martedì 28 dicembre 2010

IN RICORDO DI VITTORIO GREVI

La mattina del 5 dicembre 2010, sfogliando, come d’abitudine, i quotidiani, sono rimasto sgomento nel leggere la notizia della scomparsa repentina di Vittorio Grevi, fra i più grandi giuristi della mia generazione, professore ordinario di Procedura penale nell’Ateneo pavese, colpito da un fulmineo attacco di leucemia.
Conobbi Vittorio Grevi in anni assai lontani. Nel 1962, quando mi iscrissi alla Facoltà di Giurisprudenza all’Università di Pavia, lui frequentava già il secondo anno (secondo il linguaggio goliardico io ero quindi una matricola e lui un fagiolo).
All’epoca, erano iscritti alla facoltà poco più di un centinaio di studenti e, pertanto, ci si conosceva tutti. Lui era un brillantissimo studente del Collegio Ghislieri e, per me (che frequentavo l’altro Collegio storico pavese, il Borromeo), era un modello sotto ogni punto di vista.
Fu con me prodigo di consigli e di suggerimenti. Quasi pareva avesse una conoscenza innata del diritto, quel diritto che tanto faticava ad entrare nella mia dura cervice, refrattaria spesso alla comprensione dei più raffinati concetti giuridici.
In realtà, aveva un’intelligenza, accompagnata da una dedizione agli studi, quale di rado mi è accaduto poi di incontrare nel corso della mia lunghissima attività forense.
Si laureò brillantemente in procedura penale, studiò ancora a Torino con Giovanni Conso (che ora, quasi novantenne, piange il prediletto fra i suoi allievi) e, a soli 29 anni, era già ordinario di Procedura penale, dopo un breve periodo di insegnamento a Macerata, nell’Università di Pavia, la sua città, che non volle mai abbandonare.
Con il mio ritorno a Cremona dopo la laurea, le nostre strade si separarono. Io iniziai la professione di avvocato (a giugno saranno quarantadue anni), occupandomi, nella mia pochezza di provinciale, prevalentemente di diritto pubblico.
Vittorio Grevi, invece, dedicò l’intera sua vita alla carriera accademica; non praticò mai l’avvocatura, anche per non alterare la sua capacità di giudizio scientifico.
Socio fondatore dell’Associazione studiosi del processo penale, sono innumerevoli le sue pubblicazioni in materia di Procedura penale, sovente in collaborazione con il suo maestro Giovanni Conso. Componente di varie Commissioni governative per il nuovo codice di procedura penale, promulgato nel 1989, divenne noto al grande pubblico quando iniziò a collaborare prima a Il Sole 24 Ore e poi al Corriere della Sera, spiegando in modo semplice ed essenziale i problemi giuridici di attualità, con particolare attenzione ai profili costituzionali del diritto penale.
In uno dei suoi ultimi interventi sul Corriere (del 19 ottobre 2010, prima che l’improvvisa malattia lo sottraesse alla comunità giuridica italiana) aveva scritto, a proposito della durata dei processi: “In realtà, per raggiungere l’obiettivo di una ragionevole durata dei processi, (vuol dire, per l’imputato, diritto a essere giudicato ‘senza ingiustificato ritardo’), occorre prima percorrere ben altri itinerari di riforma, che sono quelli ormai più volte indicati anche su queste colonne. Dalle riforme di natura organizzativa e strutturale degli uffici giudiziari (a cominciare dalla revisione della geografia delle sedi) fino alle riforme incidenti sul funzionamento del processo (nel senso di snellirne i meccanismi, ridurne i formalismi, incrementare i filtri selettivi delle iniziative ‘inutili’). Si tratta di interventi a costo zero, che tuttavia vengono inspiegabilmente trascurati, mentre si ventilano idee minacciose e del tutto eccentriche (si pensi alla improponibile proposta di una Commissione parlamentare di inchiesta sull’operato della magistratura), le quali creano confusione ed equivoci, distogliendo l’attenzione dai veri problemi”.
Negli ultimi anni, si parlò spesso di una sua possibile nomina a componente laico del C.S.M. o a giudice costituzionale.
Ma la sua assoluta indipendenza di giudizio ed il suo estremo rigore intellettuale e morale non gli giovarono in un ambiente, quello contiguo alla politica, cui Vittorio Grevi non era aduso.
Ciao Vittorio.
Sit tibi terra levis.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel dicembre 2010)

