lunedì 10 settembre 2012

L’EUROPA HA BISOGNO DI UN “DRIZZONE”

Era il giugno 2008, poco più di quattro anni fa. Berlusconi era da poco uscito trionfatore dalle elezioni politiche ed aveva formato un governo forte di una delle più ampie maggioranze parlamentari del dopoguerra. E se ne uscì con la battuta per cui l’Europa aveva bisogno di un drizzone (che ovviamente lui era pronto a dare). Al di là della volgarità plebea dell’espressione (che, lo si intuì, stava per cambiamento o svolta) non si capì mai che cosa Berlusconi avesse in mente. Fu ben presto preso dal bunga bunga  e di drizzone  non parlò più. Anzi si ricordò ancora dell’Europa solo nell’estate 2011, di fronte alla minacciosa crisi dei mercati finanziari, che, qualche mese dopo, avrebbe dato un drizzone alla sua vicenda politica.
Al di là di tutto, però, la crisi economica che ha investito l’intera Europa, e, in particolare, la cosiddetta zona euro fra il 2011 ed il 2012 ha posto in primo piano il futuro dell’Europa, che è apparsa più volte in bilico fra il salto di qualità verso l’unione politica e la disgregazione totale di un progetto che ha avuto inizio nel lontano 1951, con la firma del Trattato di Parigi, istitutivo dalla CECA, la Comunità europea del carbone e dell’acciaio.
I sei paesi firmatari del Trattato CECA, nel 1951, erano da poco usciti da una guerra fortemente distruttiva. Non vi era alcun uomo politico europeo, allora, che non avesse, nella sua storia personale, gli argomenti per opporsi alla pacificazione e al processo di integrazione europea. Ma i leader politici di allora non diedero spazio ai loro, pur comprensibili, risentimenti, senza cedere all’animosità ed al rancore. Il tedesco Adenauer, l’italiano De Gasperi, i francesi Schuman e Monnet e il belga Spaak parlarono del futuro dell’Europa come se il passato non esistesse. Non lo avevano certo dimenticato. Sapevano, però, che ogni polemico riferimento al passato avrebbe alimentato le resistenze nazionali e reso la ricostruzione dell’Europa ancora più difficile.
Da allora sono passati sessantuno anni. Dalla CECA di soli sei paesi, si è passati all’Unione europea a 27 (che diventeranno 28 l’anno prossimo, con l’ingresso della Croazia).
Le competenze di natura economica dell’Unione si sono moltiplicate, con la conseguenza che, mentre nel 1951, le funzioni della CECA erano circoscritte ai settori del carbone e dell’acciaio, oggi non vi è campo dell’economia che non sia regolamentato dall’Unione.
Quello che l’Europa è oggi appare scontato. Nessuno considera, dandolo appunto per scontato, l’enorme vantaggio, dal punto di vista della pace e del benessere, che il mercato unico ha portato.
L’Europa ha dato vita anche ad una moneta comune, l’euro, che ha sostituito le monete nazionali in 17 dei 27 paesi dell’Unione. Una moneta senza uno Stato che la governi è certo un fatto anomalo, dato che è almeno dal secolo XIX che la moneta circola e viene accettata per la fiducia che gli operatori hanno verso lo Stato che l’ha emessa e non per il valore intrinseco dell’oro (o dell’argento) in essa contenuto.
Le conseguenze non sono state felici. L’Unione monetaria, non accompagnata dall’unione bancaria, dall’unione di bilancio e dall’unione politica non si è rivelata all’altezza di far fronte alla speculazione e alla crisi.
La crisi dell’euro ha, di conseguenza, riproposto la necessità di una autorità politica che governi l’Europa, la sua moneta e la sua politica economica. Ho volutamente usato il termine asettico di autorità politica, perché, rispetto agli anni cinquanta, vi è un certo pudore a far uso di parole come Stati Uniti d’Europa, federazione, Stato federale. Eppure il trasferimento della sovranità che vi è stato dagli Stati democratici nazionali al Leviatano tecnocratico di Bruxelles e della BCE non può andare oltre: il trasferimento della sovranità deve avvenire verso autorità che uniscano al carattere sovranazionale la legittimazione democratica.
Questo è il contenuto essenziale della decisione che la Corte Costituzionale tedesca dovrà assumere il 12 settembre prossimo, con riferimento al cosiddetto Trattato del fiscal compact.
Ai ceti politici nazionali; manca una visione strategica europea del nuovo scenario globale. A surrogare questo deficit di capacità della politica europea di porre nuove domande e di dare risposte adeguate, a Bruxelles e Strasburgo si sono gradualmente consolidate classi dirigenti tecnico-burocratiche che, nell’evanescenza della politica europea, si vestono da èlites traenti che “processano” le decisioni a livello dell’Unione.   
Dell’Europa deve quindi riappropriarsi, come nel 1951, la politica.
Infatti proprio la crisi ha mostrato come il sistema intergovernativo dei vertici (Consiglio europeo, Ecofin, Eurogruppo), che si sono succeduti a decine dall’inizio della crisi, sia assolutamente inadeguato come strumento di decisione.
La stessa esperienza del Trattato istitutivo dalla CECA può costituire, ancora oggi, una utile esperienza. Dalla CECA prese vita la CED (Comunità europea di difesa): l’articolo 38 del cui Trattato prevedeva che l’assemblea parlamentare della CED, opportunamente integrata (si parlò, allora, di Assemblea ad hoc) elaborasse un progetto di Trattato istitutivo della Comunità politica europea.
Come si sa, il Trattato della CED fu bocciato dalla Assemblea nazionale francese in una contrastata votazione svoltasi il 30 agosto 1954, che vide uniti nazionalisti e comunisti. Ovviamente, la fine della CED trascinò con sé la Comunità politica europea, che non vide mai la luce.
E’ rimasto, però, il progetto di Statuto, che era stato redatto, in pochi mesi, dalla Assemblea ad hoc. Era un Trattato snello, di poco più di un centinaio di articoli, ben lontano dalla struttura elefantiaca degli attuali Trattati dell’Unione europea.
Lo Statuto della CPE fu il primo progetto costituzionale fondativo di un’Unione di stati e di popoli europei redatto da un’assemblea rappresentativa ufficialmente insediata, a differenza dei diversi documenti costituzionali elaborati da associazioni, movimenti e singoli nel secondo dopoguerra. Lo Statuto, che mirava a fornire una struttura istituzionale completa alla CPE, organizzandone i poteri e delineandone le specifiche competenze, rimase l’unica bozza di costituzione europea fino agli anni ottanta, quando iniziarono ad essere elaborati vari progetti, da cui sarebbero nati l’Atto unico europeo, il progetto – mai entrato in vigore – di Trattato costituzionale europeo ed i Trattati di Maastricht, Nizza e Lisbona.
Nel 2014 si terranno le elezioni europee. Perché gli Stati non potrebbero affidare al Parlamento, come nel 1952 lo affidarono all’Assemblea ad hoc, il compito di redigere un progetto di Trattato di Unione politica? Sarebbe l’unico modo per sottrarre l’Europa agli eurocrati e per restituirla ai cittadini europei. Se l’Unione politica è divenuta indispensabile per salvare il benessere economico degli Stati, non può essere elargita dall’alto, ma deve formarsi attraverso un processo democratico.
E questo è il solo drizzone di cui l’Europa ha veramente necessità.  

