARE GLI ANNI DI PIOMBO

Oggi 9 maggio, trentunesimo anniversario dell’assassinio di Aldo Moro, si ricordano, con una apposita “Giornata” le vittime del terrorismo.
Le giovani generazioni, ormai, non hanno personale memoria degli anni ’70 e dei primi anni ’80, quando, in un contesto economico assai difficile (l’inflazione giunse a toccare il 23% su base annua), le strade del nostro paese furono bagnate di sangue. Furono uccisi, o anche soltanto “gambizzati” (il che, il più delle volte, significava restare storpi per tutta la vita) magistrati, avvocati, giornalisti, carabinieri, poliziotti, guardie carcerarie, uomini politici di rilievo e non.
Ricordarli tutti sarebbe impossibile. Sarebbe un rosario di nomi che occuperebbe molte colonne di questo giornale.
Fra tutti, desidero fare un solo nome, quello di Maurizio Puddu, consigliere provinciale democristiano di Torino. Fu “gambizzato” dalle Brigate Rosse (e non era certo un esponente dello Stato Imperialista delle Multinazionali, come dicevano, nel loro fumoso linguaggio ideologico, le BR). Feci la sua conoscenza nel lontano 1978. Era invalido, camminava con due bastoni, e, tuttavia, con una serenità che destava ammirazione, cercava di condurre una vita normale (lo conobbi, infatti, in un convegno, in Germania, dove, con grande fatica, era arrivato in aereo). E’ scomparso lo scorso anno, quasi ottantenne, dopo aver dedicato trent’anni di attività all’Associazione delle vittime del terrorismo, purtroppo quasi completamente dimenticato da questa seconda Repubblica, i cui eroi sono, al massimo, i protagonisti del “Grande fratello”.
Di quegli anni ancora ricordo l’ansia con cui, tornato a casa per pranzo, ascoltavo il telegiornale delle 13, ogni giorno con il timore che vi fossero nuove vittime. Ricordo anche come, ad ogni scoperta di un covo brigatista, tremavo al pensiero che potesse essere coinvolto qualche amico o conoscente dei tempi dell’università.
Un’intera generazione, infatti, è stata travolta dagli anni di piombo.
Tanti anni sono passati. Ma, soprattutto quando mi capita di rivedere su youtube i filmati dell’epoca, cosa che consiglio a tutti di fare, devo ribadire a me stesso come sia ripugnante l’atteggiamento di chi ormai tratta i terroristi come reduci di una guerra, perduta ma comunque gloriosa, invitandoli a convegni, dibattiti, tavole rotonde, dimenticando che sono assassini, il più delle volte non pentiti.
Gli anni del terrorismo hanno lasciato anche ferite profonde nella società che, in tanti protagonisti di quegli anni, non sono state cancellate dall’edonismo di quella che ormai siamo abituati a chiamare seconda Repubblica.
Particolare significato avrà, quindi, l’incontro, previsto per oggi al Quirinale, in occasione della cerimonia nella quale Napolitano ricorderà le vittime del terrorismo, fra la vedova di Giuseppe Pinelli e la vedova di Luigi Calabresi, le cui vite si sono incrociate quarant’anni fa, ma che non si sono mai incontrate sinora.
Giuseppe Pinelli, ingiustamente accusato di essere l’autore della strage di Piazza Fontana, e Luigi Calabresi, ingiustamente additato come l’assassino di Pinelli. Il primo morto per un malore (come fu accertato dalla sentenza del Giudice istruttore D’Ambrosio), il secondo freddato sotto casa da un commando di terroristi, dopo essere stato bersaglio di una campagna di stampa durata anni.
Di Gemma Capra, vedova del commissario Calabresi, ci dà un toccante ritratto il figlio Mario Calabresi (giornalista, da poco nominato direttore del quotidiano “La Stampa”) nel suo libro autobiografico “Spingendo la notte più in là”, pubblicato lo scorso anno, in occasione del trentacinquesimo anniversario della morte del padre.
Mentre leggi il libro, ti prende un gran groppo alla gola per la delicatezza e la profondità con cui Calabresi descrive il dolore e il senso di vuoto che prende chi si trova con un marito o un padre ammazzato per strada negli anni di piombo.