martedì 14 dicembre 2010

LA COSTITUZIONE ECONOMICA

Con il termine di Costituzione economica si è soliti indicare l’insieme delle disposizioni costituzionali che riguardano l’economia.
Dal punto di vista bibliografico, è il titolo del primo volume, uscito nel lontano 1977, del monumentale Trattato di diritto commerciale e di diritto pubblico dell’economia curato da Francesco Galgano ed ancor oggi non terminato.
Che il primo volume di un’opera destinata a trattare, nel modo più ampio, della disciplina giuridica dei rapporti economici sia intitolato La Costituzione economica è certamente emblematico.
Sta a significare, infatti, che nella Costituzione si ritrovano i principi generali che, nei vari campi, devono informare l’intero ordinamento giuridico.
A quelli che vengono definiti i rapporti economici, la Costituzione dedica gli articoli dal 35 al 47.
Gli articoli 35, 36, 37, 38 parlano dela lavoro, in stretta connessione con l’articolo 1, secondo cui “l’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro”.
Gli articoli 39 e 40 trattano dell’organizzazione sindacale e del diritto di sciopero.
Gli articoli successivi riguardano problemi e settori specifici.
L’articolo 45 è dedicato alla cooperazione; l’articolo 46 (del tutto inattuato dal punto di vista concreto) alla c.d. cogestione dei lavoratori nell’ambito delle aziende. L’articolo 47, infine, tratta del risparmio.
La norma centrale, nell’ambito di tali disposizioni, è l’articolo 41, il cui contenuto era probabilmente ignorato dai più sino a quando, alcuni mesi fa, per qualche settimana si parlò di una sua possibile modificazione.
L’articolo 41 è dedicato alla libertà di iniziativa economica. In tale disposizione sono contenuti i principi fondamentali con cui il legislatore ordinario deve attenersi nel disciplinare il governo dell’economia. Di conseguenza, le mie parole saranno dedicate essenzialmente ad esaminare l’articolo 41.
Gli articoli 42, 43, 44 sono dedicati alla proprietà.
Si tratta di norme significative. L’articolo 42 parla dei limiti alla proprietà privata, in termini non molto diversi da quelli utilizzati dal codice civile del 1942. L’articolo 43 tratta dei monopoli: in base a tale norma fu ritenuta costituzionalmente legittima la nazionalizzazione dell’energia elettrica attuata nel 1962. Così pure, per molti anni, sino al 1975, in base all’articolo 43, fu legittimato il monopolio pubblico radiotelevisivo. L’articolo 44, invece, che riguarda la proprietà terriera, costituì il fondamento costituzionale della riforma agraria attuata negli anni cinquanta.
Torniamo all’articolo 41.
Tale norma riguarda la libertà di iniziativa economica ed è del seguente tenore: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La libertà economica, come pretesa alla non ingerenza del potere politico nei rapporti di produzione e di scambio, ha origini relativamente recenti.
La sua prima affermazione storica si ha nella Francia rivoluzionaria della fine del Settecento con il riconoscimento, accanto alla proprietà quale diritto “sacro e inviolabile” (articolo 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789), del principio della “libertà del commercio e dell’industria”.
L’emergere della libertà economica, intesa sia come principio politico che, come diritto individuale, è il frutto di una conquista della borghesia industriale che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, si fa portatrice di istanze di libertà della produzione e degli scambi.
Nell’Ottocento, tuttavia, sono rare le costituzioni che contengono un’espressa tutela dell’iniziativa e attività economica, distinta ed autonoma rispetto a quella prevista per la proprietà. In questo solco, si colloca anche lo Statuto albertino, il quale (all’articolo 29) riconosce e tutela “tutte le proprietà”, nel limite dell’”interesse pubblico legalmente accertato”. Solo con la Carta del Lavoro, elaborata nel 1927 nella vigenza dell’ordinamento corporativo fascista (fu definita il “testo base della politica economico-sociale corporativa”), si ebbe un espresso riconoscimento del ruolo centrale assegnato dall’ordinamento all’iniziativa economica privata.
L’articolo 41 della Costituzione, che giunge alla fine di questo processo storico, è il frutto di un compromesso fra le tre correnti di pensiero presenti nella Assemblea costituente, quella liberale, quella socialista e quella cattolico-solidarista.
L’articolo 41 è poi il frutto del pensiero economico dell’epoca. Leggendo la norma con gli occhi di oggi, stupiscono l’accento che viene posto (anche se la parola non è utilizzata) sulla programmazione economica, nonché l’assenza di espressioni come concorrenza e mercato, che fanno invece parte dell’attuale linguaggio economico.
La cultura economica di quegli anni era nettamente improntata in senso dirigistico; certamente una norma costituzionale sulla libertà di iniziativa economica oggi verrebbe scritta in modo diverso.
Vista con gli occhi di oggi, come si è detto, la norma può essere considerata incompleta (per la mancanza di riferimenti alla concorrenza ed al mercato), ma non certo superata o inaccettabile.