domenica 5 agosto 2012

LA CORTE COSTITUZIONALE RAFFORZA L’ISTITUTO DEL RFERENDUM

Non ha destato particolare interesse, se non fra gli addetti ai lavori, la recentissima sentenza della Corte Costituzionale 20 luglio 2012 n. 199. Essa riguarda la materia dei servizi pubblici locali (nella quale sarebbe comunque necessaria una decisa opera di semplificazione e razionalizzazione, anche con l’adozione di un Testo Unico), ma soprattutto afferma un principio assai importante in materia di referendum, istituto di democrazia diretta sempre visto piuttosto malvolentieri dal Parlamento e dalle forze politiche in esso rappresentate.
Per una piena comprensione dell’argomento, è necessario rapidamente ripercorrere le tappe della vicenda. Con uno dei referendum tenutisi il 12 e 13 giugno 2011 (si tratta di uno dei due referendum che comunemente si diceva riguardassero l’acqua) fu abrogato l’articolo 23 bis del D.L. 25 giugno 2008 n. 112, avente ad oggetto la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
L’abrogazione veniva formalmente dichiarata con decreto del Presidente della Repubblica 18 luglio 2011 n. 113. Meno di un mese dopo, l’articolo 4 del D.L. 13 agosto 2011 n. 138, dettava una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che, sia pure con esclusione del servizio idrico integrato, era in buona parte riproduttiva dell’articolo 23 bis, abrogato dal referendum, e di molte disposizioni del Regolamento attuativo di tale articolo.
L’articolo 4 veniva impugnato davanti alla Corte Costituzionale delle Regioni Puglia, Lazio, Marche, Emilia Romagna, Umbria e Sardegna, che, in buona sostanza, lamentavano la violazione del principio (considerato immanente nell’articolo 75 della Costituzione, che disciplina l’istituto del referendum abrogativo), secondo cui non potrebbero essere riprodotta, in un nuovo testo normativo, le norme abrogate per via referendaria, atteso l’effetto vincolante del referendum.
Sciogliendo il nodo, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 4 (e delle successive modificazioni da questo subite in pendenza del giudizio di costituzionalità).
La Corte Costituzionale, dopo aver affermato l’analogia, se non la sostanziale coincidenza, della normativa abrogata per via referendaria con l’articolo 4, rileva che, nella fattispecie sottoposta al suo giudizio, “non può ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato dal novero dei servizi pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica sia satisfattiva della volontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la norma oggi all’esame costituisce, sostanzialmente, la reintroduzione della disciplina abrogata con il referendum”.
Di conseguenza, la disposizione di cui all’articolo 4 “viola il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare”, desumibile dall’articolo 75 della Costituzione.
La Corte così giustifica le conclusioni cui è pervenuta: “Un simile vincolo derivante dall’abrogazione referendaria si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento, né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto.
Tale vincolo è, tuttavia, necessariamente delimitato, in ragione del suo carattere puramente negativo, posto che il legislatore ordinario, pur dopo l’accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere di intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che non siano quelli connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata”.
Tale principio, che la Corte cerca di rafforzare con il richiamo a sue precedenti sentenze del 1990 e del 1993, non era però mai stato espresso così chiaramente. Tanto è vero che l’Avvocatura dello Stato, intervenuta nel giudizio per il Presidente del Consiglio dei Ministri, aveva osservato che la giurisprudenza della Corte Costituzionale, pur avendo rilevato in talune decisioni la non riproponibilità della medesima disciplina abrogata, “non avrebbe mai avuto occasione di specificare la portata di tale preclusione”.
Si può ricordare, a questo proposito, il caso clamoroso del finanziamento pubblico dei partiti; esso, abrogato per via referendaria nel 1993, venne tuttavia ripristinato, pochi mesi più tardi, nella forma dei rimborsi elettorali ai partiti stessi. E’ ben vero che questo caso non è mai stato sottoposto al giudizio della Corte Costituzionale, ma è altrettanto vero che si è sempre sostenuto, non solo da parte dei politici, ma anche da parte della dottrina costituzionalistica che, dopo il referendum, resta inalterato il potere del Parlamento di legiferare nella materia che era stata oggetto del referendum stesso.
In concreto, se si ripercorre la storia dei referendum in Italia, ci si avvede che, sul terreno strettamente politico, spesso i risultati referendari sono stati traditi, sia dai partiti che dai governi.
Dopo la sentenza del 20 luglio 2012, il tradimento sarà indubbiamente più difficile. E il referendum abrogativo, come istituto di democrazia diretta, sarà sempre meno un’illusione e sempre più una realtà.

martedì 3 luglio 2012

IN RICORDO DI “ALDRO”

