domenica 5 agosto 2012

LA CORTE COSTITUZIONALE RAFFORZA L’ISTITUTO DEL RFERENDUM

Non ha destato particolare interesse, se non fra gli addetti ai lavori, la recentissima sentenza della Corte Costituzionale 20 luglio 2012 n. 199. Essa riguarda la materia dei servizi pubblici locali (nella quale sarebbe comunque necessaria una decisa opera di semplificazione e razionalizzazione, anche con l’adozione di un Testo Unico), ma soprattutto afferma un principio assai importante in materia di referendum, istituto di democrazia diretta sempre visto piuttosto malvolentieri dal Parlamento e dalle forze politiche in esso rappresentate.
Per una piena comprensione dell’argomento, è necessario rapidamente ripercorrere le tappe della vicenda. Con uno dei referendum tenutisi il 12 e 13 giugno 2011 (si tratta di uno dei due referendum che comunemente si diceva riguardassero l’acqua) fu abrogato l’articolo 23 bis del D.L. 25 giugno 2008 n. 112, avente ad oggetto la disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica.
L’abrogazione veniva formalmente dichiarata con decreto del Presidente della Repubblica 18 luglio 2011 n. 113. Meno di un mese dopo, l’articolo 4 del D.L. 13 agosto 2011 n. 138, dettava una nuova disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, che, sia pure con esclusione del servizio idrico integrato, era in buona parte riproduttiva dell’articolo 23 bis, abrogato dal referendum, e di molte disposizioni del Regolamento attuativo di tale articolo.
L’articolo 4 veniva impugnato davanti alla Corte Costituzionale delle Regioni Puglia, Lazio, Marche, Emilia Romagna, Umbria e Sardegna, che, in buona sostanza, lamentavano la violazione del principio (considerato immanente nell’articolo 75 della Costituzione, che disciplina l’istituto del referendum abrogativo), secondo cui non potrebbero essere riprodotta, in un nuovo testo normativo, le norme abrogate per via referendaria, atteso l’effetto vincolante del referendum.
Sciogliendo il nodo, la Consulta ha dichiarato l’illegittimità dell’articolo 4 (e delle successive modificazioni da questo subite in pendenza del giudizio di costituzionalità).
La Corte Costituzionale, dopo aver affermato l’analogia, se non la sostanziale coincidenza, della normativa abrogata per via referendaria con l’articolo 4, rileva che, nella fattispecie sottoposta al suo giudizio, “non può ritenersi che l’esclusione del servizio idrico integrato dal novero dei servizi pubblici locali ai quali una simile disciplina si applica sia satisfattiva della volontà espressa attraverso la consultazione popolare, con la conseguenza che la norma oggi all’esame costituisce, sostanzialmente, la reintroduzione della disciplina abrogata con il referendum”.
Di conseguenza, la disposizione di cui all’articolo 4 “viola il divieto di ripristino della normativa abrogata dalla volontà popolare”, desumibile dall’articolo 75 della Costituzione.
La Corte così giustifica le conclusioni cui è pervenuta: “Un simile vincolo derivante dall’abrogazione referendaria si giustifica, alla luce di una interpretazione unitaria della trama costituzionale ed in una prospettiva di integrazione degli strumenti di democrazia diretta nel sistema di democrazia rappresentativa delineato dal dettato costituzionale, al solo fine di impedire che l’esito della consultazione popolare, che costituisce esercizio di quanto previsto dall’art. 75 Cost., venga posto nel nulla e che ne venga vanificato l’effetto utile, senza che si sia determinato, successivamente all’abrogazione, alcun mutamento, né del quadro politico, né delle circostanze di fatto, tale da giustificare un simile effetto.
Tale vincolo è, tuttavia, necessariamente delimitato, in ragione del suo carattere puramente negativo, posto che il legislatore ordinario, pur dopo l’accoglimento della proposta referendaria, conserva il potere di intervenire nella materia oggetto di referendum senza limiti particolari che non siano quelli connessi al divieto di far rivivere la normativa abrogata”.
Tale principio, che la Corte cerca di rafforzare con il richiamo a sue precedenti sentenze del 1990 e del 1993, non era però mai stato espresso così chiaramente. Tanto è vero che l’Avvocatura dello Stato, intervenuta nel giudizio per il Presidente del Consiglio dei Ministri, aveva osservato che la giurisprudenza della Corte Costituzionale, pur avendo rilevato in talune decisioni la non riproponibilità della medesima disciplina abrogata, “non avrebbe mai avuto occasione di specificare la portata di tale preclusione”.
Si può ricordare, a questo proposito, il caso clamoroso del finanziamento pubblico dei partiti; esso, abrogato per via referendaria nel 1993, venne tuttavia ripristinato, pochi mesi più tardi, nella forma dei rimborsi elettorali ai partiti stessi. E’ ben vero che questo caso non è mai stato sottoposto al giudizio della Corte Costituzionale, ma è altrettanto vero che si è sempre sostenuto, non solo da parte dei politici, ma anche da parte della dottrina costituzionalistica che, dopo il referendum, resta inalterato il potere del Parlamento di legiferare nella materia che era stata oggetto del referendum stesso.
In concreto, se si ripercorre la storia dei referendum in Italia, ci si avvede che, sul terreno strettamente politico, spesso i risultati referendari sono stati traditi, sia dai partiti che dai governi.
Dopo la sentenza del 20 luglio 2012, il tradimento sarà indubbiamente più difficile. E il referendum abrogativo, come istituto di democrazia diretta, sarà sempre meno un’illusione e sempre più una realtà.

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