Il secondo comma pone, come limite alla libertà di iniziativa economica, il divieto di svolgimento della stessa “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ravvisato l’utilità sociale nella realizzazione di interessi costituzionalmente rilevanti (ad esempio la salute, il lavoro, la tutela della donna lavoratrice, il diritto al riposo settimanale, la tutela della famiglia, la tutela del contraente debole, l’interesse dei consumatori).
Il terzo comma dell’articolo 41, invece, è il fondamento della programmazione economica che ebbe, come metodo di governo dell’economia, notevole fortuna negli anni cinquanta e sessanta.
A tale proposito, la dottrina ha ritenuto che il costituente, usando la parola programmi anziché quella di piani, abbia inteso escludere ogni forma di pianificazione rigida (di tipo sovietico, per intendersi), a favore di una programmazione per incentivi. Sarebbe, quindi, legittima una disciplina che tenda a stimolare e indirizzare l’iniziativa privata attraverso strumenti indiretti (come sgravi fiscali e crediti agevolati), anche se una programmazione siffatta sembra oggi parzialmente confliggere con la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato.
Dopo lo Schema Vanoni del 1954, con la Legge 27 luglio 1967 n. 685 fu approvato il “Primo piano quinquennale 1966-1970”, che aveva lo scopo di definire “il quadro della politica economica, finanziaria e sociale del Governo e di tutti gli investimenti pubblici”. Un paradosso, come se fosse possibile disciplinare per legge i dati relativi allo sviluppo economico. Infatti, l’esperimento fallì clamorosamente e, da allora, anche per effetto del progressivo affermarsi delle scelte comunitarie nell’ambito del governo dell’economia, l’interesse della dottrina costituzionalistica (e della politica) per la programmazione economica è andato via via scemando, sino a scomparire.
Il Trattato di Roma, firmato il 25 marzo 1957, dal canto suo, ha affermato (articolo 4, primo paragrafo) il “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.
Il principio contenuto nell’articolo 4 del Trattato è ben lungi dal costituire una mera enunciazione programmatica, priva di effetti giuridici propri.
In applicazione del principio di supremazia del diritto comunitario su quello nazionale, gli Stati membri non sono abilitati ad adottare norme giuridiche confliggenti con i principi contenuti nel Trattato, ivi compresi, ovviamente, i principi del mercato aperto e della libera concorrenza.
All’impostazione dirigista sottesa all’articolo 41 si è, quindi, affiancata una nuova impostazione più schiettamente liberista che, sul piano dei rapporti fra poteri pubblici e mercato, ha portato ad un progressivo allontanamento dal modello di economia mista, implicito nella Costituzione e che ha caratterizzato, per oltre mezzo secolo, la vita del paese.
L’attuale testo dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione (introdotto dalla Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ha, poi, inserito nella Costituzione un richiamo esplicito alla dimensione comunitaria. Di conseguenza, secondo la Corte Costituzionale, l’ordinamento comunitario è divenuto un elemento integrante del parametro di costituzionalità per l’esame della normativa nazionale (si veda, da ultimo, la sentenza della Corte Costituzionale 15 aprile 2008, n. 103).
In conclusione, i già citati principi del libero mercato e della concorrenza, pur se non espressamente menzionati dall’articolo 41 della Costituzione, ma in quanto previsti dall’articolo 4 del Trattato, regolano ormai, a pieno titolo, la libertà di iniziativa economica nel nostro paese.
La recente iniziativa di cui parlavo prima e volta a modificare l’articolo 41 appare, quindi, pleonastica, se non addirittura una fuga in avanti. L’articolo 41 della Costituzione, integrato dall’articolo 4 del Trattato, è, infatti, in grado di garantire la più ampia libertà di iniziativa economica, nonché l’eliminazione di quelli che, già negli anni sessanta, Guido Carli definiva come i lacci e lacciuoli che storicamente hanno condizionato la libertà di iniziativa economica in Italia.
L’articolo 41 modificato sarebbe sostanzialmente solo un manifesto, privo di effetti giuridici concreti.
E’ da ricordare che mai, infatti, una qualsiasi norma liberalizzatrice è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale per violazione dell’articolo 41 nel testo attuale. Le liberalizzazioni che da sempre vengono invocate sono certamente indispensabili (basterà pensare alle limitazioni cui è soggetto il commercio, specie in certi ambiti come quello degli orari), ma la loro attuazione non trova ostacolo nella Costituzione, quanto nei problemi politici connessi alla forza che talune corporazioni ancora mantengono nella società.
Se vi è la volontà politica di liberalizzare taluni settori (e non mi pare che sempre vi sia: penso solo alla riforma della professione forense), la deregulation può essere attuata da subito, senza attendere alcuna riforma costituzionale, dallo Stato e dalle regioni, con leggi ordinarie e leggi regionali.
Come ha scritto l’ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida su Il Sole 24 Ore, “In ogni caso la Costituzione non c’entra. E’ cosa troppo seria perché si possa consentire di coinvolgerla e strumentalizzarla a beneficio di scelte o di non scelte politiche”.