Aldro” è il soprannome con cui gli amici chiamavano Federico Aldrovandi. Federico (non mi è mai piaciuto il vezzo – diffuso anche a Cremona – di attribuire alle persone un nomignolo derivato dal cognome) era un ragazzo di diciotto anni di Ferrara. Una sera della fine di settembre 2005 si recò con gli amici a Bologna, dove trascorse la notte in una discoteca decisamente “alternativa”. Bevve un po’ e assunse qualche sostanza stupefacente (in quantità moderata, come ebbero poi ad accertare gli esami tossicologici).
Lasciati gli amici, decise di tornare a casa a piedi, ed a Ferrara, in Via Ippodromo, incontrò una pattuglia della polizia. Probabilmente reagì male a qualche richiesta, ma la circostanza non è mai stata chiarita. Vi fu una colluttazione tra Federico e i due poliziotti, che ne chiamarono in aiuto altri due. Lo scontro fu molto violento e Federico morì, con il torace schiacciato sull’asfalto dalle ginocchia dei poliziotti. Erano circa le sei del mattino del 25 settembre 2005. La famiglia fu avvertita solo alle undici. Soprattutto per la tenacia della mamma di Federico, il caso sul quale si era cercato di calare un velo di silenzio insabbiando le indagini, condusse ad un processo penale che si è concluso il 21 giugno 2012 con la condanna definitiva, da parte della Cassazione, dei quattro poliziotti alla pena di tre anni e sei mesi di reclusione per omicidio colposo, di cui tre anni coperti da indulto. Le reazioni scomposte di uno dei quattro poliziotti, che ha avuto la faccia tosta di definire Federico, in una pagina di Facebook, come un “cucciolo di maiale” (meritando da parte del Ministro dell’Interno, che è veramente una “dama di ferro”, l’immediato avvio di un procedimento disciplinare) sono cronaca di questi ultimi giorni.
Ma perché parlo di Federico Aldrovandi? Non certo per ripercorrere le tappe del caso giudiziario (ne è stato tratto anche un bellissimo documentario “E’ stato morto un ragazzo” di Filippo Vendemmiati, trasmesso qualche sera fa da Rai News). Non certo perché personalmente qualcosa mi accomuni a Federico: avrei potuto essere suo nonno e poi non fumo, non bevo alcolici, la musica che lui ascoltava io la percepisco solo come una insopportabile cacofonia. Certo, provo una pena infinita quando penso alla sua giovane vita spezzata in una notte di settembre, quando forse sarebbe bastato l’intervento di un’ambulanza e la somministrazione di un sedativo per risolvere il problema (così risulta dalla sentenza di primo grado). La pena è ancora più forte se penso alla madre, al padre, al fratello.
Ma provo, soprattutto, una forte indignazione civile di fronte ad agenti delle forze dell’ordine, sulla cui protezione tutti dovremmo poter contare, che si lasciano andare ad indicibili atti di violenza contro un ragazzo inerme, sino a massacrarlo e ucciderlo, e che poi cercano di depistare ed insabbiare le indagini, per sfuggire alle conseguenze del loro comportamento.
Le violenze operate da agenti delle forze dell’ordine (che pure hanno pagato un tributo di sangue altissimo nella lotta al terrorismo ed alla mafia) si sono verificate più volte, per fortuna piuttosto di rado con conseguenze letali.
Rispetto a simili evenienze, purtroppo, l’ordinamento italiano è inadeguato, come si può dedurre dal reato di cui erano imputati i poliziotti e dalla pena che è stata loro inflitta.
La Repubblica italiana ha sottoscritto la “Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”, conclusa a New York nel 1984, e l’ha ratificata con Legge 3 novembre 1988 n. 498. La convenzione, per l’Italia, è diventata efficace l’11 febbraio 1989, data del deposito dello strumento di ratifica.
Tale convenzione impone agli Stati che la ratificano l’obbligo di legiferare affinché qualsiasi atto di tortura, come pure il tentativo di praticare la tortura o qualunque complicità o partecipazione a tale atto, siano espressamente previsti come reato nel diritto penale interno.
A tale convenzione, viene riconosciuto il merito, in particolare, di avere per la prima volta fissato dal punto di vista del diritto internazionale una definizione del reato di tortura e di trattamenti e punizioni inumani e degradanti, oltre a sottoporre gli Stati aderenti al monitoraggio permanente del Comitato contro la tortura.
Ciononostante il Parlamento non ha mai introdotto il reato di tortura nel codice penale italiano, anche se, nel 2006, una proposta di legge in tal senso fu approvata dal Senato, ma poi decadde per la fine anticipata della legislatura.
Le ragioni contrarie alla introduzione del reato di tortura sono ben note e presenti nel dibattito internazionale. Sono state determinate, in particolar modo, dalle posizioni assunte negli ultimi anni dai governi di Bush e solo in parte di Obama verso certi metodi di interrogatorio, definiti dall’Amministrazione semplicemente come “duri”, che vengono impiegati nei confronti di detenuti sospettati di attività terroristiche (è la polemica sui detenuti di Guantanamo). La posizione degli organi internazionali preposti alla tutela dei diritti umani, nonché di una parte consistente dell’opinione pubblica mondiale, è che questi metodi siano da qualificarsi, se non come torture vere e proprie, quantomeno come trattamenti inumani e degradanti, vietati dal diritto internazionale.
La mia opinione, tuttavia, è che i tempi siano ormai maturi per introdurre il reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano. Non si può consentire che la tortura rimanga impunita, soprattutto quando la tortura è un atto di violenza esercitato in particolare da pubblici ufficiali nei confronti di persone inermi, allo scopo di spezzarne la volontà di resistenza:  la tortura, per usare le parole del giurista Antonio Cassese, è allora “la faccia perversa e crudele dell’autoritarismo, il modo più rapido e sbrigativo di ‘trattare’ con chi ‘non è d’accordo’” (come Federico Aldrovandi, cui piaceva la musica alternativa e che fumava qualche spinello).
Ciao Federico.
Sit tibi terra levis.

lunedì 18 giugno 2012

LA CORTE COSTITUZIONALE, VOCE VIVA DELLA COSTITUZIONE (*)