Davvero un libro bellissimo, da leggere, per non dimenticare.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2009)

REFERENDUM, ULTIMA CHANCE

Il prossimo 21 giugno, contestualmente al secondo turno delle elezioni provinciali e comunali, si terrà il referendum abrogativo su alcuni punti della vigente legge elettorale che regola le elezioni politiche.
I quesiti che verranno sottoposti agli elettori sono tre.
I primi due quesiti sono sostanzialmente identici e mirano entrambi al medesimo scopo (sono distinti perché si riferiscono l’uno all’elezione della Camera dei Deputati e l’altro all’elezione del Senato). Il quesito vuole attribuire il premio di maggioranza, oggi previsto per la coalizione che abbia ottenuto il maggior numero di voti, alla lista più votata.
Se gli elettori dovessero approvare il quesito, l’impatto sul sistema politico sarebbe assai significativo. Ci si avvierebbe certamente verso un sistema non soltanto bipolare (come già è oggi), ma sostanzialmente bipartitico, nel quale si fronteggerebbero due grandi partiti, uno di centro-destra e l’altro di centro-sinistra, in competizione fra di loro per la conquista di quel premio di maggioranza che garantirebbe una tranquilla maggioranza parlamentare.
Il terzo quesito, se approvato, eliminerebbe la possibilità di candidature plurime, in forza delle quali, attualmente, i “leaders” dei più importanti partiti, attraverso il meccanismo delle opzioni per l’uno o l’altro collegio in cui hanno ottenuto l’elezione, possono, con scelta personale, determinare l’elezione o la bocciatura di numerosi candidati.
E’ chiaro che, essendo il referendum solo abrogativo (consente, cioè, di abrogare parti della legge sottoposta a referendum, ma non di sostituire le disposizioni abrogate con altre, e diverse, disposizioni), non è possibile, attraverso il meccanismo del referendum, porre rimedio al maggior limite della vigente legge elettorale, non a caso definita “porcellum” nel gergo giornalistico.
La legge elettorale, infatti, ha escluso qualsiasi possibilità di scelta personale da parte dell’elettore: sono scomparsi, infatti, sia il collegio uninominale sia le preferenze e l’ elezione avviene secondo l’ordine in cui il candidato è indicato nella lista. Per questo si parla, sempre più spesso, di un Parlamento di “nominati”, anziché di “eletti”.
E’ dubbio, tuttavia, che il referendum riesca a raggiungere lo scopo, sia pure limitato, che si prefigge.
E’ osservazione piuttosto diffusa che del referendum si sia abusato. L’istituto, nato con caratteri di eccezionalità, si è via via snaturato, soprattutto per un uso distorto, che ha avuto l’effetto di incrementare l’astensionismo. Di conseguenza, coloro che, negli ultimi anni, erano contrari ai quesiti sottoposti a referendum hanno preferito fare propaganda per l’astensione, anziché per un voto negativo, per utilizzare, a loro favore, anche il crescente astensionismo fisiologico.
Così, dal lontano 1995, in nessun referendum, ha votato la maggioranza degli aventi diritto al voto, quorum previsto dal terzo comma dell’articolo 75 della Costituzione.
Particolare rilievo ha avuto, quindi, la scelta della data in cui effettuare il referendum che, secondo l’articolo 34 della Legge 25 maggio 1970 n. 352, deve effettuarsi in una domenica compresa fra il 15 aprile ed il 15 giugno.
Se il referendum fosse stato abbinato alle elezioni europee ed alle elezioni amministrative, fissate per il 6 e 7 giugno, il quorum della metà più uno degli aventi diritto al voto avrebbe potuto essere raggiunto facilmente.
Altrettanto non sarebbe accaduto se fosse stata scelta la data del 14 giugno (ultima domenica utile, secondo la legge), che sarebbe venuta a cadere fra il primo ed il secondo turno delle elezioni amministrative.
Alla fine, è stata scelta la data del 21 giugno, che coincide con il secondo turno delle elezioni comunali e provinciali. Ma, per oltrepassare il limite del 15 giugno, è stato necessario approvare un’apposita legge.