(relazione tenuta presso il Rotary di Crema il 9 novembre 2010)

venerdì 8 ottobre 2010

UNA PROPOSTA PER LA FONDAZIONE

Dai primi di agosto, ormai, le vicende relative alla Fondazione “Città di Cremona” tengono banco nel dibattito politico locale.
Le polemiche si sono susseguite ed hanno assunto contorni non sempre chiari e comprensibili. Con l’usuale mentalità complottistica, si è iniziato a parlare, come era prevedibile, di retroscena e di poteri forti (la P2 e i servizi deviati, per fortuna, non sembrano ancora essere coinvolti).
In realtà, le polemiche politiche (che non mi interessano e in cui non voglio entrare) hanno, in concreto, alzato una cortina fumogena che ha avuto il risultato di nascondere i nodi istituzionali che la vicenda della trattativa per l’acquisto del complesso immobiliare di Palazzo Fodri ha messo drammaticamente a nudo.
Ignoro come, nel 2003, si sia pervenuti a stendere il testo dello Statuto della Fondazione, che è la “lex specialis” che regola l’intera vita dell’ente, dato che le norme contenute nel codice civile e nella legislazione statale e regionale sono assai limitate e frammentarie (D. Lgs. 4 maggio 2001 n. 207 e L.R. 13 febbraio 2003, n. 1).
Ma sono fermamente convinto della assoluta e totale inadeguatezza dello Statuto della Fondazione.
Il patrimonio della Fondazione è pubblico, sia in quanto destinato a scopi di utilità pubblica come quelli socio-assistenziali, sia perché la Fondazione nasce dalla fusione di quattro istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza, la cui natura pubblicistica era stata definita dalla Legge 17 luglio 1890 n. 6972 (si tratta della legge “Crispi”, che laicizzò la beneficenza, sino ad allora in mano alla Chiesa ed ai privati). Di contro, la Fondazione è un ente di diritto privato. Le uniche forme di controllo sulla stessa sono quelle previste dall’articolo 25 del codice civile (controllo dell’autorità governativa, nel nostro caso da identificarsi con la Regione) e dall’articolo 18 del D. Lgs. 4 maggio 2001 n. 207 (comunicazione alla Regione degli atti di dismissione degli immobili, finalizzata all’esercizio, da parte del Pubblico Ministero, dell’azione di annullamento delle deliberazioni contrarie alla legge o allo Statuto).
Lo Statuto della Fondazione deve perciò essere opportunamente modificato, per consentire che le scelte della Fondazione stessa siano coordinate con le politiche del Comune di Cremona.
Secondo il preambolo dello Statuto, “La Fondazione opera nell’ambito degli indirizzi stabiliti dalla programmazione sociale territoriale d’intesa con il Comune di riferimento e in sinergia con gli altri soggetti Istituzionali e sociali che costituiscono la rete del welfare locale, con l’obiettivo di contribuire al potenziamento e alla qualificazione del sistema territoriale dei servizi e degli interventi, anche promuovendo opportunità di sviluppo attraverso nuovi progetti ed investimenti”.
Tali parole, tuttavia, per usare una icastica espressione di Ernesto Rossi, famoso polemista degli anni cinquanta e sessanta, sono “aria fritta”. Ad esse, infatti, non corrisponde nessuno specifico obbligo della Fondazione nei confronti del Comune.
Alcune modifiche statutarie appaiono perciò, alla luce dei recenti avvenimenti, ineludibili.
In particolare, dovranno essere previsti una serie di atti che la Fondazione avrà l’obbligo di trasmettere al Comune, affinché questo, ove si rendesse necessario, possa sollecitare alla Regione l’esercizio dei poteri di vigilanza che le competono. Fra tali atti non potranno non essere ricompresi i bilanci (preventivi e consuntivi) della Fondazione. Oggi, infatti, i bilanci della Fondazione sono segreti, in quanto i bilanci stessi, secondo il Regolamento regionale 2 aprile 2001, n. 2 (che ha istituito, ai sensi dell’articolo 7 del D.P.R. 10 febbraio 2000 n. 361, il Registro regionale delle persone giuridiche private, tenuto dalle Camere di Commercio) non fanno parte degli atti che devono essere iscritti in tale Registro.
Sono, poi, dell’avviso di non consentire alla Fondazione la costituzione di società di capitali o la partecipazione nelle stesse. Soprattutto perché, come ho già avuto modo di chiarire su queste stesse colonne, con la cessione delle quote di una società cui possono essere conferiti gli immobili si eluderebbero le norme (il già citato articolo 18 del D. Lgs. 4 maggio 2001 n. 207) che attribuiscono alla Regione un controllo sulle dismissioni degli immobili costituenti il patrimonio delle Fondazioni derivanti dalla trasformazione delle istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza (non risulta, infatti, che, della dismissione di quote di società, la Regione debba essere notiziata).
Non è da escludere, poi, che la costituzione di una società possa prestarsi alla realizzazione di operazioni di elusione fiscale.
Come è noto, secondo la giurisprudenza più recente (si veda, da ultimo, la sentenza della Corte di Cassazione in data 26 febbraio 2010 n. 4737), in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, applicabile anche ai tributi non armonizzati in sede comunitaria, il quale preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici.
Resta da dire delle modalità con cui lo Statuto della Fondazione potrebbe essere modificato.
E’ lo stesso Consiglio di Amministrazione della Fondazione che è competente per le modifiche statutarie. Si potrebbe, quindi, pensare, da parte di qualcuno, che ben difficilmente la Fondazione farebbe hara kiri, riducendo il proprio potere, oggigiorno pressoché assoluto.
Ma il Comune ha, comunque, due potenti strumenti di “moral suasion” per spingere la Fondazione ad adottare le necessarie modifiche statutarie.
Innanzitutto gli amministratori della Fondazione sono nominati dal Sindaco del Comune di Cremona che, quindi, su un piano puramente politico, ha certo il potere di vincolare le nomine alla adozione delle modifiche statutarie. Secondariamente, sempre secondo lo Statuto, il Comune deve necessariamente esprimere un parere sulle proposte di modifiche statutarie.