Le origini del giudizio di costituzionalità, che è affidato alla Corte Costituzionale, si possono rinvenire negli Stati Uniti.
Fu la storica sentenza della Corte Suprema nella causa Marbury vs. Madison del 1803 che affermò il principio della superiorità della Costituzione rispetto alla legge, chiarendo altresì che il ruolo di tutore della Costituzione è affidato ai giudici.
In questa sentenza si legge: “Il popolo ha il diritto originario di stabilire, per il suo futuro governo, quelle regole che ritiene adeguate al conseguimento della felicità [… ma …] i poteri delle camere legislative sono definiti e limitati; la Costituzione è stata posta per iscritto per evitare che questi poteri siano mal compresi o dimenticati. […] O la Costituzione è una legge superiore, non modificabile con mezzi ordinari, oppure è posta sullo stesso livello degli atti legislativi ordinari e, come tale, sempre modificabile dal potere legislativo. Se la prima parte di questa proposizione alternativa è vera, un atto legislativo contrario alla Costituzione non è legge; se la seconda parte è vera, allora le Costituzioni scritte sono un tentativo assurdo, da parte del popolo, di limitare un potere per sua stessa natura illimitabile”.
Nel continente europeo la tradizione era, invece, quella del costituzionalismo francese che aveva sostituito l’assolutismo monarchico con una sorta di assolutismo parlamentare, che respingeva qualsiasi forma di controllo esterno, in particolare da parte dei giudici.
In questa tradizione si inserisce lo Statuto albertino che costituì la carta fondamentale, prima del Regno di Sardegna e poi del Regno d’Italia, sino al D.Lgs.Lgt. 25 giugno 1944 n. 151, sull’ordinamento provvisorio dello Stato.
Era una costituzione flessibile, non rigida, che poteva essere modificata con legge ordinaria. Tanto è vero che la forma di governo si trasformò quasi subito da costituzionale pura in parlamentare e, poi, con il fascismo, in autoritaria, senza che lo Statuto subisse modifiche.
Ignorava del tutto, lo Statuto albertino, il controllo di costituzionalità. Ma la rigidità della Costituzione, come abbiamo visto, era allora estranea alla cultura europea.
Il mito dell’assolutismo parlamentare entrò in crisi a cavallo fra il XIX ed il XX secolo.
Nella sua prolusione del 1909 all’Università di Pisa, Santi Romano parlò di crisi dello Stato moderno. Il grande giurista palermitano identificava la crisi nel montare e nel crescere di formazioni sociali che, frastagliando la compattezza dello Stato (quella compattezza voluta dal progetto giacobino, ma assai congeniale allo Stato di diritto di marca liberale), lo stava erodendo nel profondo.
Nella prima metà del secolo XX due grandi giuristi, Hans Kelsen e Carl Schmitt, si posero il problema di quale fosse il soggetto istituzionale più adatto a garantire la Costituzione.
Per Kelsen la Costituzione è prima di tutto la principale fonte sulla produzione del diritto ed egli suggeriva il ricorso ad un organo giurisdizionale, una Corte Costituzionale, quale istanza unitaria, in posizione di indipendenza rispetto ai soggetti da controllare.
Per Schmitt, invece, la Costituzione era la decisione politica fondamentale; egli riteneva che la funzione di garanzia dovesse essere affidata a quell’organo che rappresentava l’unità politica del popolo, e cioè il Capo dello Stato cui attribuire poteri di eccezione per i momenti di crisi.
Ma, nel XX secolo, iniziò a farsi strada anche la consapevolezza che il pericolo per la libertà potesse provenire anche dalle assemblee rappresentative e che occorresse un organo che potesse porre freni alla onnipotenza del legislatore, che poteva tradursi in una tirannia.
La posizione di Kelsen risultò, quindi, vincente e la prima Corte Costituzionale, su suo impulso, fu prevista dalla Costituzione austriaca del 1920.
In questo solco, si inserisce la Costituzione italiana del 1948. A differenza che negli Stati Uniti dove vi è un sistema diffuso di controllo di costituzionalità, affidato a tutti gli organi giudiziari, i quali disapplicano le norme in contrasto con la Costituzione, fu scelto un sistema accentrato: il controllo di legittimità è affidato ad un organo costituzionale istituito ad hoc. Questo Tribunale, a differenza del sistema diffuso (per il quale vi è il ricorso alla Corte Suprema), decide in via definitiva con efficacia erga omnes, eliminando dall’ordinamento le norme in contrasto con la Costituzione, e non solo disapplicandole.
La Corte Costituzionale non entrò in funzione subito. La nomina dei 15 giudici fu faticosa e la Corte si insediò il 15 dicembre 1955 e tenne la sua prima udienza il 23 aprile 1956.