Da parte degli oppositori del referendum, si è detto che l’abbinamento con le elezioni europee ed il primo turno delle amministrative non era possibile, perché non consentito dalla Costituzione. Nulla di più falso. Non tanto la Costituzione, quanto l’articolo 34 della già citata Legge 25 maggio 1970 n. 352, vieta il sovrapporsi del referendum alle elezioni politiche, non ad altre elezioni. Tanto è vero che il referendum, originariamente previsto per il 2008, è stato rinviato al 2009, per effetto dell’anticipato scioglimento delle Camere.
Che il problema della data fosse politico più che giuridico è, peraltro, confermato dal fatto che l’abbinamento del referendum con il secondo turno delle elezioni comunali e provinciali è stato possibile.
E’, tuttavia, prevedibile che non molti saranno i ballottaggi per i Comuni e le Province. Non sarà facile, quindi, che il referendum raggiunga il quorum.
Eppure la scadenza è importante ed offre un’occasione forse irripetibile. Gli elettori, con il loro voto, avranno la possibilità di modificare, ancorché parzialmente, un sistema elettorale che ha brutalmente sottratto loro ogni possibilità di scelta. Avranno, ancora, la possibilità di rimettere in moto il meccanismo delle riforme istituzionali da troppo tempo bloccato.
Si dice, da parte di qualche esponente politico (ad esempio, Rutelli), che la legge elettorale che risulterà da una eventuale vittoria dei si al referendum, ove questo raggiungesse il quorum, sarebbe una legge congegnata in modo tale da favorire Berlusconi ed il centro-destra. Ciò, nell’immediato, è senz’altro vero, ma una legge elettorale deve essere concepita per tempi lunghi e non in funzione di una scadenza ravvicinata.
Si può rispondere, quindi, a coloro che temono che il referendum faccia il gioco di Berlusconi, con la celebre affermazione di De Gasperi: “Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione”.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel maggio 2009)

ELOGIO DELLA GIUSTIZIA AMMINISTRATIVA

Negli ultimi mesi, anche a Cremona, varie pronunce rese dai Giudici amministrativi (Tribunali Amministrativi Regionali e Consiglio di Stato), sia in sede cautelare che nel merito, hanno destato vivaci reazioni. Improvvisati opinionisti hanno, di volta in volta, lamentato il fatto che i Giudici amministrativi abbiano il potere di fermare l’esecuzione di importanti opere pubbliche, ovvero di indicare soluzioni che, più correttamente, dovrebbero essere di competenza dell’Amministrazione. Si è detto anche (a proposito di una sentenza del TAR per la Lombardia che ha dichiarato illegittimo un provvedimento regionale riguardante il caso di Eluana Englaro) che non è accettabile che i Giudici amministrativi si possano occupare di ogni cosa, di ogni aspetto della vita sociale.
Non posso certo addentrarmi nell’esame dei casi concreti che hanno formato oggetto di polemica, anche perché, di taluni di essi, ho avuto modo di occuparmi personalmente, sul piano professionale.
Desidero, tuttavia, cogliere l’occasione per spezzare una lancia in favore della giustizia amministrativa che, soprattutto dal 1974, anno di entrata in funzione dei Tribunali Amministrativi Regionali (regolati dalla Legge 6 dicembre 1971, n. 1034), ha assunto un ruolo di primo piano nell’ordinamento italiano.
L’origine della giustizia amministrativa è però ben più risalente nel tempo ed ha la sua origine nella Legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. E. Con l’articolo 2 di tale legge, furono devolute alla giurisdizione ordinaria “tutte la cause nelle quali si faccia questione di un diritto civile o politico, comunque vi possa essere interessata la pubblica amministrazione, e ancorché siano emanati provvedimenti del potere esecutivo o dell’autorità amministrativa”.
L’articolo 3 prevedeva poi che “gli affari non compresi nell’articolo precedente” fossero decisi dalle stesse autorità amministrative a seguito di ricorso delle parti interessate.
Con il R.D. 2 giugno 1889 n. 6166 fu istituita la IV Sezione del Consiglio di Stato (le prime tre sezioni di tale organismo avevano funzioni consultive), cui fu affidata la tutela degli interessi non protetti come diritti e di cui all’articolo 3 di cui si è detto in precedenza. Alla IV Sezione furono successivamente affiancate la V (nel 1907) e la VI (nel 1948). Più tardi, in adempimento della previsione contenuta nell’articolo 125 della Costituzione (che, nell’articolo 113, aveva costituzionalizzato la giustizia amministrativa), furono istituiti i Tribunali Amministrativi Regionali che entrarono in funzione nel corso del 1974. Da allora il Consiglio di Stato è giudice d’appello.