* * *


Non mi illudo, tuttavia, che queste mie note, dettate da elementare buon senso (quello che ha ispirato il “buon governo” di tanti amministratori del passato), troveranno udienza. La politica locale segue logiche che sempre più mi sfuggono e non riesco a comprendere.
E poi, ad onta di più di quattro decenni di esperienza professionale, soprattutto nel campo del diritto pubblico, ho un grave ed ineliminabile difetto: sono cremonese (e non milanese, bresciano, mantovano, parmense), in una città in cui, per essere esperti, bisogna essere, prima di ogni altra cosa, forestieri.
Paradossi del provincialismo.

(articolo pubblicato sul quotdiano "La Cronaca" nel settembre 2010)

GLI AFFARI DELLA FONDAZIONE SONO AFFARI DI TUTTI

La pigra e calda estate dei cremonesi è stata, quest'anno, scossa dalle polemiche sulle scelte della Fondazione “Città di Cremona”.
Non è mio intendimento parlare dei rapporti fra Fondazione e Comune (è argomento politico in cui non voglio entrare e che non mi interessa) e neppure trattare nel merito dell'investimento che la Fondazione si ripromette di fare con l'acquisto dello storico Palazzo Fodri e degli edifici circostanti (si tratta di argomento prettamente economico-finanziario, per approfondire il quale non ho alcuna particolare competenza).
Mi limiterò, quindi, ad alcune considerazioni di carattere giuridico, che pure hanno una loro rilevanza.
La Fondazione “Città di Cremona” è sì una persona giuridica di diritto privato, ma non è certo una fondazione qualsiasi. In essa è confluito il patrimonio degli antichissimi “luoghi pii”, che, alla fine dell'ottocento, con la laicizzazione della beneficenza furono trasformati dalla legge “Crispi” (Legge 17 luglio 1890, n. 6972) nelle “istituzioni pubbliche di assistenza e beneficenza”, più note come II.PP.A.B.
La legge “Crispi” affidò alle II.PP.A.B. l'amministrazione dei lasciti che, nel corso dei secoli, il buon cuore di tanti benefattori aveva devoluto ai poveri, ponendo due fondamentali vincoli: in primo luogo tutti i patrimoni ed i redditi delle II.PP.A.B. erano vincolati ai poveri, così come voluto dai benefattori; secondariamente veniva fatto divieto di utilizzare l'alienazione del patrimonio per coprire le spese di gestione.
In questo modo, il colossale patrimonio della II.PP.A.B. (valutato nel 2000 in oltre 100.000 miliardi di lire) è stato salvaguardato per oltre un secolo.
La Legge 8 novembre 2000 n. 328 (legge quadro sui servizi sociali) ed il successivo D. Lgs. 4 maggio 2001 n. 207 hanno profondamente innovato il sistema. Le istituzioni che svolgevano direttamente attività di erogazione di servizi assistenziali erano tenute a trasformarsi in “aziende pubbliche di servizi alla persona” (articolo 5 del decreto legislativo). Di contro, secondo l'articolo 16, le istituzioni per le quali non sussistevano le condizioni per la trasformazione in aziende pubbliche, dovevano trasformarsi in persone giuridiche di diritto privato, associazioni o fondazioni, nel rispetto delle originarie finalità statutarie.
Nell'ambito della Regione Lombardia, tali modalità di trasformazione sono state disciplinate dalla L.R. 13 febbraio 2003, n. 1.
La Fondazione “Città di Cremona” fu, quindi, istituita il 23 dicembre 2003 a seguito della trasformazione e fusione di quattro istituzioni cremonesi (fra cui l'Istituto elemosiniere ed il Centro geriatrico cremonese).
Secondo l'articolo 16 del codice civile, la Fondazione ha un proprio Statuto (liberamente consultabile sul sito internet della Fondazione stessa).
La Fondazione è titolare di un ingente patrimonio, la cui gestione è vincolata al perseguimento dei fini (che rimangono di natura socio-assistenziale) della Fondazione stessa.
La dismissione di uno o più beni costituenti il patrimonio della fondazione obbliga l'ente al reinvestimento dei proventi nell'acquisto di altri beni “più funzionali al raggiungimento delle medesime finalità”.
E' noto coma la Fondazione abbia recentemente alienato un fondo rustico di ingente valore. Ha, quindi, l'obbligo statutario di reinvestire i proventi di tale dismissione.
Il prospettato acquisto di Palazzo Fodri non è quindi determinato da una scelta speculativa, come, da parte di taluni, incautamente, è stato detto, ma costituirebbe un modo per adempiere a tale obbligo statutario.
Secondo l'articolo 5 del proprio Statuto, la Fondazione “Città di Cremona” può costituire società di capitali o partecipare alle stesse, a condizione “che svolgano in via strumentale attività diretta al perseguimento degli scopi statutari”. Ciò è conforme all'orientamento giurisprudenziale per cui solo lo Statuto può porre limiti alla costituzione di società da parte di una fondazione: “In assenza di specifici divieti dell'atto costitutivo o dello statuto, è legittima la costituzione da parte di una fondazione di una società a responsabilità limitata” (Tribunale Napoli, 14 gennaio 1994).
Ciononostante, l'orientamento della Fondazione di costituire una società a responsabilità limitata allo scopo di acquisire e poi gestire il complesso di Palazzo Fodri, suscita perplessità. Mentre, infatti, in caso di insolvenza, la società a responsabilità limitata sarebbe comunque destinata al fallimento, in quanto imprenditore commerciale, non altrettanto potrebbe dirsi di una fondazione che sarebbe soggetta al fallimento solo se esercitasse “professionalmente un'attività economica organizzata che, per le modalità con cui viene svolta, le dimensioni che raggiunge e i risultati cui perviene, non appare più strumentale al perseguimento dei fini dell'ente, divenendo assorbente e predominante rispetto agli stessi” (Tribunale Milano, 16 luglio 1998). Il che non sarebbe certamente il caso della Fondazione “Città di Cremona”, in cui resterebbe prevalente l'attività di tipo socio-assistenziale.
Non si coglie, quindi, il senso dell'interposizione, fra la Fondazione “Città di Cremona” e la proprietà dell'immobile (e di altri eventuali immobili da acquistare in futuro) di una società a responsabilità limitata.
A meno che non si voglia, con un siffatto artificio, evitare che il Pubblico Ministero possa esercitare l'azione di annullamento delle deliberazioni della Fondazione, ai sensi dell'articolo 23 del codice civile (mentre in una società a responsabilità limitata le deliberazioni sarebbero impugnabili solo dai soci, dagli amministratori e dal Collegio sindacale).
L'effetto maggiormente distorsivo, tuttavia, si avrebbe nell'ipotesi di una eventuale, futura alienazione del patrimonio immobiliare della società. La Fondazione, infatti, ha l'obbligo di inviare gli atti relativi alla dismissione alla Regione, che può a sua volta segnalare al Pubblico Ministero l'opportunità di esercitare l'azione di cui all'articolo 23 del codice civile (articolo 18 del D. Lgs. 4 maggio 2001, n. 207). Tale obbligo, invece, non farebbe capo alla società a responsabilità limitata, partecipata dalla Fondazione, che diverrebbe proprietaria degli immobili.
Ma vi è di più: l'obbligo, per la Fondazione, di notiziare la Regione in ordine alle alienazioni immobiliari non riguarderebbe l'alienazione delle quote della società. La Fondazione potrebbe quindi, attraverso lo strumento dell'alienazione delle quote della società, alienare gli immobili, precedentemente conferiti alla società, eludendo qualsiasi controllo da parte della Regione.
Lungi da me il pensare che questo sia l'intendimento degli attuali amministratori della Fondazione. Ma, come l'esperienza insegna, la prudenza non è mai troppa quando si crea un assetto istituzionale destinato a durare nel tempo.
Non è certo, questa, questione di poco conto, dato che la Fondazione, pur se soggetto giuridico di diritto privato, è titolare di un patrimonio di origine pubblicistica che, nell'interesse di tutti, deve essere preservato ed incrementato.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel settembre 2010)