Il suo contributo affinché l’ordinamento si conformasse ai principi costituzionali e affinché si affermasse una lettura costituzionalmente orientata delle norme è stata determinante, tanto è vero che si parla della Corte come  viva vox Constitutionis. Nei primi anni successivi all’entrata in vigore della Costituzione, si tendeva a distinguere, fra le norme costituzionali, quelle “immediatamente precettive” da quelle “meramente programmatiche” (secondo una distinzione introdotta dalla giurisprudenza della Cassazione); veniva prospettata anche la teoria secondo cui il sindacato di costituzionalità non potesse estendersi alle leggi antecedenti all’entrata in vigore della Costituzione (come sostenuto dall’Avvocatura dello Stato nella controversia inerente una norma del T.U. di pubblica sicurezza del 1931 che costituì l’oggetto della sentenza n. 1 della Corte).
Di queste teorie fece subito giustizia la stessa Consulta con la sua prima sentenza (14 giugno 1956 n. 1).
Relativamente all’affermarsi progressivo del ruolo della Corte, è di grande interesse la lettura di due splendidi saggi, “Per una storia costituzionale dell’Italia repubblicana” di Livio Paladin e “Interpretazioni e trasformazioni della Costituzione repubblicana” di Sergio Bartole.
Il peso effettivo della Corte, nell’ordinamento costituzionale italiano, ha rappresentato e rappresenta tuttora il tema di giudizi assai diversi, pur avendo la Corte ospitato, nei suoi quasi sessant’anni di vita, alcune delle menti giuridiche più brillanti del paese.
Basterà ricordare, fra i giudici ormai scomparsi, il primo presidente, Enrico De Nicola; Gaspare Ambrosiani, teorico dell’autonomia regionale; il cremonese Giuseppe Cappi (di cui il prossimo anno ricorrerà il cinquantesimo anniversario della morte); i costituzionalisti Costantino Mortati e Livio Paladin; l’amministrativista Aldo M. Sandulli; il romanista Giuseppe Branca; il processualista Virgilio Andrioli.
Ha scritto Paolo Grossi, attuale giudice della Consulta, che la Corte, nell’ordinamento giuridico italiano, ha rappresentato un organo sommamente garantistico per il cittadino, che trova in essa il presidio delle sue libertà fondamentali.
In conclusione, occorre ribadire che tutte le funzioni della Corte Costituzionale sono riconducibili “ad un principio fondamentale unitario: garantire e rendere praticamente operante il principio di legalità che il nuovo ordinamento dello Stato ha esteso a livello costituzionale, sottoponendo al rispetto delle norme costituzionali anche gli atti degli organi politici statali, nonché i rapporti intercorrenti tra questi ultimi e quelli tra Stato e regioni” (Corte cost., 17 febbraio 1969 n. 15). Questa attività appartiene alla fisiologia di un ordinamento a costituzione rigida, che contempla, anche se non impone, un organo di giustizia costituzionale. Tuttavia, la Corte, nel tempo ha dovuto anche supplire alle inadempienze e ai ritardi del Parlamento e del Governo,  disarticolando, a colpi di sentenze, non solo gran parte dell’apparato normativo preesistente all’entrata in vigore della Costituzione, ma anche leggi successive che ledevano valori fondamentali dalla medesima espressi, implicitamente dichiarando l’illegittimità anche dell’indirizzo politico del quale erano espressione. Non può negarsi che la Costituzione della Repubblica italiana – naturalmente si parla della Costituzione vigente – risulta parzialmente corrispondente a quella che la Corte ha statuito che sia, e molti suoi articoli vanno ormai letti, interpretati e attuati alla luce delle sentenze costituzionali, facendo della Corte la viva vox Constitutionis. In conseguenza di ciò, ha occupato uno spazio di intervento, che a mano a mano si è esteso e serve a caratterizzare la stessa Corte come organo dotato di una “forza politica”, pur senza appartenere alla politica: “l’incidenza delle sue inappellabili decisioni, la rilevanza che assumono le motivazioni delle sue sentenze (e gli obiter dicta in esse spesso contenuti), la diffusa (ma, in un certo senso, inevitabile) tendenza a sostituirsi al legislatore inadempiente hanno fatto assumere alla Corte un ruolo che, almeno secondo l’originario disegno costituzionale, essa non era chiamata a svolgere; per cui alla Corte sono oggi affidati poteri sostanziali di indirizzo politico, pur nel quadro complessivo delle sue funzioni,  dirette ad assicurare il pieno rispetto della Costituzione”, come ha affermato il costituzionalista Temistocle Martines. Eppure, nessun rischio corre la tenuta delle nostre istituzioni a causa di una giustizia costituzionale protesa alla massima tensione di garanzia: essa, infatti, “protegge la Repubblica e per questo limita la democrazia, perché vale a preservarne il carattere di specificazione della Repubblica. La sua funzione è precisamente di evitare che qualcuno, una parte soltanto, s’impadronisca della “cosa di tutti”, estromettendo l’altra parte dalla proprietà comune. In breve: la  giustizia costituzionale è una “funzione repubblicana”. In questa definizione di poche parole c’è tutta la sua importanza e la sua dignità e non c’è nessuna ragione di arrampicarsi sugli specchi per cercare a ogni costo di assegnarle un’innaturale natura democratica, di cui essa non ha alcun bisogno, che ha anzi da temere”, come ha scritto l’ex presidente della Consulta Gustavo Zagrebelsky in “Principi e voti. La Corte Costituzionale e la politica”, un aureo libretto la cui lettura mi sento di consigliare anche ai non tecnici del diritto.