Oggetto dell’attività dei Giudici amministrativi è il giudizio sugli atti amministrativi, che devono essere esaminati non nel merito (e cioè rispetto al contenuto, che non può che essere determinato dall’Amministrazione), ma sotto il profilo della legittimità. I vizi di legittimità dell’atto amministrativo, qualsiasi ne sia il contenuto (i settori più significativi di cui si occupa la giustizia amministrativa, sia detto incidentalmente, sono quelli dei contratti della Pubblica Amministrazione e dell’edilizia ed urbanistica), sono tre, l’incompetenza, la violazione di legge e l’eccesso di potere.
Si ha incompetenza quando l’atto è emanato da una autorità amministrativa che non ha il potere di emetterlo. Mentre è intuitiva la nozione di violazione di legge, più complesso è, per il profano, il concetto di eccesso di potere (da non confondersi con l’abuso d’ufficio, che è un reato).
Si sostiene che l’eccesso di potere costituisce vizio del processo di traduzione del potere amministrativo in atto, correlata all’uso non corretto del potere discrezionale. Secondo la giurisprudenza, l’eccesso di potere si manifesta attraverso figure sintomatiche (mancanza o incongruità della motivazione, sviamento, illogicità ed ingiustizia manifeste, disparità di trattamento, contraddittorietà con precedenti determinazioni, difetto di proporzionalità).
Il Giudice amministrativo, quindi, senza valutare l’atto sotto il profilo della sua opportunità, lo esamina in relazione ai parametri che si sono indicati (incompetenza, violazione di legge, eccesso di potere) e, se lo ritiene illegittimo, lo annulla in tutto o in parte.
E’ evidente, quindi, come il ruolo del Giudice amministrativo sia essenziale, in uno stato di diritto, per assicurare la legalità dell’azione amministrativa. Si tratta di un ruolo assai più penetrante di quello del Giudice penale, il quale ha sì il potere di punire i responsabili di eventuali reati, ma non ha quello di incidere sull’atto amministrativo.
Un giudizio assai negativo, quindi, deve essere espresso sulla proposta di legge n. 2271, presentata il 10 marzo 2009 alla Camera dei Deputati, primo firmatario l’onorevole Scandroglio. Secondo tale proposta di legge (che si propone di integrare la Legge 8 luglio 1986 n. 349, in materia di danno ambientale) le associazioni ambientaliste il cui ricorso sia respinto, perché manifestamente infondato, sono condannate, oltre che alle spese del giudizio, al risarcimento del danno.
E’ naturale che la conseguenza pratica di tale norma, qualora essa fosse approvata, sarebbe la pressoché totale scomparsa dei ricorsi delle associazioni ambientaliste, timorose di vedersi condannate al risarcimento del danno (che potrebbe essere anche assai ingente).
L’intervento del Giudice amministrativo, infatti, non avviene d’ufficio, ma su ricorso di chi vi abbia interesse.
Su questo argomento è intervenuto, molto saggiamente, Giuseppe Petruzzelli, Presidente della Sezione di Brescia del TAR per la Lombardia, nel suo discorso di inaugurazione dell’anno giudiziario del TAR bresciano: ”Da qualche tempo percepisco sui giornali una qualche insofferenza nei confronti dei TAR e dei suoi giudici, ai quali si rimprovera l’invadenza nell’azione amministrativa delle istituzioni, quasi che li pervada un sottile e dispotico compiacimento nel frenare le opere e le azioni della Pubblica Amministrazione. Non è così. Il Giudice amministrativo interviene non d’ufficio, ma perché chiamato a dirimere questioni sorte tra cittadino e P.A., a garanzia della legalità e del buon andamento dell’azione amministrativa. E’ vero, a volte la realizzazione delle opere pubbliche è frenata dall’intervento del Giudice amministrativo. Questi però interviene successivamente, quando l’azione, legittima o meno, dell’Amministrazione pubblica si è ormai dispiegata. Sarebbe opportuno che i critici più impazienti riflettessero su questo punto, quantomeno al fine di non caricare il Giudice amministrativo di colpe che forse andrebbero ricercate altrove”.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nell'aprile 2009)