DA NAPOLEONE AL FEDERALISMO: APOGEO E DECLINO DEL PREFETTO

Ha destato scalpore, nei primi giorni di luglio, la riunione, al teatro Capranica di Roma, di oltre 100 prefetti, che hanno detto no ai tentativi, probabilmente per il momento rientrati ma sempre latenti, di abolire l’istituto prefettizio “con il tratto di penna di un emendamento”.
La figura del prefetto, frutto del governo di Napoleone, varcò le Alpi e venne introdotta in Italia con decreto del 6 maggio 1802. Con la caduta di Napoleone e la restaurazione dei precedenti ordinamenti monarchici, il nuovo sistema di organizzazione amministrativa, incentrato sul prefetto, che si era rivelato efficiente, fu mantenuto in vita ad onta del mutato clima politico.
Così accadde anche nel Regno di Sardegna in cui, con la legge Rattazzi (Legge 23 ottobre 1859 n. 3702), il territorio fu diviso in province, con a capo un governatore (il cui nome fu cambiato in quello di prefetto con il R.D. 9 ottobre 1861 n. 250).
Nel 1860, per iniziativa di Cavour, fu istituita, presso il Consiglio di Stato, la Commissione temporanea di legislazione. Frutto dei lavori della Commissione fu il progetto Minghetti sull’ordinamento delle regioni, presentato il 13 marzo 1861.
Marco Minghetti aveva elaborato un progetto di riordino amministrativo ispirato ad un ampio decentramento. La proposta tendeva a conciliare le esigenze del nuovo Stato con le esperienze e le tradizioni di governo locali. Ipotizzava sei grandi unità territoriali da costituire come corpi intermedi tra centro e periferia.
Minghetti proponeva un disegno realmente innovativo, del tutto inedito nel contesto europeo, che si basava sull’idea di uno Stato minimo in grado di enfatizzare il principio del self-government, nel settore cruciale della spesa pubblica, ma anche di preservare il diritto naturale dei cittadini di associarsi in entità fortemente coese.
Purtroppo, alla fine di un lungo dibattito parlamentare, non privo di toni accesi, non si trovò di meglio che estendere all’Italia unita la legge piemontese del 1859. Alla cosiddetta piemontesizzazione dell’amministrazione unitaria si pervenne, infine, con la nuova legge comunale e provinciale (Legge 20 marzo 1865, n. 2245, all. A).
Figura centrale dell’assetto dei poteri locali, delineato da tale legge (che riprende, senza particolari innovazioni, la precedente legge Rattazzi), è il prefetto, struttura portante di raccordo fra centro e periferia.
Secondo l’articolo 3 della legge “il Prefetto rappresenta il potere esecutivo in tutta la provincia; esercita le attribuzioni a lui demandate dalle leggi, e veglia sul mantenimento dei diritti dell’autorità amministrativa elevando, ove occorra, i conflitti di giurisdizione…; provvede alla pubblicazione ed alla esecuzione delle leggi; veglia sull’andamento di tutte le Pubbliche Amministrazioni, ed in caso d’urgenza fa i provvedimenti che crede indispensabili nei diversi rami del servizio; soprintende alla pubblica sicurezza, ha il diritto di disporre della forza pubblica, e di richiedere la forza armata; dipende dal Ministro dell’Interno e, ne eseguisce le istruzioni”.
Inizialmente il prefetto aveva il monopolio istituzionale delle relazioni fra il centro e la periferia, ma tale posizione viene rapidamente erosa. Già il R.D. 22 settembre 1867 n. 3956 (la cosiddetta legge Coppino, in materia scolastica) istituiva, nei capoluoghi di provincia, i provveditorati agli studi, in diretta relazione con il Ministero della Pubblica Istruzione. Successivamente, il R.D. 26 settembre 1869 n. 5286 istituiva le intendenze di finanza, uffici alle dirette dipendenze del Ministero delle Finanze. Seguirono gli uffici del genio civile dipendenti dal Ministero dei Lavori Pubblici.
L’istituto prefettizio subisce, quindi, un progressivo indebolimento, con invece la mappa degli uffici periferici statali che si accresce in maniera disordinata; ma, per altro verso, la riduzione del peso del prefetto veniva compensata dall’attribuzione di numerosi altri compiti di ingerenza nell’attività e nell’organizzazione degli enti locali.
Il prefetto godeva della garanzia amministrativa per la quale non poteva essere chiamato a rendere conto dell’esercizio delle sue funzioni, fuorché dalla superiore autorità amministrativa, né sottoposto a procedimento penale per alcun atto di tale esercizio senza autorizzazione del re, previo parere del Consiglio di Stato (articolo 8 della Legge 20 marzo 1865 n. 2248, all. A).
I prefetti rappresentavano un corpo omogeneo per origine sociale e formazione culturale, che coincidevano con la provenienza sociale e con la cultura della classe politica e della ristretta classe dirigente dell’epoca. Furono, probabilmente, queste caratteristiche, piuttosto che le leggi di indirizzo accentratore, che permisero a quei funzionari di realizzare, in pochi anni, la fusione delle province degli Stati preunitari nello Stato nazionale.

* * *

Dopo il fascismo, che si caratterizzò per il tendenziale progressivo assorbimento degli enti locali nell’orbita dell’ordinamento statale, con la compressione di tutti gli spazi di autonomia politica da questi conquistati nell’Italia postunitaria, la Costituzione repubblicana tace dell’istituto prefettizio perché, in seno all’Assemblea Costituente non si raggiunse un accordo in ordine al mantenimento o meno dell’istituto.
Con l’articolo 5, pur scegliendosi una forma di Stato unitaria e non federale, il principio di autonomia locale viene sancito e collocato fra i principi fondamentali del nuovo ordinamento: “La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
A segnare il confine che separa il modello autonomistico da più modeste forme di decentramento amministrativo, è la presenza, al qua dello stesso, e l’assenza, al di là, di situazioni giuridiche inquadrabili in un regime di garanzie costituzionali. Gli enti locali, infatti, sono autonomi in ragione degli spazi liberi di azione che possono segnare con decisioni imperative provenienti dai loro organi.
Nel 1970, con ventidue anni di ritardo, entra in funzione l’ordinamento regionale. Il prefetto perde, con altre, la sua tradizionale e fondamentale funzione di controllo sugli enti locali ed entra in una sorta di cono d’ombra istituzionale dal quale non è più uscito.
E’ legittimo, quindi, domandarsi se, in uno Stato regionale a forte caratterizzazione autonomistica, se non, almeno in prospettiva, federale, abbia ancora un significato la presenza del prefetto.
E’ ben vero che, fin dai suoi più remoti antecedenti storici, il prefetto si è sempre caratterizzato, in primo luogo, come il referente istituzionale delle istanze statuali unitarie a livello locale.
Ma è altrettanto vero che in nessuno Stato ad organizzazione federale esiste un organo come il prefetto, e cioè un rappresentante del Governo centrale presso le comunità locali: rischierebbe, infatti, di essere un organo autoreferenziale e che amministra solo se stesso. Il futuro destino del prefetto è, alla luce delle riforme istituzionali di cui oggi si parla, incerto ed il prefetto, in prospettiva, rischia, dopo due secoli di servizio, sotto regimi politici diversi, il pensionamento.