(*) Questo scritto costituisce una rielaborazione e una sintesi dell’intervento svolto in occasione del seminario “Il giudizio di costituzionalità: un giudice costituzionale a confronto con un avvocato e un magistrato”, tenutosi a Cremona il 15 giugno 2012 con l’intervento del giudice costituzionale Giuseppe Frigo.

sabato 2 giugno 2012

ANCORA SOLDI AI PARTITI?


Dopo lo scandalo scoppiato per l’uso improprio (ed usando questo aggettivo faccio certamente dell’understatment) dei fondi pubblici erogati a titolo di rimborsi elettorali alla Margherita ed alla Lega Nord, il Parlamento, fra titubanze e rinvii, sta discutendo della riforma del finanziamento pubblico ai partiti.
L’articolo 49 della Costituzione, per quanto riguarda i partiti, si limita ad affermare che “Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Cionondimeno i partiti politici hanno avuto un ruolo assai significativo nella storia del nostro paese nel dopoguerra. Non a caso Pietro Scoppola, nel pubblicare, nel 1991, al declinare della prima Repubblica, la sua storia dell’Italia repubblicana, ebbe significativamente a denominare la sua opera “La Repubblica dei partiti”.
L’articolo 49 è uno dei primi esempi di riconoscimento in una costituzione moderna del ruolo dei partiti politici. Per l’inserimento della nuove realtà dei partiti politici, l’Assemblea costituente scelse il riferimento alla libertà dei singoli, incentrato sulla visione dei partiti quali “libere associazioni” di cittadini. La scelta, appare ovvio, fu motivata dal rifiuto del modello di partito – stato che aveva contrassegnato l’esperienza fascista e che, in quegli stessi anni, dominava nell’Unione sovietica e si andava affermando nelle “democrazie popolari” dell’Est europeo.
Nell’Europa di oggi, mentre alcuni paesi (Estonia, Ungheria, Slovenia) includono la loro disciplina dei partiti all’interno del più generico riconoscimento della libertà di associazione, il modello prevalente (Portogallo, Germania, Italia, Francia) è costituito da una esplicita previsione della libertà di riunirsi in partiti, inserita nell’ambito della categoria dei diritti politici, più che come una specificazione delle libertà civili.
I partiti sono, quindi, preordinati alla formazione della volontà dello Stato. Pertanto, da una parte, le associazioni politiche appartengono alla società civile, dall’altra parte svolgono funzioni di carattere costituzionale, concorrendo a determinare la politica nazionale ed operando, in via pressoché esclusiva, la selezione dei candidati alle elezioni.
Anche l’articolo 191 del Trattato istitutivo dalla Comunità europea riconosce il ruolo dei partiti affermando che “I partiti politici a livello europeo sono un importante fattore per l’integrazione in seno all’Unione. Essi contribuiscono a formare una coscienza europea e ad esprimere la volontà politica dei cittadini dell’Unione”.
E’ chiaro, quindi, che la libertà, per i cittadini, di associarsi in partiti è elemento distintivo del pluralismo politico che contraddistingue gli stati democratici.
Peculiarità italiana, scarsamente ravvisabile nei paesi democratici di tradizione occidentale, è la partitocrazia, termine con il quale si indica un regime politico in cui il potere effettivo ha il suo centro nei partiti e non negli organismi previsti dalla Costituzione e dalle leggi (che si limitano a dare veste legale a quanto deciso altrove).
Il termine fu coniato dal costituzionalista Giuseppe Maranini che lo usò, per la prima volta, nel 1949, nella sua prolusione all’Università di Firenze, intitolata “Governo parlamentare e partitocrazia”.
La partitocrazia, che ha fatto della democrazia italiana un regime sui generis (perché mai, per essere primari in un ospedale, è quasi sempre necessario appartenere ad un movimento politico?), si è consolidata anche grazie al finanziamento pubblico dei partiti. Questo istituto fu introdotto dalla Legge 2 maggio 1974 n. 195.
Fu abrogato da un referendum svoltosi nell’aprile 1993, in cui il 90,3% dei votanti ebbe ad esprimersi in senso contrario al finanziamento.
Ma fu, pochi mesi dopo, reintrodotto (dalla Legge 10 dicembre 1993 n. 515) nella forma dei rimborsi elettorali.
Tale legge, successivamente modificata ed integrata (da ultimo con la Legge 23 febbraio 2006 n. 51) non è, di per sè, illegittima: l’abrogazione di una norma a seguito di un referendum non impedisce, infatti, al Parlamento di approvare una nuova norma di contenuto simile a quella abrogata. Ma è politicamente riprovevole e assolutamente immorale.
Le somme erogate negli ultimi anni a favore dei partiti politici sono certamente cospicue e superiori alle oggettive spese elettorali. Mentre gli italiani tirano la cinghia per la crisi economica che sempre più si fa sentire, i mezzi di informazione hanno parlato di finanziamenti pubblici utilizzati per l’acquisto di oro e diamanti, ovvero per le spese personali di taluni dirigenti e dei loro familiari.
L’indignazione provocata da tali accadimenti è notizia di questi giorni. Parlarne esula, peraltro, dalle finalità che mi propongo.
Il finanziamento pubblico dei partiti in generale, non è cosa cattiva e, non a caso, è previsto in vari ordinamenti. Ha, palesemente, lo scopo di impedire che l’attività politica sia di fatto preclusa alle persone che non dispongono di cospicui mezzi personali. Così era nell’Italia liberale postunitaria, quando non esisteva neppure l’indennità parlamentare e venivano eletti deputati quasi esclusivamente i grandi proprietari terrieri, gli industriali, i professionista più noti, i docenti universitari.
Cionondimeno nell’attuale contesto politico, sociale, economico dell’Italia, il finanziamento pubblico ai partiti è inaccettabile.
I politici che non se ne accorgono, e non sono pochi, hanno, me lo si consenta, le fette di salame sugli occhi.
Come già si è detto, i partiti sono strumenti indispensabili nelle democrazie moderne. Sono irresponsabili quei politici che, con il loro stesso comportamento, alimentano la crisi di rigetto degli elettori nei confronti dei partiti.

 
(articolo pubblicato sul quotidiano cremonese on-line Cremonaoggi.it nel giugno 2012)

IL REBUS DEL DANNO ALL’AMBIENTE

In questi giorni, il mondo politico cremonese è in fibrillazione. Si discute se il Comune di Cremona debba o meno costituirsi parte civile in un procedimento penale che vede imputati, per reati di natura ambientale, alcuni dirigenti della Tamoil. Nel comune sentire, il diritto all’ambiente è senz’altro annoverato fra i diritti fondamentali della persona. Eppure nella Costituzione (che – non lo si deve dimenticare – riflette la cultura degli anni quaranta del novecento), non si rinviene un riferimento espresso all’ambiente e alla sua tutela, come si trova, invece, nell’articolo 66 della Costituzione portoghese del 1976, nell’articolo 45 della Costituzione spagnola del 1978, negli articoli 72 e 73 della Costituzione slovena del 1991. Eppure l’ambiente costituisce un valore trasversale nell’ordinamento giuridico, che necessita di adeguata tutela, in quanto primario per il benessere psicofisico e lo sviluppo della persona umana. Per trovare un fondamento costituzionale alla tutela ambientale, da un lato si è interpretato in senso notevolmente estensivo il dettato dell’articolo 9, dilatando il significato del termine “paesaggio” ivi contenuto, dall’altro lato si è estratto dal diritto alla salute genericamente inteso (e tutelato dall’articolo 32) il diritto ad un ambiente salubre. La Corte costituzionale ha definito indirettamente il diritto all’ambiente (nella sentenza 28 maggio 1987 n. 210) partendo dalla definizione del danno arrecato a tale diritto come “pregiudizio arrecato, da qualsiasi attività volontaria o colposa, alla persona, agli animali, alle piante e alle risorse naturali (acqua, aria, suolo, mare), che costituisce offesa al diritto che vanta ogni cittadino individualmente e collettivamente. Trattasi di valori che in sostanza la Costituzione prevede e garantisce (artt. 9 e 32 Cost.), alla stregua dei quali, le norme di previsione abbisognano di una sempre più moderna interpretazione”. La questione del risarcimento del danno all’ambiente è intrinsecamente connessa alla nozione di diritto all’ambiente ed alla sua configurazione giuridica. A tale proposito, ancora la Corte costituzionale ha negato (nella sentenza 30 dicembre 1987 n. 641) che l’ambiente possa essere “oggetto di una situazione soggettiva di tipo appropriativo: ma, appartenendo alla categoria dei c.d. beni liberi, è fruibile dalla collettività e dai singoli. Alle varie forme di godimento è accordata una tutela civilistica la quale, peraltro, trova ulteriore supporto nel precetto costituzionale che circoscrive l’iniziativa economica privata (art. 41 Cost.) ed in quello che riconosce il diritto di proprietà, ma con i limiti della utilità e della funzione sociale (art. 42 Cost.). E’, inoltre, specificamente previsto il danno che il bene può subire. Esso è individuato come compromissione (dell’ambiente) e, cioè, alterazione, deterioramento o distruzione, cagionata da fatti commissivi o omissivi, dolosi o colposi, violatori delle leggi di protezione e di tutela e dei provvedimenti adottati in base ad esse. La responsabilità che si contrae è correttamente inserita nell’ambito e nello schema della tutela aquiliana (art. 2043 cod. civ.)”. Non è semplice risolvere il problema dell’appartenenza di un bene per sua natura immateriale come l’ambiente ed individuare quindi quale sia il soggetto titolare del diritto al risarcimento laddove il diritto all’ambiente subisca una lesione. Come ha scritto Giuliano Amato, l’ambiente è un bene pluridimensionale, cosicché “il danno ambientale presenta una triplice dimensione: personale (quale lesione del diritto fondamentale dell’ambiente di ogni uomo); sociale (quale lesione del diritto fondamentale dell’ambiente nelle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità umana, art. 2 Cost.); pubblica (quale lesione del diritto-dovere pubblico delle istituzioni centrali e periferiche con specifiche competenze ambientali)”. Oggi l’azione risarcitoria per il danno ambientale è disciplinata dall’articolo 311 del Codice dell’ambiente (D. Lgs. 3 aprile 2006 n. 152) , il cui primo comma prevede che “il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale”. Tale norma è chiara nell’attribuire, in via esclusiva, la legittimazione ad agire per il risarcimento del danno ambientale in capo al solo Ministero dell’ambiente, che è stato individuato quale soggetto operativamente responsabile alla luce di quanto previsto dall’articolo 11 della direttiva 2004/35/CE. In questo senso, la norma ha caducato l’autonoma legittimazione a chiedere il risarcimento del danno ambientale in capo agli enti territoriali (Comuni, Province, Regioni), diversi dallo Stato. E’ stato, infatti, abrogato l’articolo 18 della Legge 8 luglio 1986 n. 349, secondo cui l’azione di risarcimento del danno ambientale, anche in sede penale, oltre che dallo Stato, poteva essere promossa “dagli enti territoriali sui quali incidono i beni oggetto del fatto lesivo”. Così pure è stato abrogato l’articolo 9, terzo comma, del T.U. sull’ordinamento degli enti locali (D.Lgs. 18 agosto 2000 n. 267) che prevedeva il risarcimento del danno ambientale a favore degli enti locali stessi. Così pure è stata soppressa la legittimazione delle associazioni ambientaliste, anch’essa prevista dal già citato articolo 18. Chi scrive (che non è un raffinato giurista, ma, al più, un modesto avvocato di campagna) nutre qualche dubbio sulla legittimità costituzionale della norma che limita al Ministro dell’ambiente la legittimazione ad agire per il ristoro del danno ambientale. Se, come si è visto, il diritto all’ambiente è costituzionalmente garantito ed il conseguente danno all’ambiente ha carattere pluridimensionale, non si vede perché la titolarità dell’azione risarcitoria debba essere limitata al solo Ministro dell’ambiente. Ma vi è di più. La nozione di danno ambientale è desumibile dall’articolo 300 del Codice dell’ambiente, in cui sono stati trasfusi i principi contenuti nella direttiva 2004/35/CE: “è danno ambientale qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”. Secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale (nella già citata sentenza 30 dicembre 1987 n. 641), il danno all’ambiente “è certamente patrimoniale, sebbene sia svincolato da una concezione aritmetico-contabile e si concreti piuttosto nella rilevanza economica che la distruzione o il deterioramento o l’alterazione o, in genere, la compromissione del bene riveste in sé e per sé e che si riflette sulla collettività la quale viene ad essere gravata da oneri economici”. Come ha ritenuto la Consulta, la quantificazione del danno non può quindi rispondere a criteri astrattamente aritmetici e contabili, in quanto non è dato prescindere da una valutazione d’insieme della rilevanza sociale delle lesioni – immediate ed istantanee, differite e permanenti – arrecate al valore ambiente nella molteplicità di aspetti che involge. Nel 2008, la Cassazione si è discostata da questo orientamento propendendo per la natura non patrimoniale del danno all’ambiente, sulla base della considerazione che la compromissione dell’ambiente trascende il mero pregiudizio patrimoniale derivato ai singoli beni che ne fanno parte, in quanto il bene pubblico deve essere considerato unitariamente per il valore d’uso da parte della collettività, quale elemento determinante della qualità della vita della persona (sentenza del 10 ottobre 2008 n. 25010). La natura patrimoniale del danno all’ambiente non esclude, di per sé, che gravi fenomeni di inquinamento, oltre al danno all’ambiente, possano provocare altre forme di danno risarcibile. Si può, ad esempio, ritenere che, da siffatti fenomeni, possa derivare quello che la giurisprudenza ha definito come danno esistenziale, e cioè il danno non patrimoniale derivante da lesione di valori della persona costituzionalmente garantiti. Se si ritiene che il diritto all’ambiente faccia parte di tali diritti, si deve pervenire alla conclusione per cui la lesione del diritto all’ambiente possa determinare anche quei danni non patrimoniali che vengono definiti come esistenziali. Il diritto al risarcimento di tali danni compete certamente ai singoli che dall’inquinamento o dal disastro ecologico sono stati lesi (essendo costretti, ad esempio, a cambiare abitazione: si veda la sentenza della Corte d’Appello di Milano del 15 aprile 1994 n. 667, sul noto caso “Seveso”). Ma tale diritto potrebbe essere riconosciuto anche al Comune che, secondo l’articolo 3, secondo comma, del T.U. sull’ordinamento delle autonomie locali, è ente esponenziale della propria comunità, legittimato ad agire per la tutela degli interessi riferibili alla collettività dei residenti sul suo territorio. Il Comune, inoltre, potrebbe aver subito, jure proprio, un danno all’immagine che è risarcibile anche in capo agli enti pubblici. Ritornando, in conclusione, all’argomento iniziale, mi corre l’obbligo di dire che, a mio modestissimo avviso (ma – debbo ripeterlo – sono solo un avvocato di campagna e non appartengo ad uno degli studi milanesi oggi tanto di moda), non sussistono ostacoli insormontabili, di ordine giuridico, a che il Comune di Cremona si costituisca parte civile nel processo penale relativo all’inquinamento della Tamoil, anche perché l’unico rischio che il Comune correrebbe sarebbe quello di una eventuale inammissibilità della costituzione. Se, invece, nel rispetto formale (per non dire formalistico) dell’articolo 311 del Codice dell’ambiente, il Comune insistesse a non volersi costituire parte civile, sarebbe almeno interessante conoscere se e quando, ai sensi dell’articolo 309 sempre del Codice dell’ambiente, il Comune di Cremona si sia attivato nei confronti del Ministro dell’ambiente perché questo intervenisse, secondo le sue competenze. Se, invece, gli ostacoli frapposti alla costituzione di parte civile non fossero giuridici ma di carattere politico, sarebbe tutt’altro discorso (che non competerebbe certo a me di affrontare).