(articolo pubblicato su "La Cronaca" nel luglio 2010)

IL REBUS DI POMIGLIANO

Chi mi conosce sa bene che, per formazione e cultura, sono certamente più vicino a quella che è stata definita la “filosofiat” che non ai metalmeccanici della FIOM.
Credo in una moderna cultura d’impresa e penso che, sovente, la concezione che taluni sindacalisti hanno delle relazioni industriali sia vecchia ed inadatta alle esigenze di una società globalizzata. Riconosco, infine, a Marchionne il merito di aver riportato la Fiat ad essere competitiva sui mercati mondiali.
Ciononostante, debbo dire che una parte dell’accordo aziendale relativo allo stabilimento di Pomigliano d’Arco non mi convince. Si tratta dei punti 14) e 15) dell’accordo, in forza dei quali il lavoratore può essere punito, allorquando proclami lo sciopero se l’azienda ha comandato lo straordinario per esigenze di avviamento, recuperi produttivi e punte di mercato.
Lo sciopero è un diritto tutelato dalla Costituzione. L’articolo 40, infatti, afferma che “Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano”.
La norma costituzionale rimanda espressamente al legislatore ordinario il compito di definire i limiti entro i quali possa esercitarsi il diritto di sciopero.
Malgrado attese e progetti, leggi che regolino lo sciopero non ve ne sono, almeno sul piano generale, in quanto la speciale disciplina posta dalla Legge 12 giugno 1990 n. 146 riguarda solo i servizi pubblici essenziali.
Come ha sostenuto Giuliano Amato nel suo Manuale di diritto pubblico, “si può solo rilevare, con sicurezza, come il diritto di sciopero si risolva in una situazione giuridica soggettiva di cui è titolare il singolo lavoratore, destinata per altro ad operare in una dimensione storicamente accertata come collettiva (della quale è, dunque, protagonista il gruppo organizzato, qualunque sia questa sua organizzazione)”.
Se la Costituzione consente che il diritto di sciopero possa essere limitato per legge, è evidente che un accordo sindacale non lo può, di contro, limitare.
In questo senso si sono espressi due illustri costituzionalisti, certamente non conosciuti per il loro estremismo.
Massimo Luciani ha affermato che “Il diritto allo sciopero non è derogabile: la Costituzione lo prevede per assicurare la tutela alla parte più debole nel rapporto di lavoro. E’ un diritto che non è nella disponibilità di colui che ne è titolare e dunque non può far parte di una pattuizione. Su questo punto ci sono dubbi molto seri di costituzionalità”. Ma a nutrire perplessità sullo stesso punto è anche l’ex presidente della Corte Costituzionale Piero Alberto Capotosti: ”Così facendo si fa dipendere da un contratto aziendale la limitazione di un diritto sancito dall’art. 40 della Costituzione. E’ vero che per i pubblici servizi esistono limitazioni al diritto di sciopero (ad esempio per fasce orarie), ma queste avvengono in forza di una legge ‘ad hoc’ e non sulla base di un contratto aziendale. Per giunta, sul piano dell’efficacia va valutato che il diritto allo sciopero economico viene posto in discussione limitatamente ad un’azienda e solo per l’area di Pomigliano… I dubbi dal punto di vista costituzionale sono forti”.
Diversa è l’opinione del giuslavorista Pietro Ichino. Egli, dopo aver configurato il punto 14) dell’accordo (denominato “clausola di responsabilità”) come un patto di tregua sindacale ha affermato che “se la proclamazione dello sciopero è illegittima per violazione di un patto di tregua validamente sottoscritto dal sindacato proclamante, debba considerarsi illegittima anche l’adesione del lavoratore a quello sciopero”.
Vi è, da ultimo, il problema dell’efficacia di un accordo sottoscritto solo da alcune organizzazioni sindacali, ma non dalla FIOM.
L’accordo aziendale in esame, infatti, è un contratto collettivo di diritto comune, privo di efficacia erga omnes, essendo stato abolito l’ordinamento corporativo e non avendo trovato ancora attuazione l’articolo 39 della Costituzione.
E’ un atto giuridico di natura prettamente civilistica inquadrabile nell’ambito degli atti negoziali e riferibile alla nozione dell’autonomia privata di carattere collettivo. Esso vincola solo gli iscritti che, attraverso l’adesione, hanno conferito all’associazione sindacale un mandato per contrattare in proprio nome.
Da ciò deriva che l’accordo resterebbe inefficace nei confronti dei lavoratori aderenti alla FIOM.
Come ha sostenuto ancora Piero Alberto Capotosti, se si voleva limitare il ricorso allo sciopero nello stabilimento di Pomigliano d’Arco, “sarebbe stato meglio muoversi sul piano dei disincentivi economici e non su quello delle sanzioni disciplinari o del licenziamento”.

(articolo pubblicato su "La Cronaca" nel giugno 2010)