(articolo pubblicato sul quotidiano on-line Cremonaoggi.it nel maggio 2012)

giovedì 2 febbraio 2012

NAPOLITANO COME DE GAULLE

Il protagonista assoluto della vita politica italiana nel corso del 2011 è stato – a detta unanime di tutti gli osservatori – il Presidente della Repubblica Napolitano.
Da ultimo, egli ha saputo, in modo non traumatico, pilotare il passaggio dal Governo Berlusconi al Governo Monti.
La grande stampa internazionale ha colto pienamente il significato del ruolo svolto da Napolitano. “Re Giorgio” lo ha definito il “New York Times”, mentre il quotidiano francese “Le Monde” lo ha paragonato a De Gaulle.
Il paragone sembrerebbe azzardato, in quanto i due personaggi, De Gaulle e Napolitano, non potrebbero essere più diversi.
De Gaulle, guida della Resistenza francese contro i nazisti, era un militare d’antico stampo, un “monumento vivente”, come lo si definiva. Ritiratosi a vita privata dopo la guerra, fu richiamato al potere nel 1958, nel momento in cui la drammatica crisi algerina era sul punto di travolgere la IV Repubblica, dilaniata dalle lotte fra i partiti ed incapace di decidere alcunché. In pochi anni, oltre a concedere l’indipendenza all’Algeria ed a tutta l’Africa francofona, restituì la Francia al ruolo di grande potenza facendone, sia pure in modo non sempre coerente, la protagonista del processo di unificazione europea. Il nome di De Gaulle è soprattutto legato alla Costituzione della V Repubblica, che fu vista allora come una svolta autoritaria, ma che, invece, nell’arco di oltre un cinquantennio, ha garantito alla Francia stabilità e sviluppo. Oggi la Francia ha un sistema politico invidiato in tutta Europa, invidiato soprattutto da noi italiani che, negli anni sessanta, fummo severi critici della V Repubblica e del gollismo.
Talune posizioni di De Gaulle (come il veto all’ingresso della Gran Bretagna nella Comunità europea, che infatti avvenne solo nel 1973 sotto il successore di De Gaulle) apparivano allora quasi ottocentesche, ma, rimeditate oggi alla luce di quanto poi accaduto, anche nelle ultime settimane, appaiono straordinariamente moderne ed attuali.
Ben diversa è la figura di Giorgio Napolitano. L’attuale Presidente della Repubblica è stato per molti anni un dirigente comunista, assolutamente ligio alle direttive del partito. In lui, tuttavia, prima che in altre personalità del più grande partito comunista dell’Occidente, fu palese l’evoluzione verso posizioni tipiche delle socialdemocrazie europee. Mentre, nel 1956, appoggiò la repressione sovietica in Ungheria, già nel 1968 fu a fianco della “primavera di Praga”, contestando l’invasione sovietica della Cecoslovacchia. Fu poi il primo dirigente comunista italiano a visitare gli Stati Uniti e ricoprì le cariche di Presidente della Camera dei Deputati e di Ministro dell’Interno. Parlamentare europeo, fu anche Presidente del Consiglio italiano del Movimento europeo.
Ciononostante, il paragone fatto da “Le Monde” è meno azzardato di quanto potrebbe, ad una prima impressione, sembrare.
Come De Gaulle, Napolitano si è trovato a dover affrontare la più significativa crisi che l’Italia abbia conosciuto nel dopoguerra. A tale scopo, ha interpretato i poteri presidenziali in modo estensivo, facendo sì che il suo ruolo si discostasse da quello puramente cerimoniale (tipico, ad esempio, del Presidente della Germania), avvicinandosi a quello, decisamente più politico, che è proprio del Presidente francese (ruolo che fu appunto modellato da De Gaulle). Per comprendere questa evoluzione, può essere utile la lettura di un recente volume di Mammarella e Cacace, “Il Quirinale. Storia politica e istituzionale da De Nicola a Napolitano”, edito da Laterza.
Resta un punto fermo: in Italia, il Presidente della Repubblica opera all’interno della forma di governo parlamentare declinata dalla Costituzione, i cui compiti sono dati dalla responsabilità politica del Governo nei confronti del Parlamento, al cui raccordo è stata attribuita la funzione di indirizzo politico, e della corrispondente irresponsabilità del Presidente della Repubblica.
Secondo la dottrina, il ruolo sempre più significativo ricoperto dal Presidente della Repubblica, a partire dalla presidenza Pertini, trova il suo fondamento nel fatto che il Presidente “rappresenta l’unità nazionale”, così come stabilito dall’articolo 87 della Costituzione.
Secondo alcuni studiosi, “la rappresentanza dell’unità nazionale costituirebbe il fondamento per un rapporto diretto con l’opinione pubblica, quale fonte di legittimazione autonoma per farsi voce di esigenze che non si sono ancora coagulate sufficientemente a livello istituzionale, giustificando alla fine l’esistenza di un indirizzo politico del Presidente della Repubblica, anche contro i soggetti legittimati dalla Costituzione”.
Il ruolo giocato da Napolitano nel corso del 2011 e, in particolare, nella crisi che ha segnato il passaggio da Berlusconi a Monti, conferma che, nell’ordinamento costituzionale italiano, la figura del Presidente della Repubblica ha caratteri di indubbia flessibilità. Infatti, in proposito, si è affermato che il Capo dello Stato, proprio per l’innegabile flessibilità della sua figura, può ridursi ad organo puramente cerimoniale e simbolico, oppure, all’estremo, può trasformarsi in organo politico preminente.
Può quindi ritenersi insita nella Costituzione una sorta di “vis expansiva” della figura presidenziale. L’espansione, poi, si verifica in concreto in funzione della situazione politica contingente.
Di converso, può quindi affermarsi che non è in atto una lenta ed irreversibile trasformazione del Presidente della Repubblica in un Presidente alla francese, baricentro dell’intero sistema politico. Anzi, si può ritenere che, in una fase politica meno drammatica, i poteri del Presidente potrebbero tornare ad essere più circoscritti di quelli conosciuti nell’arco del 2011, proprio in forza della flessibilità di cui si è detto.


(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel mese di dicembre 2011)