IL TABU’ DELL’ARTICOLO 41

Sino alle recenti proposte di modifica, probabilmente molti ignoravano il contenuto dell’articolo 41 della Costituzione.
Tale norma riguarda la libertà di iniziativa economica ed è del seguente tenore: “L’iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”. La libertà economica, come pretesa alla non ingerenza del potere politico nei rapporti di produzione e di scambio, ha origini relativamente recenti.
La sua prima affermazione storica si ha nella Francia rivoluzionaria della fine del Settecento con il riconoscimento, accanto alla proprietà quale diritto “sacro e inviolabile” (articolo 17 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789), del principio della “libertà del commercio e dell’industria”.
L’emergere della libertà economica, intesa sia come principio politico che come diritto individuale, è il frutto di una conquista della borghesia industriale che, a partire dalla seconda metà del XVIII secolo, si fa portatrice di istanze di libertà della produzione e degli scambi.
Nell’Ottocento, tuttavia, sono rare le costituzioni che contengono un’espressa tutela dell’iniziativa e attività economica, distinta ed autonoma rispetto a quella prevista per la proprietà. In questo solco, si colloca anche lo Statuto albertino, il quale (all’articolo 29) riconosce e tutela “tutte le proprietà”, nel limite dell’”interesse pubblico legalmente accertato”. Solo con la Carta del Lavoro, elaborata nel 1927 nella vigenza dell’ordinamento corporativo fascista (fu definita il “testo base della politica economico-sociale corporativa”), si ebbe un espresso riconoscimento del ruolo centrale assegnato dall’ordinamento all’iniziativa economica privata.
L’articolo 41 della Costituzione, che giunge alla fine di questo processo storico, è il frutto di un compromesso fra le tre correnti di pensiero presenti nella Assemblea costituente, quella liberale, quella socialista e quella cattolico-solidarista.
L’articolo 41 è poi il frutto del pensiero economico dell’epoca. Leggendo la norma con gli occhi di oggi, stupiscono l’accento che viene posto (anche se la parola non è utilizzata) sulla programmazione economica, nonché l’assenza di espressioni come concorrenza e mercato.
La cultura economica di quegli anni era nettamente improntata in senso dirigistico; certamente una norma costituzionale sulla libertà di iniziativa economica oggi verrebbe scritta in modo diverso.
Vista con gli occhi di oggi, come si è detto, la norma può essere considerata incompleta (per la mancanza di riferimenti alla concorrenza ed al mercato), ma non certo superata o inaccettabile.
Il secondo comma pone, come limite alla libertà di iniziativa economica, il divieto di svolgimento della stessa “in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”.
La giurisprudenza della Corte Costituzionale ha ravvisato l’utilità sociale nella realizzazione di interessi costituzionalmente rilevanti (ad esempio la salute, il lavoro, la tutela della donna lavoratrice, il diritto al riposo settimanale, la tutela della famiglia, la tutela del contraente debole, l’interesse dei consumatori).
Il terzo comma dell’articolo 41, invece, è il fondamento della programmazione economica che ebbe, come metodo di governo dell’economia, notevole fortuna negli anni cinquanta e sessanta.
A tale proposito, la dottrina ha ritenuto che il costituente, usando la parola programmi anziché quella di piani, abbia inteso escludere ogni forma di pianificazione rigida (di tipo sovietico, per intendersi), a favore di una programmazione per incentivi. Sarebbe, quindi, legittima una disciplina che tenda a stimolare e indirizzare l’iniziativa privata attraverso strumenti indiretti (come sgravi fiscali e crediti agevolati), anche se una programmazione siffatta sembra oggi parzialmente confliggere con la disciplina comunitaria degli aiuti di Stato.
Dopo lo “schema Vanoni” del 1954, con la Legge 27 luglio 1967 n. 685 fu approvato il “Primo piano quinquennale 1966-1970”, che aveva lo scopo di definire “il quadro della politica economica, finanziaria e sociale del Governo e di tutti gli investimenti pubblici”. L’esperimento fallì clamorosamente e, da allora, anche per effetto del progressivo affermarsi delle scelte comunitarie nell’ambito del governo dell’economia, l’interesse della dottrina costituzionalistica (e della politica) per la programmazione economica è andato via via scemando, sino a scomparire.
Il Trattato di Roma, firmato il 25 marzo 1957, dal canto suo, ha affermato (articolo 4, primo paragrafo) il “principio di un’economia di mercato aperta e in libera concorrenza”.

Il principio contenuto nell’articolo 4 del Trattato è ben lungi dal costituire una mera enunciazione programmatica, priva di effetti giuridici propri.
In applicazione del principio di supremazia del diritto comunitario su quello nazionale, gli Stati membri non sono abilitati ad adottare norme giuridiche confliggenti con i principi contenuti nel Trattato, ivi comprensi, ovviamente, i principi del mercato aperto e della libera concorrenza.
All’impostazione dirigista sottesa all’articolo 41 si è, quindi, affiancata una nuova impostazione più schiettamente liberista che, sul piano dei rapporti fra poteri pubblici e mercato, ha portato ad un progressivo allontanamento dal modello di economia mista, implicito nella Costituzione e che ha caratterizzato, per oltre mezzo secolo, la vita del paese.
L’attuale testo dell’articolo 117, primo comma, della Costituzione (introdotto dalla Legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3) ha, poi, inserito nella Costituzione un richiamo esplicito alla dimensione comunitaria. Di conseguenza, secondo la Corte Costituzionale, l’ordinamento comunitario è divenuto un elemento integrante del parametro di costituzionalità per l’esame della normativa nazionale (si veda, da ultimo, la sentenza della Corte Costituzionale 15 aprile 2008, n. 103).
In conclusione, i già citati principi del libero mercato e della concorrenza, pur se non espressamente menzionati dall’articolo 41 della Costituzione, ma in quanto previsti dall’articolo 4 del Trattato, regolano ormai, a pieno titolo, la libertà di iniziativa economica nel nostro paese.
La recente iniziativa governativa volta a modificare l’articolo 41 appare, quindi, pleonastica, se non addirittura una fuga in avanti. L’articolo 41 della Costituzione, integrato dall’articolo 4 del Trattato, è, infatti, in grado di garantire la più ampia libertà di iniziativa economica, nonché l’eliminazione di quelli che, già negli anni sessanta, Guido Carli definiva come i lacci e lacciuoli che storicamente hanno condizionato la libertà di iniziativa economica in Italia.
L’articolo 41 modificato sarebbe sostanzialmente solo un manifesto, privo di effetti giuridici concreti.
E’ da ricordare che mai, infatti, una qualsiasi norma liberalizzatrice è stata dichiarata illegittima dalla Corte Costituzionale per violazione dell’articolo 41 nel testo attuale. Le liberalizzazioni che da sempre vengono invocate sono certamente indispensabili (basterà pensare alle limitazioni cui è soggetto il commercio, specie in certi ambiti come quello degli orari), ma la loro attuazione non trova ostacolo nella Costituzione, quanto nei problemi politici connessi alla forza che talune corporazioni ancora mantengono nella società.
Se vi è la volontà politica di liberalizzare taluni settori (e non mi pare che sempre vi sia: penso solo alla riforma della professione forense), la deregulation può essere attuata da subito, senza attendere alcuna riforma costituzionale, dallo Stato e dalle regioni, con leggi ordinarie e leggi regionali.
Come ha scritto l’ex Presidente della Corte Costituzionale Valerio Onida su Il Sole 24 Ore, “In ogni caso la Costituzione non c’entra. E’ cosa troppo seria perché si possa consentire di coinvolgerla e strumentalizzarla a beneficio di scelte o di non scelte politiche”.

(articolo pubblicato sul quotidiano "La Cronaca" nel giungo 2010)